Alfabeta - anno VIII - n. 80 - gennaio 1986

pagato alle banche straniere 30 miliardi di dollari di interessi sui prestiti, per lo più contratti negli anni Settanta. Per pagare debiti e interessi i paesi in via di sviluppo hanno soltanto una strada: accelerare le esportazioni verso i paesi industrializzati, e ridurre il più possibile le importazioni. Maggiori esportazionifi traducono in una maggiore offerta di materie prime, e perciò in prezzi ancora più bassi. Minori importazioni dai paesi industrializzati si traducono in un minore sviluppo di questi ultimi, quindi in una minore domanda di materie prime e in prezzi ancora più bassi. Lasciata a se stessa, la spirale deflazionistica non seppellisce solo l'inflazione. Il mondo degli aggregati statistici riflette, imperfettamente, il mondo dei fenomeni economici. Alcuni fenomeni sono più vistosi e, forse, più significativi di altri. Per esempio, dal 24 ottobre scorso il London Metal Exchange, principale piazza del mondo per la contrattazione dei metalli, ha dovuto sospendere il mercato dello stagno. Ancor oggi (verso la metà di dicembre) non si sa quando si riprenderanno le contrattazioni; ciò significa che da poco meno di due mesi il commercio mondiale dello stagno è ridotto ai minimi termini, per non dire che è virtualmente bloccato (ha chiuso le contrattazioni anche la borsa dei metalli di Kuala Lampur, capitale della Malaysia, uno dei maggori paesi produttori di stagno). Che cosa è accaduto? In sostanza, i prezzi dello stagno sono scesi così in basso che l'International Tin Council (l'organizzazione di produttori e consumatori di stagno) che «regola» gli scambi del metallo è sull'orlo della bancarotta, e non riesce ad assicurare più un «minimo» (in effetti la vicenda è molto più complicata: per chi fosse interessato ad approfondirla, rinviamo ad alcuni articoli sull'argomento; per esempio, Tin follies, Wall Street Journal, 4 novembre 1985; Lesson from the tin crisis, Financial Times, 4 novembre 1985; Stagno, un meccanismo rotto nelle mani del cartello Itc, Il Sole 24 Ore, 12novembre 1985; La Bolivie risque de disparaitre de la liste des grands producteurs, Le Monde, 3 dicembre 1985). Lo stagno probabilmente non è adatto ad eccitare la fantasia popolare. Ma il petrolio, se non altro per precedenti condizionamenti da «crisi energetica», sì. Non solo, come ricordava The Economist, il prezzo del greggio è sceso del 5,5% negli ultimi dodici mesi (prezzo calcolato in Sdr), ma appare destinato a scendere ulteriormente nel 1986. Lunedì 9 dicembre l'Opec ha reso noto che non tenterà più di mantenere un livello determinato di produzione, cercando di contenere la produzione dei paesi membri dell'organizzazione in uno sforzo risultato ormai insostenibile, ma cercherà di mantenere la sua fetta del mercato mondiale anche a costo di ridurre sensibilmente i prezzi. Finisce il blocco dei prezzi Opec titolava, il giorno dopo, la prima pagina del Sole 24 Ore. Tempi duri per i «cartelli», siano essi dello stagno o del petrolio o di altro. Con ciò non finisce solo il «blocco dei prezzi Opec» (già da tempo saltato), ma anche un'epoca, iniziata nel 1974, l'epoca della cosiddetta • ;:;:; «crisi energetica». È strano che, a ' .s parte Il Sole 24 Ore, i nostri quotig:> diani maggiori ( Corriere della Se- ~ ra, La Stampa, La Repubblica, Il ~ Giornale per fare qualche esem- -. pio) non abbiano ritenuto la «stori- .S: c::s ca» notizia degna di nulla di più ~ §A della pagina economica, colloca- __, zione formalmente ineccepibile, ~ ma che non precludeva un qualche ~ modesto affacciarsi dell'argomen- ~ to in zone più trafficate dal fruito- l re, nei tempi andati, di colossali va- ~ langhe tipografiche sull'aumento dei prezzi del petrolio e sulla famigerata Opec. S i potrebbe, è vero, osservare con qualche malizia che negli stessi giorni le prime pagine erano state affaccendate dall'aumento del prezzo della benzina (per la precisione del carico fiscale su di essa) deciso dal governo, nell'ordine di 95 lire il litro. Il raffronto fra le due notizie poteva essere forse troppo crudo per l'automobilista più sprovveduto e per l'inquilino gasolio-dipendente. Per aggiornare la cronaca, diremo solo che, sempre martedì 10dicembre, il prezzo del petrolio è sceso sensibilmente in tutte le principali piazze mondiali, nell'ordine di uno-due dollari il barile; quello del Mare del Nord è arrivato a sfiorare i 25 dollari (si veda Il Sole 24 Ore dell'll dicembre, pp. 1 e 5). Ma questo è ancor niente al confronto di quel che è accaduto sui mercati origini della disinflazione, che sono ricondotte alle politiche monetarie «restrittive» della Federai Reserve, particolarmente nei primi anni della prima Amministrazione Reagan (e che, invero, non hanno mancato di suscitare polemiche sia all'interno dell'Amministrazione, sia fra esponenti dell'Amministrazione e la Federai Reserve). Si rientra qui nel quadro descritto in questa rubrica nel numero dello scorso novembre ( Crisi e riforma del sistema monetario); in particolare si richiama la diagnosi dell'inflazione degli anni Settanta e della disinflazione degli anni Ottanta formulata dal Wall Street Journal in un notevole editoriale del 1 ° ottobre scorso (Money and Leadership). Naturalmente non ripeteremo qui ciò che era stato detto là con maggiore dettaglio; tuttavia è opportuno ricordare che, secondo l'editoriale del Wall Street Journal, P--------------------1 I I I I I I I I I I I Mensile di informazione culturale I I diretto da I I Balestrini, Calabrese, Corti, Di Maggio, Eco, Ferraris, I I Formenti, Leonetti, Porta, Rovatti, Sassi, Spinella, Volponi I I I I 48 pagine, Lire 5000 I I I 1 Campagnaabbonamenti1986 1 I A chi si abbona entro il 15 Gennaio 1986 I I in omaggio una litografia in edizione esclusiva e numerata I I formato mm. 430 x 290 . 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Proviene dal titolo di un articolo pubblicato del Financial Times del 25 ottobre scorso: The forest fire of disinflation. L'articolo è di un economista americano, John Rutledge, e comincia con espressioni di questo genere: «La disinflazione che la Federai Reserve (la massima autorità monetaria Usa; NdR) ha fatto partire nel 1979sta ora diffondendosi nel paese come l'incendio in una foresta. Anche se la Fed l'ha avviata, non sembra che .abbia la capacità di farla tornare indietro». Rutledge analizza un panorama economico-finanziario ben noto agli esperti: gli investitori fuggono dai beni «tangibili» (materie prime, terre, ecc.) e cercano ansiosamente ogni sorta di titolo azionario, obbligazionario, mobiliare, un campo che negli ultimi anni si è arricchito di una gamma sempre più vasta di «invenzioni» dell'ingegno finanziario. Ciò alimenterebbe il processo disinflazionistico (o deflazionistico) per così dire «automaticamente», cioè al di fuori della volontà delle autorità monetarie. Lasciamo quest'ultima tesi alla responsabilità del suo autore. Piuttosto, è interessante l'accenno alle «la grande inflazione è finita con la nomina di Paul Volcker alla presidenza della Federai Reserve nell'agosto 1979; quasi contemporaneamente l'ascesa delle riserve monetarie internazionali è cessata. In effetti, se misurate in oro a prezzi di mercato, esse sono state tendenti verso il basso: un segnale di deflazione». Il quotidiano aggiungeva: «Abbiamo a che fare con le pene della cura, quel che chiamiamo crisi agricola, crisi del debito internazionale, deficit del commercio estero e così via». Di qui la sensazione che la «grande inflazione» degli anni Settanta possa rovesciarsi nel suo simmetrico, in una «grande deflazione» e che il paziente, per riprendere la metafora del giornale americano, possa essere ucciso dalla cura monetarista. L a parola «monetarismo» suscita in Europa molti equivoci. Non è certo indifferente che lo stesso Wall Street Journal abbia avvertito l'esigenza di dedicare un altro e più recente editoriale a una complessa disquisizione teorica sulla genesi e sugli sviluppi della scuola monetarista (The Problem of Monetarism, 5 dicembre 1985). Per quanto sia di grande interesse, riesporre la dissertazione ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema. In sostanza, l'editoriale sottolinea le differenze che già esistevano vent'anni fa, all'Università di Chicago, fra i monetaristi «in senso stretto», come Friedman e Harry Johnson, e quelli che sarebbero stati chiamati più tardi supply:siders, come Robert Mundell e Arthur Laffer. Il quotidiano espone le ragioni per cui, dopo aver svolto un ruolo (a suo giudizio) assai positivo, «l'influenza intellettuale del monetarismo si stia dissolvendo». E qui si torna alla politica economica attuale, per esempio al «reale significato» della recente nomina di Manuel H. Johnson e Wayne Angeli nel board che guida la Federai Reserve: «nessuno dei due è monetarista»; Manuel Johnson è il primo membro del board che abbia non solo «qualche istinto supply-side, ma il modello completo nella testa». Intanto, la Federai Reserve «si è già allontanata dal monetarismo», ma l'evoluzione è tuttora in corso. La posta in palio è la determinazione della natura del sistema monetario internazionale, che la tradizione monetarista vorrebbe mantenere in un regime di cambi fluttuanti, mentre i supply-siders propugnano un ritorno ai cambi fissi, stile Bretton Woods. Non solo The Wall Street Journal con questo editoriale riconferma la sua opzione per la seconda posizione, ma si sforza di fondarla sul terreno teorico. Questo genere di questioni è certamente fra i più astrusi. Ma una certa chiarezza di fondo si può ottenere ricordando il succo del survey dell' Economist di cui ci siamo occupati nel precedente articolo. I cambi fissi in un sistema tipo Bretton Woods hanno assicurato un lungo periodo di sviluppo stabile degli scambi internazionali, ma non erano (non sono?) adatti a funzionare in un ambiente internazionale caratterizzato da enormi e continui spostamenti di capitali da un punto all'altro del globo. I cambi fluttuanti sono, viceversa, più adatti a sostenere tali movimenti finanziari, ma a detrimènto della stabilità degli scambi commerciali; inoltre, vi è almeno il sospetto che i cambi fluttuanti, nutrendo i movimenti di carattere speculativo, divengano essi stessi un moltiplicatore del vagabondare erratico dei capitali, al di fuori di qualsiasi logica di investimento «reale». Si torna così al punto da cui eravamo partiti. La diminuzione dei prezzi delle materie prime e l'ambiente «disinflazionato» che caratterizzano l'attuale situazione dell'economia mondiale rappresentano un indubbio progresso rispetto all'ambiente inflazionistico e alla «speculazione» sulle materie prime dello scorso decennio. Ma il continuo crollo dei prezzi e la tendenza dei capitali a investirsi in beni «cartacei» non sono l'opposto dello scenario degli anni Settanta, piuttosto sono la sua prosecuzione sotto le condizioni restrittive imposte dalla cura monetarista. La ripresa dello sviluppo, degli scambi, del commercio delle materie prime, dell'occupazione implica un ambiente stabile, non una deflazione. Non si sa se la ricetta supply-side sia la «cura» per la deflazione e per il riaggiustamento al ribasso degli equilibri economici. Secondo l'opinione prevalente di una parte degli osservatori, la cura starebbe piuttosto, come sostiene l'editoriale dell' Economist sul «dono del povero», nella drastica riduzione del deficit federale degli Stati Uniti. Solo questa, infatti, consentirebbe una discesa dei tassi di interesse, quindi del costo dei capitali nelle nazioni ricche, così da consentire ad esse di fruire del «dono del povero» per rilanciare lo sviluppo, proprio e altrui. Si può concludere osservando che, gradualmente, i termini della disputa, insieme teorica e pratica, che si è accesa sul futuro dell'economia internazionale, e sul modo di guidarla fuori dalla stagnazione, si vanno via via chiarendo, almeno nella grande stampa specializzata internazionale. Dispiace che:,oggi, contrariamente a quanto accadde negli anni Settanta ai tempi della «grande inflazione» e della «crisi energetica», ci siano molte meno persone disponibili a spiegare al popolo i misteri della «grande deflazione», le sue cause e i suoi rischi potenziali. Non si sa bene perché. 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