li lessicoecollomicdoi-Kaldor: Nicholas Kaldor Lezioni Mattioli Università Bocconi, Milano primavera 1984 Il flagello .del monetarismo Torino, Loescher, 1984 pp. 224, lire 16.500 Equilibrio, distribuzione e crescita a c. di Ferdinando Targetti Torino, Einaudi, 1984 pp. LXXXVIII-323, lire 45.000 R isaliva al 1965 l'unica organica edizione in italiano di alcuni saggi di Nicholas Kaldor. Altre traduzioni erano in seguito apparse sporadicamente in raccolte comprendenti più autori. Nel 1984, con la pubblicazione di due ra~colte di suoi scritti (ne seguirà una terza quest'anno) e con la sua venuta a Milano per tenere le «Lezioni Mattioli», Nicholas Kaldor ha ricevuto dalla cultura economica italiana un tributo che ha finalmente oltrepassato la cerchia dei propugnatori del 'Kaldorpensiero'. Questo riconoscimento è tuttavia ancora poca cosa rispetto all'importanza della produzione scientifica kaldoriana e si avverte, nella risonanza attutita che ha avuto, il pericolo che tale tributo si tramuti nell'archiviazione del lavoro di un economista per molti versi scomodo e decisamente 'disÒbbediente' verso 'te leggi economiche ortodosse. Non bisogna invece farsi sfuggire quest'occasione importante per il bilancio di Kaldor (almeno in Italia) e, ripartendo da lui, per sradicare alcuni dei paradigmi prevalenti in economia. Si potrebbe cominciare adottando la sua metodologia, così attenta a cogliere intuitivamente gli aspetti fondamentali (i fatti «stilizzati», come egli li chiama) della vita economica; una metodologia che è già presente in una corrente della scuola economica italiana (quella più attenta agli aspetti storico-istituzionali), corrente che ha però un peso scarso nella formazione dell'opinione pubblica, nell'insegnamento universitario e nell'influenzare le decisioni di politica economica. Perché ripartire proprio da Kaldor? Perché non da una rilettura di Keynes? Perché «siamo tutti keynesiani oggi», ossia tutti rivendicano Keynes quale loro eroe e caposcuola (di questa confusione di interpretazioni è in parte responsabile lo stesso Keynes, il quale confessò di durare «fatica per sottrarsi ai modi di pensare tradizionali» in cui era cresciuto). L' esistenza di molteplici esegesi del pensiero keynesiano costituisce di per sé un ostacolo difficile da superare; interpretazioni 'originali' di 'fedeli' cultori di Keynes sarebbero sempre pronte a spuntar fuori e a ostacolare la definitiva sepoltura di quell'insieme di idee che ~ Keynes ha combattuto. c:::s Afferma Kaldor: «il modello .:; ( ~ keynesiano il principio della do- ~ manda effettiva) ha segnato l'inil2 zio di un enorme progresso rispet- °' -. to al passato». Ma è Kaldor che ha ~ chiuso quel modello, che lo ha g portato alle sue estreme conse0 guenze, indicando quali fossero le i::: sue implicazioni per la crescita s.:: della ricchezza. Egli ha costruito ~ una teoria originale e veramente i generale, libera dai «modi di pen- ~ sare tradizionali» (queste capacità costruttive lo distinguono dalla graffiante Joan Robinson e dagli altri economisti neo-keynesiani). La teoria kaldoriana è costruita . su un nucleo compatto di idee direttamente distillate dall'osservazione della realtà. La loro stretta derivazione dall'esperienza empirica fa dell'intera teoria una barriera che separa ideologia e realtà, mistificazione propagandistica e scienza. e osa vi è di sbagliato nella (( teoria economica», titola un saggio di Kaldor, e perché è urgente mutarla? Joseph Steindl, un altro terribile vecchietto, mette a nudo il peccato originale della ortodossia neoclassica, che «il lungo periodo va affidato integralmente al 'laissezfaire'». «È piuttosto difficile mandar giù la tesi che proprio i problemi strutturali vadano risolti con le forze del mercato. (... ) 'Mercato' è un termine che ha un significato ben preciso se riferito al pesce, alle materie prime, forse agli schiavi; ma cosa può mai significare se riferito a progetti, fabbriche, tecnologie, nuovi prodotti'non ancora esistenti?» (J. Steindl, «Il controllo dell'economia», in Moneta e Credito, giugno 1983). Kaldor non si limita a stigmatizzare l'impostazione ideologica · neoclassica. La sua· critica investe con impeto la stessa metodologia dell'equilibrio economico generale. Nelle sue parole: «Se guardiamo a ritroso alla letteratura economica del dopoguerra - quel flusso a getto continuo di libri e pubblicazioni su riviste - ci accorgiamo che l'economia cosiddetta 'neo-classica' ha continuato a occupare il centro della scena (... ). Sotto questo profilo, il periodo successivo· alla seconda guerra mondiale ha significato un regresso in confronto alla grande epoca di innovazioni degli anni Trenta. «La teoria dell'equilibrio - continua Kaldor- è il cuore di quell'economia che viene insegnata nelle università occidentali e diffusa dai libri di testo» ed «è del tutto inutiLuca Pa .fazzi le e addirittura dannosa per lo sviluppo della comprensione delle leggi di movimento delle economie di mercato capitalistiche. È espressa per mezzo di uno stupido tipo di precisione o 'scientismo' della specie più pretenziosa, mediante l'uso di tecniche matematiche altamente sofisticate che han- .. no lo scopo di dimostrare proposizioni che non contengono alcun valore euristico circa i fenomeni del mondo reale». Ancora prima che da un'insofferenza maturata con gli anni verso «la sterilità intellettuale generata dai metodi dell'economia neoclassica», queste radicali prese di posizione da parte di Kaldor discendono dal distacco insuperabile che separa la teoria kaldoriana da quella neoclassica. La «biografia intellettuale» tracciata da Ferdinando Targetti a introduzione di Equilibrio, distribuzione e crescita gioca brillantemente con i chiaroscuri delle diversità che esistono fra Kaldor e i neoclassici. Qui cercherò di esasperarle il più possibicisioni, azioni e interazioni hanno luogo simultaneamente. Dopo Einstein, ciò è piuttosto originale per un modo di fare economia che si richiama alla fisica.. La macchina neoclassica è assolutamente ferma, perché tutto è come era e come sarà. Cercando di imprimerle movimento, i moderni neoclassici hanno pensato fosse sufficiente attribuire alle variabili economiche una data e considerare diverse le grandezze con data diversa. Il risultato di questo lavoro è molto raffinato sotto il profilo tecnico-matematico: una splendida astronave piena di luccicanti spie e di strumenti sofisticati. Ma non vola. I razzi vettori rimangono spenti perché vengono assunti costanti la tecnologia e i modelli di consumo, ossia gli elementi che più di altri imprimono dinamismo ai sistemi economici reali. L'introduzione del tempo ha accresciuto, anziché diminuirlo, il grado di irrealismo: giacché uno dei pilastri del modello neoclassico è l'onniscienza degli agenti eco- -~~/';~~~,~~'f.'1;'~:;~~~t.,,,; .. ~•~-: .J~..;....;._,.... c.. ~ 1....:..u.~'. e; f--q_ .-;I.... f-,....-J~ le, per non lasciare alcuno spazio a riconciliazioni sempre tentabili (e tentatrici). Utilizzerò tre 'voci' o categorie economiche, contrapponendo alla visione neoclassica quella di Kaldor. La voce «tempo» serve a esemplificare il livello di astrazione cui sono giunte le assunzioni neoclassiche. La categoria «risparmio-spesa» permette di esorcizzare una vecchia falsa credenza, di 'acchiappare' un fantasma che puntualmente riappare ogni volta che si parla di deficit pubblico o anche solo di spesa pubblica. Infine la voce «moneta-prezzi» consente di strapazzare (insieme a Kaldor) la «assolutamente troppo sbalorditiva» (Frank Hahn) scuola monetarista, che affonda le proprie radici nel modello dell'equilibrio economico generale. T empo. Una delle assunzioni più stu~e_fa~entidella. teoria dell'eqmlìbno economico generale è l'assenza di dimensione temporale e, quindi, di storia. Denomici, i 'neo-noeclassici' sono stati costretti a ipotizzare, per coerenza, la preveggenza. Tutto, compreso il futuro imperscrutabile, è conosciuto al momento uno, quando ha inizio la vita economica. «Dal momento due in poi l'esistenza deve essere molto noiosa!», commenta Kaldor. Egli ha evidentemente un'altra percezione delle cose. La teoria di Kaldor è essenzialmente una teoria storica: la concatenazione nello spazio e nel tempo dei fatti economici ha per lui un'importanza cruciale. Essa, la storia, è l'eredità del passato che si pone come vincolo da superare con l'azione presente. È la fonte da cui originano i fatti stilizzati che la teoria deve spiegare. È infine il campo di verifica per le spiegazioni che l'economista ha forgiate. Ma soprattutto lo spazio e il tempo sono le componenti necessarie della teoria di Kaldor in quanto genuinamente dinamica. Una «teoria della crescita», come lui l'ha battezzata, che studia il «modo di operare delle forze (sia esogene sia endogene) che agiscono in una economia di mercato determinando continuamente il cambiamento e lo sviluppo». Per Kaldor sono infatti la crescita, la trasformazione e il «non-equilibrio» i tratti salienti del sistema economico capitalistico: Kaldor ha dimostrato (per mezzo dell'estensione dinamica del concetto di rendimenti crescenti) che le forze dello sviluppo operano secondo una «causazione circolare e cumulativa (terminologia presa a prestito da G. Myrdal) - con ciò intendendo che il successo genera successo e la sconfitta produce sconfitta» e che tali forze sono «quantitativamente più importanti dei vantaggi 'statici'» su cui poggia la visione neoclassica. Anche l'operare del mercato deve essere interpretato in termini dinamici: «Il mercato non è uno strumento di allocazione delle risorse. Esso è principalmente uno strumento degli impulsi al cambiamento; sarebbe più con:etto dire che il mercato crea o genera risorse, invece di dire che le alloca». R isparmio - Spesa. La formica virtuosamente risparmiatrice è premiata anche nella fiaba neoclassica, secondo la quale un più alto livello di risparmioconsente maggiori investimenti: Keynes aveva rovesciato il legame causale, provando che una maggiore spesa autonoma (ossia--non generata dal reddito corrente: investimenti, esportazioni, spesa pubblica in deficit) consente di raggiungere livelli più elevati di reddito e, quindi, di risparmio. Kaldor ha reso inespugnabile il punto di vista keynesiano, che pone come determinanti gli investimenti e come determinato il risparmio, mediante la sua teoria della distribuzione: i profitti delle imprese sono la maggior fonte di risparmio e sono a loro volta funzione - come quota del reddito - degli investimenti. Stretta nell'angolo, la 'morale del formicaio' ha trovato un altro sbocco per infiltrarsi nel comune senso economico: la spesa pubblica, soprattutto se non coperta da imposte. In questo secondo caso la spesa pubblica viene accusata - quando è finanziata con titoli - di fagocitare il risparmio altrimenti destinabile ad investimenti privati (il cosiddetto crowding-out) oppure - quando è finanziata stampando moneta - di essere inflazionistica. Questa tesi si è diffusa con velocità sorprendente in tutto il mon~ do economico-politico, segno del potere della formica che vi è in ciascuno di noi. In Italia sono stati più volte sottolineati l"abnorme' livello raggiunto dal debito pubblico in percentuale del prodotto nazionale e come lo Stato sia andato avanti a spendere a ritmi giudicati frenetici anche successivamente al brusco rallentamento del saggio di crescita. Pochi si sono domandati quanto più basso sarebbe stato il tasso di sviluppo dell'~conomia italiana se negli ultimi dieci anni non vi fosse stato un ampio deficit pubblico a sostenere la domanda. Né si è considerato come la spesa pubblica (specie se in deficit) crei domanda, quindi reddito e risparmio. Dice Kaldor: «Se si ammette che il livello dell'attività possa variare con la domanda effettiva, in-
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