Alfabeta - anno VII - n. 69 - febbraio 1985

nella nostra cultura è sempre stata infatti una concezione negativa. Al tempo si associa apparenza, moda, deperibilità, tutt'un ordine di disvalori. Al tempo si oppone ciò che resiste al tempo (come se non fosse anch'esso fatto innanzitutto di tempo). Che cosa si vuole qui intendere per positività del tempo? Si vuole intendere che l'incompiutezza temporale non è un limite dell'esperienza, ma il suo carattere costitutivo, la sua condizione di possibilità, la sua ricchezza e la sua verità. C'è esperienza perché essa è sempre in cammino, perché non c'è termine o fine che la definisca. È possibile interromperla (tragicamente); non è per principio possibile compierla. Questa idea, mi pare, tendiamo a non valutarla adeguatamente. Non che ignoriamo il tempo, o trascuriamo di metterlo in conto. Ma continuiamo a pensarlo come mancanza o difetto • di essere. L'opposizione tra ciò che dura e ciò che passa è diventata un luogo comune, è discesa negli éndoxa che governano il nostro linguaggio. Si tratta peraltro di un luogo comune che ha origini metafisiche. E lo troviamo infatti nella più famosa meditazione sul tempo dell'antichità. Come erede di tutto il sapere antico, parla appunto del problema Sant' Agostino nel libro XI delle Confessioni. Pe:_Ar gostino il tempo è aporetico. E e non è. Non possiamo fissarlo un momento perché esso oi è già sfuggito. Ogni istante temporale è presenza del passato, presenza de! presente, presenza del futuro. E inquietudine d'essere. Esso è un fenomeno· dell'esperienza umana che comporta sempre una divaricazione, una distrazione interna, una distentio animi. Ma appunto questa inquietudine d'essere, secondo Agostino, tende a superarsi nell'essere, a negarsi come tempo, subisce un'attrazione verticale da parte di ciò che è esente da mutamento. Ed ecco istituita l'opposizione e la dialettica tra temporalità ed extratemporalità, tra ciò che cambia ed è affetto da un bisogno di essere - dalla malattia del tempo -, e ciò che permane e che è l'essere stesso. E già in Platone - nel Platone peraltro che intendeva salvare l'esperienza da un giudizio di irrealtà - il mondo delle apparenze era un mondo che è e non è. E l'eros era appunto espressione del bisogno d'essere, tensione di ciò che è e non è verso il compimento del proprio essere. Ora di questo tipo è ancora la dialettica che si trova nelle moderne concezioni della storia. Secondo la dialettica classica tutte le aporie, tutte le contraddizioni, ammettono un momento di composizione, una scena finale, una conciliazione. Che la storia metta capo alla sua fine è una possibilità reale. Non importa se ciò comporti l'attraversamento, scandito razionalmente, del tempo; ovvero un'utopica discontinuità dei tempi. E il fatto che la conciliazione non si annunci (o magari si annunci la catastrofe) è visto come un fallimento della storia. Anche qui da una parte c'è l'essere, la totalità, l'adempimento; dall'altra il bisogno di essere, la parzialità, il movimento. Non si esce dall'alternativa teologica di riuscita o falli-· mento. La stessa teologia si presenta ora in forma secolarizzata. Sicché conviene proprio rovesciarne (materialisticamente) il punto di vista. Quanto dire che non è la storia che fallisce per una mancata realizzazione della dialettica; ma è la dialettica, con la durezza delle sue categorie - e in primo luogo con la sua idea di compimento e di essere -, che è in difetto davanti alla storia. Essere individui storici vuol dire trovarsi ad operare in zona di rischio. Il tempo, l'inconciliato, il contraddittorio non sono cioè sintomi di una patologia {benché evidentemente possano diventarlo), ma essenzialmente condizioni strutturali, a priori formali, dell'agire storico. In altre parole: si possono risolvere problemi; non si può risolvere il problematico. Al tempo non si può opporre né l'eternità di Sant' Agostino, né il compimento della storia o della preistoria. Mi sono allontanato dal tema, ma spero di non averlo perso di vista. Perché, dunque, la letteratura oggi? Oggi - mi sembra chiaro - non è tempo di richiami all'ordine. E ciò perché mancano perfino le ipotesi di ordine. E d'altra parte la ricerca del nuovo (cominciata con Baudelaire) fa anch'essa parte - si dice - del passato. In effetti i diversi classicismi puntavano su una rifondazione dell'attualità del passato, su un'idea di verità delle forme dalla quale non convenisse prescindere. E a loro volta le avanguardie partivano dall'ipotesi di un ricominciamento della storia. I classicismi facevano leva sul continuum storico; le avanguardie sulla discontinuità. Ma entrambi gli orientamenti - tra l'altro assai meno rigidamente opponibili di quanto sembri - si inserivano proprio in quelle concezioni della storia cui si è appena accennato. Scrittori d'avanguardia e non d'avanguardia avevano infatti in mente modelli rivoluzionari o conservatori, o magari modelli di distruzione di ogni modello, ma sempre in vista di un progetto che chiamerei ontologico, di una definizione di verità. Perfino gli atteggiamenti più radicali e demolitori, quelli che denunciavano l'impossibilità del progetto, finivano per mantenerlo in forma negativa nel loro orizzonte. Quanto più le avanguardie si rendevano conto che lo statuto sociale della letteratura era divenuto improbabile, tanto più invero tendevano ad andare al di là della letteratura e a trasgredirne la specificità - in questo modo peraltro rinnovandola profondamente. Dato che la letteratura si era svuotata di ogni funzione sociale, si trattò per esse di negarla come arte e di strapparla alla sua separatezza per salvarla inverandola. E su questa base il loro progetto poté saldarsi attivamente con quello politico. Sto parlé!ndo qui molto sommariamente. E probabile infatti che il linguaggio dialettico appartenga più a un'interpretazione dell'avanguardia, che al linguaggio dell'avanguardia. Lascio per il momento in sospeso fino a che punto le due cose coincidano. Ma credo si possa dire che la globalità del progetto è uno dei car~tteri più vistosi dell'avanguardia. E una delle sue parole d'ordine infatti (così a lungo in seguito ripetuta) che la verità dell'arte è nella sua realizzazione, cioè nel suo superamento come forma-arte all'insegna del godimento, dell'indiviso della nuova storia {della città futura). Ed è proprio qui che si manifesta la sua vocazione metafisica e il suo (sembra) attuale invecchiamento. Il problema si presenta oggi molto diversamente, e in parte addirittura in forma rovesciata. Non solo la letteratura ci appare oggi fatta di segni, ma segni ci appaiono anche gli oggetti, i referti, le 'cose'. Sicché è caduta l'opposizione - metafisica - tra segno e cosa, anche se poi la definizione di segno si è fatta più complessa. L'arte non sembra più doversi vergognare di se stessa, della sua natura spettrale di segno. La sua situazione si potrebbe compendiare nella duplice constatazione che il vecchio è divenuto inattuale e il nuovo è scaduto. Ma se né il passato né il futuro valgono più come valori ideologici, quale può essere oggi il senso della letteratura, della sua presenza tra noi sempre più difficile e occasionale? Io credo che proprio perché ci sembra di sapere ciò che essa non può più essere, e l'abbiamo liberata dal complesso dialettico di attività separata, abbiamo finito per definirne negativamente gli usi possibili. Che sono poi magari dispersi, socialmente non influenti o scarsamente riconosciuti, ma non privi di una loro ragione essenziale (data la fondamentalità dei linguaggi storico-naturali) ed anche di una loro diffusione. Soprattutto se consideriamo la letteratura in accezione allargata, comprendente anche la critica e la saggistica e la stessa filosofia (che sempre più verrà a configurarsi come un grande genere letterario). Letterario - e pm m generale estetico - è oggi, o continua ad essere oggi, positivamente ciò che vive di un rigore diverso da quello della scienza; o che ha un ideale di rigore diverso da quello della scienza. La letteratura naturalmente non è alternativa alla scienza, ma parla là dove la scienza non ha nulla da dire; e in quel luogo ha necessità di parlare. La sua parola non dispone del mondo, non è ordinatrice e intenzionale, ma si fonda sulla c~ntingenza della enunciazione. E un'arte dell'enunciazione, non dell'enunciato. È parola allocutoria e temporale che non solo non ha alcun legame verticale con un paradigma di verità, ma neppure ne ha bisogno. Essa non rinvia infatti a un significato, ma a un'altra parola {che è poi la parola dell'altro); è parola del mutamento e dell'instabilità. E avrà anche uno statuto politico, come sintomo di quelle esigenze che ogni ordine, in quanto sistematic9, tende a bloccare e a irrigidire. E infatti necessario che i sistemi siano sincronici e non abbiano più memoria della loro diacronia. Mutamento e instabilità perdono così i tradizionali connotati negativi (non significano più bisogno di essere) e assumono valori positivi. In sostanza proprio alla letteratura competerebbe non solo avere senso, ma essere il luogo dell'apertura del senso o della temporalità del linguaggio. A questo punto vorrei richiamarmi a Baudelaire che per primo ha teorizzato l'arte non più come ricerca di una misura, di un paradigma in termini classico-romantici perduto, ma come percezione del tempo, come piacere dei segni e dei travestimenti, o anche come piacere della diacronia. E concluderei con una nuda citazione: «Le passé est intéressant non seulement par la beauté qu'ont su en extraire !es artistes pour qui il était le présent, mais aussi cy,mmepassé, pour sa valeur histodque. Il en est de meme du présent. Le plaisir que nous retirons de la représentation du présent tient non seulement à la beauté dont il peut etre revetu, mais aussi à sa qualité essentielle de présent». La citazione è tratta da La peintre de la vie moderne. Ma Baudelaire ha inaugurato molte cose; e, tra l'altro, anche la nostra post-modernità. Leformazionip.,~t"~ompromess M i propongo di andare a cercare il senso della letteratura (e di trovarlo anche, naturalmente) mettendo a confronto due brevissimi testi di autori contemporanei fra loro, e, per rendermi più difficile e appassionante la prova, di due diversi generi letterari: un sonetto, genere fortissimo, di Giuseppe Artale {1628-1679), La Dama Infanticida e un passo da una predica, genere debole, di Giacomo Lubrano (1619-1693), intitolata Il Cannocchiale di Loto, testi definibili entrambi una raffica di ossimori. Alcune premesse che prendo di peso dai testi di quel grande teorico della letteratura, oltre che francesista, che è Francesco Orlando, e soprattutto dal suo ultimo lavoro Illuminismo e retorica freudiana: 1. La «letterarietà» di un testo consiste nel suo «tasso di figuralità, variabile, quest'ultimo, tra la soglia minima del non letterario e la soglia massima del non comunicativo». 2. «Ogni figura retorica è assimilabile a una formazione di compromesso», in senso freudiano, «fra rispetto della razionalità e piacere della trasgressione logica». 3. Trovano posto nei fenomeni letterari modi di pensare propri dell'inconscio, trova posto una logica non tradizionale, non aristotelica, quella logica definita da Matte Bianco simmetrica, «e che è piuttosto una antilogica». 4. Nel 1611 John Donne scriveva: «And new Philosophy calls ali in doubt ( ... ) I 'Tis ali in pieces, ali cohaerence gone». (E la nuova filosofia mette tutto in dubbio ( ... ) I È tutto in pezzi, è scomparsa ogni coesione.) Prima ancora, dunque, che nascessero i due autori in questione, la nuova filosofia di Bacone, Cartesio, Galilei ecc. aveva messo in dubbio quel sistema dell'analogia universale e delle corrispondenze fra micro e macrocosmo (sto citando J. Rousset, L'intérieur et l'extérieur. Essais sur la poésie et sur le théatre au XVII' siècle, 1968) che costituisce il fondamento ontologico della metafora, e aveva fatto diventare sospetto di regressione razionale quell'uso del linguaggio, la metaforicità, «che è così solidale con la religione e il mito». 5. «La letteratura barocca si pone sotto il segno ,di due crisi: crisi del principio di somiglianza e crisi della religione. Barocco e Illuminismo, scatenamento figurale e repressione della figuralità, sono fenomeni contigui, se non contemporanei.» 6. Alla fine di quel secolo, la figuralità barocca ha ormai gettato la spugna. Dove non ·vuole arrendersi, do\'e c'è un ultimo sfrenamento figurale, tanto violento che la metafora è quasi totalmente sostituita d_alpiù audace dei metasememi, l'ossimoro, lì, ecco, s'incontrano Artale e Lubrano. Leggo il sonetto di Artale. «Tu ch'hai ne l'alba tua sera immatura I e sei ne~'orto un abortito infante, I io ti son madre, culla e sepoltura, I tu vita e matricida agonizzante. Il Sorte è aver madre e averla è tua sventura; I noci innocente, ancor non balbettante I mie colpe accusi: ed io pietosa e dura I madre t'uccido, e ti composi amante. Il Morii Morte mi dan le tue dimore; I ti dà chi ti diè vita ore sì corte I per svenar con tua morte il proprio errore. Il Amor ti diede (oh Dio!) la vita in sorte I a dispetto d'onore, ed or l'onore I a malgrado d'amor ti dà la morte.» Mi sia consentito dire che qui la logica razionale si agghinda da irrazionale: perché ogni ossimoro rimanda solo e soltanto a quello che dice, perché non fa nascere nessun nuovo pensiero. Tutti questi ossimori sono senza ossa; come si alzano cascano dentro l'enunciato del titolo. Sono ostacoli saltando i quali si torna al punto di partenza, che è il senso espresso nel titolo: la dama dà vita e poi dà morte. Vi è soltanto il piacere di un tipo di trasgressione logica, peraltro a quella data supercodificata, che investe la lingua, il codice, e che funziona meglio Il dove l'ossimoro s'inserisce in una figura etimologica: «e sei nell'orto un abortito infante», abortito e orto da «orior» {ab-orior, ortus). Prova di questo è che l'ultima terzina abbandona, per stanchezza della propria insufficienza, l'ossimoro e passa a una figura sintattica: la chiusa è un chiasmo complicato, dove vita e morte si guardano da lontano. Finalmente, leggo il passo di quello che ritengo il più grande prosatore italiano di tutti i tempi. Per lui si è parlato di «secentismo nel secentismo» e per quasi tre secoli l'unico aggettivo che si è speso per lui è stato «delirante». Ma, si sa, le menti piccole non sanno contenere le grandi. « Vi sono, o quanti, che impetrata la manutenenza di vivere in terra, rinunzierebbero il Paradiso, come se per lor non ci fosse. Si rassomigliano da San Massimo alle Talpe, cieche nate fra le bestie. Nascon le talpe senza nascere, perché non vengono a luce primogenite della cecità, si concepiscono dalla mancanza; né' respirano che seppellite nel fondo di sotterranei dirupi; si organizzan dall'orrore, si l ttano a scolaticci di tenebre· per quanto si strisciano, non veggon mai giorno: per quanto vivono non escon mai dalla tomba. Rodono sempre terra, scavan sempre; e vergognandosi di comparire, si ammassano sempre in nuove caligini. Prive di occhi, tuJte s'impiegan a sfossicar le vigne, a morder le radici alle piante, le semenze ai raccolti; si pascon o di vermi, o di fango; e dissotterrarle è occiderle. Scorci di essere interdetti dal lume, embrioni di putredine vestita a lutto, tignole dei fossati, uterine dei sepolcri, gramaglie che fiatano, privazioni che vivono. Bestiole così schifose, così vili descrivono al naturale il genio di quanti, accecati alla luce delle cose eterne, stentano per acquistar sempre beni di terra.» Fin dalla prima occhiata le talpe di Lubrano hanno ben altra forza e carattere rispetto alla miserabile, infanticida di Artale. L'altissimo tasso di figuralità, l'accanimento ossimorico e metaforico, la determinazione nell'uso della logica simmetrica tento di spiegarli in tre tappe. 1. La motivazione più superficiale: è il programma di un predicatore, e predicatore gesuita, che vuole restaurare il vecchio cosmo analogico, la vecchia visione religiosa del mondo. Lubrano sta dalla parte dell'irrazionalità per combattere gli scienziati e i filosofi razionalisti, vivi e morti. 2. La motivazione intermedia: spia di quella lacerazione tra cosmo analogico e cosmo post-galileiano, tra religione e scienza, di .cui si è detto, la figuralità di Lubrano è una formazione di compromesso tra il linguaggio della religione e il linguaggio della scienza, tra logica simmetrica e logica asimmetrica. Lubrano non minaccia le solite fiamme infernali o le fischiate con cui gli angeli accoglieranno i peccat ri come fa Segneri, ma vuole convincere, scientificamente, gli stessi peccatori. Dalla stessa predica leggo: «Propongo dunque ai volontari ciechi nati del Mondo un cannocchiale di loto, e di quel loto identificato alla nostra fralezza; se lo disprezzano rimarranno sempre adombrati nella strada òei reprobi. Se l'adoperano vedranno due cose necessarie a salvarsi, quasi impossibili a conoscersi, una vicinissima, che è il niente dell'uomo, e l'altra lontanissima, che è Dio. Proviamolo».

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