Alfabeta - anno VII - n. 68 - gennaio 1985

e ome ha già constatato su queste pagine· Giovanni Jervis (Alfabeta, n. 64) il significato dell'espressione «pensiero qebole» risulta tutt'altro che chiaro, lo dimostra anche l'innegabile eterogeneità dei contributi raccolti' nel volume di G. Vattimo e P.A. Rovatti. È una formula suggestiva, come ha detto C. Sini (Alfabeta, n. 66), «poiché allude e sottintende tutta la vasta gamma di fenomeni. esistenziali che oggi viviamo». Nel suo saggio, Rovatti parla • dell' «ultimo uomo» e dell'ambiguità del mondo moderno in Nietzsche, di Gregor Keuschnig il quale, nel romanzo L'ora del vero sentire, diventa un altro, ma finge di essere se stesso, vaga per la città e vede che in un caffè stanno fotografando un bambino quando ha «realmente un sorriso infantile» (p. 34); cita poi Peter Handke e Miche! Serres, ritrova il rotolare verso la X dell'uomo nietzschiano in un seminario di Lacan e, solo al termine dell'ultimo paragrafo, intitolato (finalmente) «Cosa significa pensiero debole?», lo definisce come quel pensiero che «si situa provvisoriamente tra la ragione forte di chi dice la verità e l'impotenza speculare di chi contempla il proprio nulla» (p. 51). • Grosso modo, in queste parole riecheggia la definizione che Platope - uno dei protagonisti più 'forti' 'della filosofia - dà della doxa, dell'opinione. ;. Nel V libro della Repubblica, àopo aver definito l'epistéme come facoltà di «conoscere com'è ciò che ·.è»(447b) e l'ignoranza come ciò che, invece, si riferisce «necessariamente a ciò che non è» (477a), ·Platone afferma che la doxa è quella facoltà «intermedia tra l'epistéme e l'ignoranza» (478c) ed ha per oggetto «ciò che è intermedio tra ciò che assolutamente è e ciò che non è affatto» (478d). Se il pensiero debole rappresentasse semplicemente la rinuncia ali' epistéme, la conseguente rivalutazione della doxa e l'attenzione al mondo sensibile come 'oscillazione' tra i due poli-cardine dell'ontologia platonico-aristotelica, la proposta in questione sarebbe, a nostro giudizio, realmente ciò che Dal Lago nega con decisione sia: «una finta alternativa al pensiero tradizionale» (aut aut, n. 202-203, p. 15). Ritornando sull'argomento in Alfabeta, n. 60, Rovatti dice che «pensiero debole» è un' «infelice» metafora, ma di che cosa? Gianni Vattimo dà spessore al discorso riportando tutta la questione al tema della Verwindung in Heidegger. Il pensiero debole costituirebbe, allora, non l'oltrepassamento nel senso della Uberwindung-né, tantomeno l'Aufhebung dialettica - ma la «declinazione-di- ~ storcimento» (Il pensiero debole, .s p. 21), «accettazione»-«approfon- ~ dimento»-«convalescenza» (aut c::i... aut, n. 202-203, p. 8) del concetto ~ heideggeriano di metafisica: pren- ~ dere provvisoriamente 'per buone' ·~ le categorie metafisiche e togliere ~ ~ loro «precisamente quello che le 00 costituiva come metafisiche: la oO 'O pretesa di accedere ad un ontos on» i::'. (Il pensiero debole, p. 22). ~ Il pensiero è debole - continua ~ Vattimo 'rileggendo' lo scritto di ~ Heidegger Sull'essenza della verità (trad . .-di U. Galimberti, Brescia, La Scuola, 1973, p. 30) - perché, rispetto al vero come, conformità, privilegia il vero come libertà. In Heidegger questa libertà è il «lasciar-essere svelante l'ente» che apre l'orizzonte di ogni possibile conformità; ossia l' aletheia. Anche stavolta non riusciamo a capire ·come quella che Bacchilide chiamava «l'onnipotente Aletheida», che «dà luminosità a tutte le cose», l'«illuminare-aprire» (traduce Vattimo in Saggi e discorsi), che concede la presenza, sia rivalutato quale «luogo debole» del pensare. Vengono in aiuto, a questo punto, le considerazioni sull'«ontologia debole», che è poi, ci sembra di capire, l'ontologia heideggeriana dell'essere come intrascendibile Differenza «destino-invio» ( Geschick) e «trasmissione» ( Uberlieferung). e be cos'è, dunque, il «pensiero debole»? Per Vattimo esso può qualificarsi (riassumiamo) come: 1) «pensiero della fruizione» ( aut aut, n. 202-203, p. 11)- sulla scorta della concezione heideggeriana del pen,sare come Andenken - che rivive le forme spirituali del passato; • 2) «pensiero della contaminazione» che - sulla base dell'assunto di Gadamer che «l'essere che può essere compreso è il linguaggio» - ripercorre, oltre alle rovine del passato, i molteplici saperi della contemporaneità per ricondurli ad una unità né dogmatica, né metafisica, bensì 'divulgativa' in senso scientifico: «la filosofia non a fondamento, ma a conclusione delle scienze>~(p. 13); 3) il pensiero del Ge-stell. Il Ge-stell, per Heidegger, è il dominio dell'organizzazione totalizzante dell'essente inteso come fondo infinitamente disponibile (Bestand) che, in quanto destino • epocale, costituisce il senso dell'età della tecnica. Come «primo lampeggiare» dell' Ereignis, il Ge-stell opera, dice Vattimo, una distorsione (Verwindung) delle determinazioni fondamentali della metafisica, facendo cadere le tradizionali distinzioni di soggetto e oggetto. Privo di queste assicurazioni il mondo si fa debole, nel senso che «perde di peso», custodendo così la chance «di un nuovo, debolmente nuovo, cominciamento» (p. 14). Se Debole/forte 12 il pensiero debole è questa preparazione dell'avvento della «filosofia del mattino», qual è il pensiero forte? Semplicemente il pensiero della metafisica, come dà per contato G. Franck. (Alfabeta, n. 65) «tutto costruito intorno a rigidi schemi di evidenza. Dio, l'Uno, l'Ide~, il fondamento, l'essere, il Tutto»? Se ci atteniamo al paradigma heideggeriano esposto da Vattimo, parlare di «pensiero forte» (la metafisica) e di «pensiero debole» (quello della differenza, quello al di là del soggetto) significa introdurre nel discorso uno schema oppositivo che ci sembra poco giustificato• in relazione alle considerazioni heideggeriane sul Ge-stell e sul mondo della tecnica. In una conferenza del '53, Heidegger spiega che la tecnica è «modo destinale» del disvelamento nel senso dell'Herausfordern (della pro-vocazione traduce Vattimo), equivalente agli altri modi destinali in cui il disvelamento «si spartisce ( ... ) e si impartisce all'uomo» (M. Heidegger, Saggi e discorsi, Mila- ·no, Mursia, 1976, p. 23), come la poiesis e la metafisica. Essi, come epoche del destino dell'essere, non costituiscono un processo dialettico, né una contrapposizione, ma vanno pensati «l'uno accanto all'altro» (ivi), se vogliono essere intesi nella loro essenza. In secondo luogo ci chiediamo: se il pensiero debole consiste nel processo nichilistico di dissoluzione degli dei della metafisica, considerato che ormai questi immutabili si dice siano tramontati, non è questa potenza dissolutrice un autentico «pensiero forte», che ha denunciato la costitutiva «debolezza» del vecchio pensiero? «Il nichilismo - afferma Sini - dichiara il non senso assoluto, ma ciò comporta una logica o un pensiero assoluto del senso, che però non dovrebbe essere (o non esiste più)». Mario Perniola, nella sua recente Lettera a Vattimo sul pensiero debole (in aut aut, n. 201) così argomenta: «Pensare oggi che il pensiero filosofico sia davvero debole significa ritenere di essere dominati da un'effettualità più forte della filosofia», ma - se le cose stanno così - «è del tutto illusorio credere che una supposta teoria del 'pensiero debole' possa stabilire con tale. effettualità un rapporto più essenziale di una teoria del pensiero forte, perché tale effettualità non ha bisogno della filosofia né debole, né forte» (p. 51). Heidegger, del resto, parla, sì, di abbandono del pensiero «di fronte alle cose» (L'abbandono, Genova, Il Melangolo, 1983, p. 36), ma ciò non ·fa che esaltare la <ef orza ( Das Walten) della verità dell'essere» (Sentieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 306), che in tal modo si fa valere. Come ha rilevato ancora Sini, il pensiero debole, da una parte vuole passare oltre Heidegger giudicando 'forti' le sue critiche alla cultura moderna, dall'altra «dà per pacifico e per acquisito che la ricostruzione critica della storia della metafisica avanzata da Heidegger sia impeccabile e senza problemi» (Alfabeta, n. 66). Mentre i problemi ci sono, eccome. D i diverso genere sono le considerazioni contenute nel contributo di U. Eco L' antiporfirio, dove i termini 'forte' e 'debole' sono usati in senso molto più •ristretto, secondo una valenza logico-semantica e in riferimento a dei modelli linguistici di interpretazione della realtà. Il modello semantico 'forte' di cui tratta Eco è quello che, tramite regole date e formulate metalinguisticamente, costituisce un mondo semplificato in maniera tale da poter essere rispecchiato nella sua struttura da un metalinguaggio L costituito secondo le stesse regole. Questo modello forte deve esse- • ré predisposto in modo tale che le operazioni compiute su L rivelino connessioni inedite del mondomodello, ed insieme deve essere in qualche aspetto omologo al mondo dell'esperienza presupposto. È il classico modello, insomma, di ogni scienza sperimentale, di cui abbiamo un grande saggio nella teoria aristotelica della definizione. Attraverso l'esame dell'interpretazione porfiriana di questa teoria aristotelica - che intende rappresentare un numero indefinito di entità attraverso l'articolarsi di un numero finito di componenti elementari - Eco dimostra la tesi che tale modello forte è irrealizzabile. Perché? Perché da luogo a un albero (quello di Porfirio appunto), procedente da genere a specie, che, alla fine, si rivela «composto di sole differenze» (Il pensiero debole, p. 71), in cui scompaiono sia il genere sia le specie, e la sostanza stessa diviene un che di generico, non essendo possibile escludere gli accidenti. Ciò significa, allora, che non può essere costruito alcun modello totale e completo di razionalità, ma sono producibili solo «regole di ragionevolezza» (p. 77), controllabili intersoggettivamente e da impiegarsi per dare, di volta in volta, conto di un mondo incomprensibile e sfuggente. Il modello vincente del sapere contemporaneo - afferma Eco - è quello del «labirinto a rete» o del rizoma (cfr. G. Deleuze-F. Guattari, Rhizome, Paris, Minuit, 1976), governato, a sua volta, da una metafisica «molto influente» (p. 76). Il binomio forte/debole è qui assunto in tutt'altro contesto. Quella di Eco è la dimostrazione dedutti- . vamente cogente (possiamo dire forte?) di una tesi che si può benissimo interpretare come arricchimento sul tema del «sapere senza fondamenti» (cfr. A. Gargani, IL sapere senza fondamenti, Torino, Einaudi, 1975). Eco, alla fine, chiama in causa un sapere ermeneutico come realizzazione del modello debole - «l'enciclopedia è dominata dal principio peirciano dell'interpretazione e quindi della semiosi illimitata» (p. 75) - che si configura co-· me variazione interna al motivo dell'origine. Nella premessa al volume, Vattimo e Rovatti parlano della «cancellazione di ogni origine» e della «ritraduzione di tutto nelle pratiche, nei 'giochi' nelle tecniche localmente valide» (p. 11). In aut aut Vattimo parla addirittura della filosofia «non a fondamento, ma a conclusione delle scienze». E le scienze come si costituiscono? Anche dato per assodato il fatto che la filosofia si è rivelata incapace di fondare le organizzazioni, i 'giochi' e le tecniche localmente valide, il problema è che tali pratiche presuppongono sempre l'esposizione e l'esplicazione di una certa forma di oggettualità (piuttosto che un'altra) e quindi la domandà attorno all'originarsi, al principiare, di un certo sistema di significati. In altre parole, anche i modeili di razionalità più 'deboli' e specializzati presuppongono all'origine un certo modo di strutturarsi tanto degli oggetti con cui hanno a che fare, quanto delle forme specific~e che a tali saperi competono. Si pre.- suppone necessariamente, per ogni regione del sapere, l'apertura originaria del senso a partire dal quale si costituiscono i differenti significati in questione. L'interrogazione attorno al senso de~'origine spetta alla filosofia in senso forte, da Talete in poi. Scalzarla da questa posizione è assai difficile, nonostante le debolezze, gli sfinimenti e i declini che sembrano affliggere il pensiero attuale. Che poi l'originario non possa più essere inteso come ontòs on, sostanza, Dio, soggetto, storia, come uno degli immutabili che, per citare un pensatore ancora 'forte' come Severino, hanno dominato la storia dell'Occidente quali configurazioni della volontà di pre-catturare l'imprevedibile novità dell'evento, ciò non significa, per implicazione immediata, che possiamo tranquillamente buttarci alle spalle - magari perché va di moda il post-moderno - il motivo dell'origine o, se preferiamo, il problema dell'accadimento. Che questo senso risulti un enigma è un altro discorso ed è una sfida, forse la Sfida, che va affrontata con tutta la forza del pensare di cui abbiamo ancora la fortuna di disporre. Questa rubrica, iniziata in Alfabeta n. 60, con un intervento di P.A. Rovatti, ha accoltofinora interventi di F. Rella e E. Greblo (n. 62/63), G. Jervis, G. Bottiroli e A. Illuminati (n. 64), G. Franck (n. 65), C. Sini (n. 66), G. Vattimo, A. Sciacchitano e D. Marconi (n. 67).

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==