Alfabeta - anno VI - n. 66 - novembre 1984

N . el secondo dopoguerra, e con maggior vigore negli anni sessanta e settanta (dopo la «rialfabetizzazione collettiva» del neorealismo cinematografico), il fotogiornalismo italiano cosiddetto impegnato trova in alcuni periodici illustrati un punto di riferimento anche ideologico: lo spazio della fotografia, ora, è quello del «documento civile». Cresce il conflitto sociale, i protagonisti nuovi, operai donne e giovani, si collocano ormai in primo piano - e si afferma con essi una nuova figura di fotografo indipendente, professionista e insieme militante del movimento, che lavora, secondo una diversa ideologia ed estetica, con immagini significative e non necessariamente «belle». Non è interessante solo il corteo, la manifestazione, ma anche, ciò che più conta, la nuova attenzione al lavoro nelle fabbriche, all'acuirsi dei conflitti, alle nuove contraddizioni nella città, insomma alle condizioni di vita delle fasce sociali più deboli. È il periodo in cui la fotografia diventa sempre più un fenomeno di massa, che è visto di buon occhio dalle riviste di settore e dal mercato multinazionale, loro cliente pubblicitario privilegiato. Ma la nuova fotografia 'militante' è dichiaratamente di parte: storie narrate in sequenza o analisi di avv,enimenti, non più (non solo) fotografia come informazione ma anche- e, nelle intenziorii, soprattutto - come controinformazione. L'inchiesta dentro e dietro i fatti è il metodo di lavoro praticato: si tenta (si crede in) un diverso rapporto tra politica e prod~zione culturale, in una cultura 'altra' da contrapporre a quella 'borghese'. Per la merce-fotografia, però, mancano mercati alternativi a quelli tradizionali, e perciò margine per sottrarsi alle sue leggi: i diversi valori d'uso che trasformano il senso. La stampa quotidiana o periodica ad alta tiratura, l'unica che può retribuire le collaborazioni, pubblica solo immagini-simbolo estrapolate dai réportages, a volte mutate ancora più di senso con tagli e didascalie improprie e decontestualizzanti. In un giornalismo come quello italiano, tradizionalmente legato alla parola scritta, mancano cultura •e sensibilità per l'immagine (con la splendida e lontana eccezione di Federico Patellani). E, all'epoca, i fotografi riuniti in associazione nell'Airf chiedono il «redattore fotografico» o l'«ufficio fotografico redazionale» (dove si deciderà con i fotografi esterni «quali fotografie passare e come tagliare e impaginare»). Perciò le produzioni della nuova fotografia 'militante' trovano solo in parte spazio sulla stampa periodica e quotidiana tradizionale - ivi ~ inclusa, ovviamente, quella della ':! sinistra storica - e in seguito sui ·t • nuovi quotidiani e riviste della sig_ nistra rivoluzionaria (Manifesto ~ escluso), ma si affermano meglio ~ nei numerosi libri di buona qualità ~ spesso autoprodotti, o in mostre e ] audiovisivi (specie diatape), dalla 6 sintesi comunicativa più efficace e: nel linguaggio, senza grandi limiti ~ nel numero delle immagini. r.: Nonostante alcune effimere ~ conquiste, il fotografo di mestiere ;! rimane un lavoratore oggi come 13 ieri marginale, parcellizzato e a rafiadopolamilitanza volte subalterno culturalmente all'industria della notizia (giornali e agenzie di distribuzione), spogliato come è di ogni forma di controllo sulla propria produzione e sul prodotto complessivo. Il carattere prettamente giornalistico della professione di fotocinereporter, in Italia, è stato riconosciuto soltanto nel settembre 1976, con un decreto legge dell'allora ministro di Grazia e giustizia Bonifacio che aprì le porte dell'Ordine dei giornalisti a fotografi dipendenti (fino ad allora assunti come impiegati o peggio) e indipendenti (questi ultimi relegati tra i pubblicisti). Parevano allora prossimi mutamenti radicali, e anche uno spazio maggiore per la fotografia interna alla classe. Piaccia o meno, oggi sappiamo che le cose sono andate diversamente. Rimangono il desiderio e la necessità di una corretta informazione di parte, perché si chiude un ciclo ma non finiscono le lotte, e nuovi soggetti - i senzalavoro -, nuovi bisogni e comportamenti salgono alla ribalta. e on la chiusura di spazi e canali per l'informazione antagonista, con il dissolversi del movimento di lotta, principale riferimento e fonte di informazione, torna a mancare uno scopo, una prospettiva, un certo modo di interpretare la militanza da parte del fotoreporter. Finito il tempo in cui l'antagonismo sociale vende bene, si trasformano anche le formule editoriali dei media, specie dei grandi periodici. Anche la stampa più radicale . e aggressiva è ora in prima linea a raccogliere la nuova domanda di ritorno all'ordine, di restaurazione sociale, con proposte rassicuranti e rivolte ai nuovi modelli di pura evasione. Oggi si dà ben poco spazio alla fotografia di denuncia. Questa evoluzione-involuzione ha contribuito a generare la crisi culturale della formula Espresso, che segue la crisi internazionale del rotocalco (in America chiudono sia Look . nel 1971che Life nel 1972), impotente verso la concorrenza televisiva, che si dimostra sempre più avida nel sottrarre pubblicità e prime notizie alla carta stampata. Di fatto, sono diminuiti anche gli sbocchi commerciali al buon fotogiornalismo e all'inchiesta sociale fotografica. Infine, l'aumentato costo della carta e la crescente messa in opera di nuove tecnologie porta alla riduzione di formato nei settimanali e quotidiani. Sui periodici vecchi e nuovi di dimensioni più ridotte si pubblicano foto quasi sempre di formato minuscolo o 'testine' di politici, decorativi tappabuchi per alleggerire la pagina. Come ha affermato Pietro Raffaelli, fotografo dell'Europeo, le fotografie oggi servono «per riempire lo spazio che si deve lasciare sui gion,~li fra le fotografie di informazione commerciale, per salvare un minimo di decenza e giustificare il prezzo che si chiede al lettore per suggerirgli l'acquisto di un frigorifero o cose simili» (in A. Gilardi, Storia sociale della fotografia, Milano, Feltrinelli, 1976). La riduzione dello spazio riservato nei giornali al réportage a sfondo sociale impone ai fotografi una qualche riconversione: chi Giovanni Giovannetti muta genere (passando alla moda o allo still life, ad esempio), chi entra in un giornale, chi sopravvive con la stampa minore sindacale o di partito, chi cambia mestiere. Lf impegn? s~ciale e !11ilitante, oggi pm propnamente 'civile', non si estingue (né lo può) ma si rfconverte spesso a una ricerca più 'mirata' e ormai senza un progetto globale, tesa a 'immaginare' i mutamenti in atto, i segni meno clamorosi del processo di trasformazione. A volte la via è ancora la produzione autonoma. Editoria marginale, e forse più di ieri inefficace, ma che motiva a fare, nonostante la mancanza di migliori e forse più credibili sbocchi. Editoria di élite suo malgrado, se per fotografia popolare si intendono i libri illustrati con fotografie dal taglio amatoriale e che a tale pubblico si rivolgono. L'autoproduzione di un libro fotografico si impone per certi lavori di analisi e lettura critica del presente con testimonianze prese dalla realtà sociale. Questa pratica va oggi affermandosi (il costo di un libro fotografico può anche essere contenuto). A volte si tenta di avere continuità e respiro promuovendo case editrici. Le esperienze di produzione in proprio (e le nuove case editrici), «fatte di strane figure che hanno sconvolto la tradizionale organizzazione del lavoro editoriale ricomponendo mansioni divise e Vo, '1. ().,;? /,) P a_,K.., G1 ,/u.A.t"-01'1.x. /_o~°f/21~ }ft, : :t~·•; :_-_!~. ... -·- 1 ___ _ ... - hanno inaugurato in anni recenti numerose collane di fotografia con proposte, vedi caso, spesso mediocri. Produzioni nate perché c'era uno spazio vuoto di mercato - e così è stato, e ormai si notano segni di stanchezza. Prevalgono le riedizioni di libri stranieri, oppure monografie 'd'autore'. Sempre modesto è l'interesse per autori e produzioni italiane, e si esaurisce prevalentemente nei soliti nomi. Per il contemporaneo, che 'brucia in fretta', l'interesse è solo sporadico. A tale editoria, insomma, importa soprattutto la mitologia del grande fotografo, spesso intrisa di significati anche ideologici, patrimonio di una cultura cara alle riviste fotografiche e all'industria di settore. Ma anche se il mercato non 'tira' come qualche anno fa, rimane tuttavia uno spazio per produzioni di rigore e buona qualità - spazio residuo e culturale, ancora più impervio se l'editore è piccolo o il libro è autoprodotto. Il problema drammatico dell'editoria minore, come noto, non è la crisi di qualità e vivacità di idee ma la distribuzione. Pochi titoli l'anno sui banconi delle librerie si perdono quando non ci sia uno stretto contatto con il libraio. E, ancora, il piccolo o piccolissimo editore fatica a restare nel 'coefficiente 5' e a contenere i prezzi, che data la tiratura limitata tendono a lievitare. Le cose migliorano forse con le edizioni locali, ma altrove i problemi si assommano ai • J • i--· - . - ..... ' .. ·-· • ' . • ; ; "-~ __ ;_·_ -~ . . . -·: . • -· •. : .. • ' .. ····· ; Eugenis Evtusenko creando nuove specializzazioni» (P. Moroni, B. Miorelli, in I fiori di Gutemberg, Roma, Arcana ed., 1979), sono fuori della produzione editoriale ufficiale, e portano un poco d'aria nuova avvicinando un lettore fondamentalmente subalterno, che non ha mai avuto buone relazioni col libro o che, date le modalità del messaggio, è sempre in rapporto di sudditanza verso di esso, o ne è stato finora escluso. «Da ogni grande città, ma anche dal fondo remoto di parecchie città di provincia, giungono luci e segnali di questi centri di distribuzione del 'diverso', che si possono collegare, in una visione trasversale del fenomeno, ad alcune radio libere, a spettacoli parateatrali e a riunioni di gruppo o di gruppi» (M. Corti, «Segnali dall'editoria alternativa», in Alfabeta n. 5, settembre 1979). Ma è possibile una diversa editoria fotografica, volta a tematiche sociali, che non sia subalterna alle logiche di mercato? 4lcuni editori, grandi e piccoli, problemi. Oggi in Italia non esiste una promozione-distribuzione a misura di un piccolo editore. ( be fare? Quali possono essere le vie d'uscita? È difficile inventarne. In passato, quanto alla distribuzione, sono stati messi in piedi consorzi tra piccole c~se editrici, ma spesso, anziché le forze, si univano i problemi. Oggi, una distribuzione più flessibil;., provinciale e regionale, può servire soprattutto per le edizioni locali (e per una più razionale ed efficace promozione del libro). Lavorare con un limitato circuito di librerie specializzate risolve solo in minima parte il problema, anche se consente una migliore programmazione delle tirature e il relativo contenimento delle rese. La vendita per corrispondenza, ottima per le riviste, non è sempre adatta ad altre pubblicazioni di uscita non regolare. Fare libri costa, fare certi libri non rende, e su un piano puramente commerciale sarebbe inutile dannarsi. Per non essere 'editori in perdita' serve una committenza che non debba misurare quanto fa col metro del profitto economico. Come la crisi del cinema in Italia è stata massicciamente aggirata con denaro -pubblico (le grandi produzioni Rai, ad esempio), svincolando il buon cinema dalla crisi delle sale di proiezione e dai problemi di distribuzione, forse l'editoria minore qualificata - e almeno l'editoria locale, dal raggio territoriale più definito - potrebbe agire allo stesso modo, fatte le debite proporzioni, con enti e gruppi di biblioteche. Certo, i tempi non sono dei migliori perché manca una politica degli acquisti da parte delle biblioteche e la crisi degli enti locali, prima ancora che politica, è oggi culturale. E, naturalmente, anche l'ente locale pone vincoli dettati dalla propria ideologia. La chiusura o la trasformazione delle 'librerie di movimento' ha riproposto ìI problema della subalternità al vecchio mercato. La piccola editoria approdata a rapporti stabili con gli enti locali non è molto più indipendente: migliorano le regole del gioco ma non inigliora la programmazione (con gli enti si negozia di libro in libro: rapporti politici per tempi lunghi - progetti complessivi, strategie di settore - non sono oggi possibili: è facile cadere nell'autocensura, addomesticando le proprie proposte per renderle accettabili all'interlocutore). O rinunciare, dunque, o rassegnarsi e contentarsi d'averne consapevolezza (ahimè), pensando che in fondo è il male minore e ciò che co~ta è"sopravvivere in attesa di tempi migliori. La storia della fotografia - dell'editoria, dell'editoria fotografica - militante è stata anche storia di contraddizioni, non sempre risolte al meglio, ma a volte più grandi di quelle che ora si pongono. Cfr. Uliano Lucas Cinque anni a Milano Torino, Musolini ed., 1973 pp. 212, lire 5000 Aldo Vito Bonasia Nanni Balestrini Vivere a Milano Milano, Cs. app., 1976 pp. 32 Autori vari Seveso, una tragedia italiana Milano, Idea ed., 1977 pp. 72, lire 3900 Enrico Scuro Malgrado voi. Immagini di due anni di battaglie del Movimento di Bologna Bologna, L'occhio impuro, 1979 pp. 60, lire 3000 Tonino Conti «Napoli: una polveriera che non scoppia» in Alfabeta n. 21 febbraio 1981 Tano D'Amico Con il cuore negli occhi. Fotografie dell'Italia quotidiana 1972-1982 Roma, Kappa ed., 1982 pp. 96

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