Alfabeta - anno VI - n. 65 - ottobre 1984

Che cos'è M,e~s religione J oker, parassita. Nel suo metodos che scorre lungo l'intersezione delle partizioni disciplinari, Miche! Serres ha raggiunto Roma, luogo delle fondazioni. Da molto lontano. Uno choc iniziale lo aveva condotto verso le matematiche moderne, verso Bourbaki; e qui aveva sondato - negli anni sessanta - le matrici algebriehe dello strutturalismo. Quindi, lo slittamento e il salto, dalle matematiche al mito e alla storia, con Dumézil (e Girard) che indicavano la strada. Colpito dalla crucialità degli interrogativi sul fondamento antropologico della nostra scienza, Serres non ha ambìto alla definizione di spazi di sapere. Rompendo le fila compatte di una cultura sicura della propria consistenza, ha riproposto, nella specificità del movimento professionale e nella consonanza con i percorsi teorici di Foucault, di Deleuze, di Morin, l'impegno etico-politico, lungo un discorso tessuto sull'orlo del baratro, che ignora l'occultamento reciproco della realtà sociale delle scienze 'esatte' e della realtà fisica delle scienze 'umane'. Orfani, naufraghi, ma saldi nel nostro destino etico di girovaghi: «Se la storia è fatta così, non abbiamo che uno scopo: cambiare. Non trasformarla, la ripetizione riapparirebbe sempre sotto forme falsamente nuove. Cambiare. Andare altrove. Se la cultura è fatta così, non abbiamo mai provato verso di essa se non ripugnanza e disgusto. Andare altrove. Inventare qualcos'altro. O un altro tempo» (M. Serres, Rome, Paris, Grasset, 1983, p. 278). Altrove, dal sapere esatto al sapere discorsivo, alla ricerca di un ponte che è misconoscenza, mito, religione. Nel passaggio emerge però lo scoglio del linguaggio, il problema della nominazione, questione all'ordine del giorno della speculazione filosofica. Per i filosofi il problema del linguaggio è originario, preliminare. Essi rimangono così impigliati nel verbo, ma il verbo si è fatto carne, tutta una densità figurale segna l'antichità che precede il momento della parola. Lo scoglio va superato. Per aprirsi alla densità del possibile, allo stato nascente delle scienze (esatte e umane), non ci si può fermare ai solidi edifici della scrittura, all'intelaiatura compatta della lingua, rifugio sicuro dinanzi ai turbini di una natura ostile. Serres ha trovato nel mito, nella religione, una forza primordiale cheal di qua del linguaggio - cerca di tessere un senso, di collegare i tessuti fisici e umani. La leggenda ci dice come leggere ciò che si deve leggere, è una metalingua segreta che illumina le ombre della storia. La leggenda si dà come integrale, possibile, insieme dei sensi; in questa tavola totale delle possibilità è iscritto lo scorrere dei profili della storia («la storia porta in sé la propria leggenda»). La centralità del mito risiede nel po~sesso di tutti i valori che metteranno in gioco la serie analitica delle storie, nella sua pansemia. Potremo sempre comprende- • re la storia per mezzo della teologia (Juppiter), dell'economia (Quirino), della violenza (Marte); eccoci ancora alla triade indicata da Dumézil. Il mito appare - come sostiene Franco Rella richiamandosi a Henri Corbin (F. Rella, «La necessità del racconto», in La casa di Dedalo n. 2, febbraio 1984, pp. 108-9) - un «intersegno». Esso è racconto e trasfigurazione, spazio della metamorfosi e sapere del mutamento, necessario come narrazione delle forme che mutano. E Serres riconosce tale densità del discorso mitico, operando ricorsivamente sul tessuto di miti proposto da Tito Livio. Da qui il significato di Rome, libro delle fondazioni. Al centro il dilemma antropologico sul costituirsi del sociale: «società» (da sequor, 'fare una sequenza') è la rete delle relazioni che concrescono in un collettivo. Per risalire dalle sequenze sociali al loro integrale Serres ha preso alla lettera alcuni miti della fondazione, restituendoli alla loro trasparenza. È utile consentire una lettura pienamente perspicua della conferenza tenuta da Serres presso l'École Française di Roma il 13 giugno 1984(della quale si riporta qui il testo), fornendo qualche nota a margine delle leggende trascelte da Serres per l'occasione dal testo liviano, nell'ordine in cui vengono presentate. Compare per primo l'episodio di Tarpea, descritto da Livio nella Storia I, 11, e soggetto a numerose interpretazioni già nell'antichità. Oggi se ne riconosce il carattere di invenzione posteriore legata all'esigenza di fornire una spiegazione narrativa del nome (etrusco) assegnato alla rupe Tarpea. La trascrizione di Serres rende conto della concrezione di leggende presente nell'episodio, che Livio raccoglie fedelmente. Pena capitale Nella gamma delle interpretazioni si riconoscono due poli: quello indicato da Properzio (e non presente in Livio), che vede in Tarpea la vittima dell'amore con il re dei Sabini, e quello dovuto a Calpumio Pisone, secondo il quale i Sabini la uccidono perché sospettano di lei. Ma la pluralità interpretativa non ha intaccato il cliché della narrazione, che Serres riconosce di origine rituale. La seconda figura è costituita dall'apoteosi di Romolo (Storia I, 16), indice della divinizzazione del re di Roma. Qui il luogo deputato della fondazione si identifica con il futuro Campo Marzio, spazio per tradizione adibito a esercitazioni militari; è evidente la localizzazione della centralità del potere militare in Roma (per altro sottolineata con la celebrazione di una vera e propria festa della fondazione il 7 luglio). Nella terza leggenda viene presentato l'episodio del contrasto tra Turno Erdonio di Ariccia e il re Tarquinio il Superbo (Storia I, 50- • storia. Inizio dunque raccontandone tre. 51), posto a evidenziare l'estensione della sovranità di Roma alle città della Lega latina (Ariccia, principale città della Lega, venne assoggettata da Roma nel IV secolo). Anche qui, significativamente, la localizzazione è pregnante: Ferentina era ninfa venerata sui monti Albani, proprio nella zona di Ariccia. Turno Erdonio (dal prenome etrusco e dal nome sabino) viene precipitato nella fonte Ferentina (che rievoca una divinità latina). Etruschi, Sabini e Latini fanno da sfondo all'imperium di Roma. Indi Serres ricorda l'evento della caduta della pioggia di pietre prima della morte di Tullo Ostilio, avvenuta sul monte Albano e riferita da Livio in Storia I, 31. Tra le altre piogge miracolose scrupolosamente tramandate da Livio si ricorda quella avvenuta nel periodo della guerra contro gli Aurunci, al tempo dei consoli Tito Manlio Torquato e Caio Marcio Rutulo (Storia VII, 28). Anche in questo caso, come nel precedente, la consultazione dei sacerdoti e la riunione del popolo è fatto rituale. Va aggiunto inoltre che è abitudine normale di Livio quella di presentare minuziosamente tutti i prodigi legati al volere degli dei, secondo una tradizione di catalogazione anno per anno, desunta dall'annalistica. Serres si sofferma infine a lungo sull'episodio di Marco Curzio (riportato ampiamente nel testo con le stesse parole di Livio). La presenza del lago Curzio nel bel mezzo del Foro era tuttavia già stata oggetto di rievocazione per Livio che (in Storia I, 12-13) la «spiega» connettendola allo scontro tra Mezzio Curzio e Romolo, ovvero a un evento avvenuto al tempo della guerra con i Sabini (e del tradimento di Tarpea). Il contenuto di questa leggenda primitiva si può così sintetizzare: i Sabini, penetrati in Roma dopo il tradimento di Tarpea, si scontrarono con i Romani nella valle tra il Palatino e il Capitolino - nel luogo di quello che sarà il Foro -; ivi Mezzio Curzio, a capo dei Sabini, costrinse i Romani alla fuga; soltanto Romolo, dopo una preghiera solenne a Juppiter, riesce a lanciarsi alla controffensiva, provocando la caduta di Mezzio in una palude. La leggenda si conclude raccontando che Mezzio si salverà, grazie all'incitamento dei Sabini, e che, dopo l'intercessione delle donne sabine, i Sabini verranno associati al regno di Roma. Il lago in cui era caduto Mezzio verrà chiamato Curzio, in ricordo della caduta (ovvero della vittoria romana) e dell'alleanza (ovvero dell'unità con i Sabini). La successiva spiegazione di Livio mette in ombra questa prima versione certamente meno densa, e valorizza il primo esempio romano di devotio (intesa come autosacrificio agli dei inferi per placarne l'ira). Con Marco, più che con Mezzio, traspare la chiusura dell'integrale. che consente la fondazione. Da queste tracce emerge gradualmente il significato di questa «città di tombe» (Stendhal), di questa Roma-oggetto che, a differenza della luce geometrica di Atene e dell'interpretazione storica di Gerusalemme, implica la comprensione, la imprigiona in una scatola nera, incarna il senso. Da qui il significato di Roma, del collettivo umano che costruisce il proprio oggetto. Ecco che, ricorsivamente, una teoria antropologica del collettivo si traduce in teoria della conoscenza, e che viceversa una epistemologia si ripiega sull'abisso della fondazione sociale. Roma, segno e pietra. «Roma non spiega né illumina, nessuna luce sprigiona dalla sua pietra. Essa è nera, è sul versante dell'oggetto. Essa è oggetto ( ... ). Essa costruisce l'oggetto senza illuminarlo né farlo comprendere» (Rame, pp. 108-9). Tuffarsi a capofitto nell'oggetto abbandonando la griglia interpretativa dei linguaggi codificati è opera stolta e coraggiosa. Interrogare il mito con la lingua ingenua di Alice comporta un oltrepassamento delle sedimentazioni linguistiche e, pour cause, delle filosofie del linguaggio. Si penetra nel profondo del baratro con gli occhi di Marco Curzio; si va verso lo stato nascente delle scienze esatte e delle scienze umane. Questa è metafisica. Dopo Lucrezio, dopo Leibniz, ancora storia naturale. Gaspare Palizzi P rego, iniziando, gli dei immortali e il dio eterno che sono stati pregati in questa città fin dalle origini. Li prego di volermi perdonare la dismisura di porre la domanda «Cos'è la religione?» all'interno stesso dei loro santuari distrutti, dimenticati o ancora fiorenti. Prego anche gli storici della romanità di volermi perdonare l'audacia di parlare ingenuamente dei loro oggetti all'interno stesso della loro specializzazione. Prego infine il pubblico e gli abitanti di Roma di volermi perdonare la temerarietà che ho mostrato pubblicando un libro sulla loro città, io che non sono, da centinaia d'anni, altro che un contadino della Garonna, dal nome un po' iberico, ma vissuto in un luogo mai veramente latinizzato. Tuttavia, per mestiere, per passione e per ostinazione, pongo la domanda «Cos'è?»; non come gli amici storici la questione «tempo», ma la domanda principe della filosofia, «Cos'è?»: «Cos'è la religione», «Cos'è un miracolo», «Cos'è un prodigio». Cos'è la religione: una vecchia domanda, una vecchia domanda che sembrava morta, ma che precisamente concerne la morte, allo stesso modo per cui è legittimo pregare gli dei irascibili di allontanare dalla nostra testa fa loro collera cominciando un discorso, allo stesso modo per cui, per interessare il pubblico, conviene - sembra - raccontare qualche Prima figura. Nella Roma leggendaria e agli inizi della fondazione si racconta che Tarpea, giovane vestale figlia di un ufficiale comandante la guarnigione romana di guardia contro i Sabini, JU colpevole di alto tradimento. Nel momento in cui Roma era assediata dai Sabini, ella diede ai nemici le chiavi di una delle porte che chiudevano le mura di Roma un giorno in cui era uscita a cercare dell'acqua per un rito lustrale. Quando i nemici entrarono nella cittadella dopo aver aperto laporta della quale essa aveva loro dato la chiave, le consegnarono all'istante il prezzo del suo tradimento. Tarpea aveva chiesto ai Sabini di donarle ciò che portavano al braccio sinistro, e la tradizione dice che essi al braccio sinistro portavano dei bracciali di pietre preziose. E si racconta che i guerrieri sabini entrati in Roma gettarono sulla vestale tutti i loro bracciali e forse anche - dice un'altra tradizione - tutti i loro scudi; e si vide immediatamente il corpo della giovane vestale completamente seppellito sotto gli spessi bracciali e gli scudi. Si conoscono più versioni di questa faccenda; si conoscono ancora più interpretazioni di questa storia. Non è un prodigio, è forse un rito. dice - sopraggiunse uno spaventoso uragano: turbini prodigiosi, tuoni, lampi e venti. I turbini furono così forti che la luce del giorno si spense e un'oscurità profonda avvolse il popolo. Quando la luce tornò, pacata e serena, Romolo non era più là: prima dell'uragano egli c'era, sul suo trono, ora non era più là. Muto stupore di tutti; ed ecco che dalla folla una voce timida comincia a dire:« Viva Romolo, antico re di Roma: è diventato dio». Allora due, poi tre, poi cento voci, poi tutta la folla inizia a intonare il canto dell'apoteosi, ed è così - si dice - che Romolo è diventato dio dopo essere scomparso dal suo trono nell'oscurità dell'uragano. Ma si diceva anche che i senatori che si trovavano intorno al trono, prima che scoppiasse l'uragano, avevano trinciato Romolo a pezzi, e ciascuno aveva preso un pezzo del corpo del re tra le pieghe della propria toga, e poi erano andati via nascondendo un pezzo del corpo del re. Di questa storia c'è una versione nitida2 e molte interpretazioni. Non è un grande prodigio, è senza dubbio e con certezza un assassinio; e forse un assassinio del genere che i greci chiamavano esattamente «scomposizione del corpo in membra sparse», qui perpetrato senza dubbio dai padri della città. Seconda figura. Romolo, primo re di Roma, teneva un giorno un'assemblea nella palude della Capra1,quando - si " Terza figura. Sempre nell'epoca leggendaria di Roma, si racconta che un giorno Tarquinio il Superbo era arrivato in

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