arme/o Bene ci presenta un soggetto immerso in un isolamento implosivo e schizoide senza possibilità di redenzione - metafora della condizione dell'uomo contemporaneo; Lasua centralità è totale, Larealtà è addensata tutta in Lui, precipitata e ingoiata come da un 'buco nero'; non c'è nulla al di Làdella sua presenza e della sua voce, gli altri personaggi non sono che sue proiezioni; ma si tratta di una centralità che si sfa/da, che si decompone. Il soggetto si lascia sprofondare nel suo solipsismo prigioniero unicamente di se stesso, immerso in uno spazio semibuio e precario in cui gioca con oggetti inutili e con i fantasmi che si agitano nella sua mente. Egli è solo perché tutti i personaggi sono in Lui - questa è la sua onnipotenza -, ma per questo non può esservi azione - questa è la sua impotenza -, solo una voce monologante che si fa sua eco nostalgica. L'artefice è condannato a esseresolo in quanto portatore di una mancanza, dell'assenza che è in lui: l'eterno femminino. li teatro per Carmelo Bene è androgino, l'attore è l'ermafrodito che deve liberare la componente femminile che è dentro di sé; «il vero senso del teatro è femminile, ma può essere femminile solo nell'assenza della donna»', perché Ladonna è pienezza di senso e non può autonegarsi senza tradire se stessa. Il teatro è mancanza, eccesso di desiderio; Ladonna, invece, è portatrice di senso, è presenza che non ha bisogno di rappresentarsi. L'avvento della donna sulla scena del Settecento non fu una sua conquista, ma un'astuzia del potere che, riducendo Laseparazione tra maschile e femminile a; caratteri sessuali, voleva cancellare l'erotismo e l'osceno come eccesso del desiderio, ponendo un freno alle sue spinte irrazionali e trasgressive, «Estratta dalla sua 'realtà sociale', solo apparentemente 'libera' in 'arI saltidivoce te', la donna è doppiamente svergognata in palcoscenico dove è pur sempre riconfermata 'serva': vestita d'oro e argento in cielo e in terra, eroina crocifissa dalle assurde devozioni wagneriane, è tollerata come 'redentrice', eternamente vittima dei 'maschi volanti'. Poveri noi: 'redimere' è 'ubbidire',/. Da questa androginia, che condanna il soggetto alla solitudine di un'esistenza che non può 'essere' - in quanto mancanza -. deriva un costante senso di malinconia verso l'irraggiungibile 'unità perduta' e di morte, che non sfocia in alcuna catarsi finale perché l'artefice - tiranno/vittima di se stesso - sa che anche la rappresentazione è impossibile e irride i meccanismi di falsificazione e di illusione su cui si basa il teatro tradizionale. La 'sospensione del tragico· equivale a fermare l'evento, a rifiutare la 'finta' morte che rigenera; «la morte del/'eroe nella tragedia è l'equivalente del lieto fine nella commedia, la catarsi non è altro che il rinfresco finale che tutti quanti si prendono nella commedia e nella tragedia»3, mentre la 'sospensione del tragico' è trasgressiva perché destabilizza un genere, un potere, e va oltre creando una 'prassi di afasia' sia nei gesti che nella lingua. Nessuno parla se non a se stesso; le parole e i gesti sono smontati e destrutturati da una tecnica espertissima che regola i tempi e i modi dell'afasia; la voce viene espropriata e separata dal corpo mediante il play-back; l'io viene frantumato e perde la sua funzione di luogo unificante, risultando privo di quella compattezza e sicurezza che lo avevano fatto apparire come luogo fondante e indivisibile dal quale osservare la realtà. In questo teatro c'è però una 'tragicità' più profonda, che non ha nulla a che vedere con quella tragicità consolatoria che Carmelo Bene vuole superare 'sospendendola'; Massimo Marino Memola è la tragicità di un soggetto che sa che non può 'essere' - in quanto mancanza - e rifiuta di 'rappresentarsi' - in quanto la rappresentazione è mistificazione, falsa coscienza -; è la tragicità di un soggetto al quale non rimane che vivere nell'impotenza e nella solitudine la propria autenticità. Quella sospensione, che riguarda il teatro tradizionale e non implica il rifiuto del tragico in quanto tale, è necessaria per recuperare il tragico nella sua dimensione più autentica, come luogo dell'impotenza che non consola ma de111111cia. Maric Hélènc Btinasso È su questa strada che la ricerca dell'ultimo Bene sembra muoversi; Adelchi non è un personaggio che muore sulla scena, ma una voce che si spegne dopo aver gridato la sua impotenza. Questo aristocratico eroismo, condannato alla sconfitta, tende a risvegliare lo spettatore dalla sua passività e dalla sua inautenticità senza plagiarlo, prova del rispetto che l'artefice ha verso il pubblico. Egli pone sotto accusa l'io come centro coordinatore del discorso e il soggetto è senza più protesi', senza più maschere; libero di esprimere la sua condizione lo fa in modo precario ma autentico, senza più la mediazione del linguaggio segnico. Abolito l'io, Carmelo Bene abolisce anche il suo linguaggio; egli va oltre il linguaggio segnico dell'io che 'rappresenta' la realtà moscherandola; va oltre il linguaggio simbolico, che ha bisogno sempre dell'io per decodificare le sue metafore, e regrediscefino a esprimere le risonanze più interne del soggetto attraverso il suo diretto linguaggio: la phonè, che non rinvia, non rappresenta, ma è presenza del soggetto, è la voce di Narciso, la sua Eco. Il soggetto costretto dall'io a rappresentarsi si libera dalla sua sottomissione e vuole farsi presenza attraverso la phonè, ma rimarrà prigioniero della sua impotenza, della sua impossibilità di 'essere'. Lo scavo nel testo e dal testo alla parola è radicale; esso è ridotto a spartito musicale, la parola a insieme di suoni che vengono scomposti in grumi sonori, che variano continuamente di altezza e di intensità, fino a creare un significante che non è più decifrabile dall'io; un significante che non è più rinvio a un significato, ma coincide con esso (la forma dell'espressione coincide con il contenuto che esprime): la parola ridotta a suono esprime direttamente la tensione emotiva che celava dentro di sé. Questo 'work in regress' che annulla la separazione trasignificante e significato dà luogo a un linguaggio primitivo e fortemente emozionale, che va oltre le parole per svelare ciò che esse non dicono, anche quando rimane fedele a esse. Carmelo Bene, attraverso la frantumazione della parola-segno, evidenzia l'inadeguatezza di questa nei confronti di ciò che vuole esprimere (tçma centrale nella letteratura del Novecento, legata alla crisi dell'Io); d'altra parte, in Bene c'è un particolare 'rispetto' verso quella 'parola' - dantesca e manzoniana in special modo - che è espressione piena, in sé conclusa, di realtà, e nella cui intrinseca musicalità si concretizzano con rara immediatezza i sentimenti e le emozioni del soggetto. Questo metodo sottrattivo - messo in evidenza da G. Deleuze - riduce tutto ali'essenziale, alle strutture basali della significazione, là dove il senso confina con la follia; questo linguaggio, infatti, così primitivo e elementare, lo si incontra quando nella regressione ci si spinge al limite della mente oltre cui il senso si perde e svanisce. Ne~'Adelchi i due p<frcorsiseguiti parallelamente negli ultimi anni da Carmelo Bene - quello del Teatro e quello della Poesia - si incontrano, liberando la poesia del teatro da tutte le convenzioni e finzioni sceniche che la imprigionavano; così, sublimato il Teatro nella Poesia, rimangono solo le parole e le musicali sonorità della voce. L'immagine è trasformata in elemento sonoro, ma la capacità evocativa della phonè tende a dar fisicità ai suoni creando una 'gestualitàfonica' che popola la scena; questi suoni vanno non solo ascoltati, ma guardati; essi si concretizzano in immagini sonore. L'artefice è riuscito a materializzare nella phonè i suoi fantasmi, che svaniscono immediatamente, riassorbiti dal silenzio, lasciando il soggetto di nuovo solo nella semioscurità della scena. Carmelo Bene, rifiutando da attore nietzscheano la maschera, vuole vivere il teatro come 'autentica esperienza vitale', collocandosi nell'emarginazione trasgressiva e aristocraticadi chi, rifiutando le ricomposizioni liberatorie che lo riconcilino con se stesso e col mondo, preferisce l'impossibilità di 'essere' e la sconfitta alla falsità di 'rappresentarsi'. Note (1) Intervista di Carmelo Bene, in Franco Quadri, Il teatro degli anni '70, Torino, Einaudi, 1982, pp. 346 sgg. (2) Carmelo Bene, La voce di Narciso, Milano, Il Saggiatore, 1982, p. 68. (3) Intervista di Carmelo Bene, cit., pp. 337 sgg. (4) Cfr. Maurizio Grande, «Il soggetto senza protesi», in La voce di Narciso, pp. 119-52. A111letAo4, ~1chOi,tello Cooperativa Nuova Scena Teatro Testoni / Interaction Amleto di William Shakespeare trad. it. di Angelo Dallagiacoma regia, scene e costumi di Leo De Berardinis Teatro alla Scala Carmelo Bene L'Adelchi di AlessandroManzoni (in forma di concerto) musiche di G. Giani Luporini uno studio di Carmelo Bene e Giuseppe Di Leva Falso Movimento Otello ~ da Verdi ·- ~ progetto e regia di M. Martone ,! musiche originali di P. Gordon ~ scenografia di L. ·Fiorito e M. Martone ::::: .._ Costumi di E. Esposito ~ cartoons di D. Bigliardo °' lr) ~ e n'è parlato poco, ma Verdi J:! è stato ed è un punto di riferi- i mento centrale in questi anni ~ di svolte teatrali. Se n'è parlato poco perché la sua influenza si verifica attraverso riporti di seconda mano, quasi sempre, e perché corrisponde piuttosto a un atteggiamento pragmatico, a quella strategia del «furto» che da sempre appartiene al lavoro teatrale e che diventa esplicita solo quando chi commetti'! il delitto può permettersi di produrre argomenti concreti circa la sua funzionalità all'interno di un proprio progetto autonomo. Per questi motivi, bisognerà parlarne. Sarebbe utile e opportuno riprendere in sede critica e di indagine filologica il legame tra le forme teatrali esplose che caratterizzano la fine della modernità e quel corpo teatralefatto di musica e canto, portare alla luce le ragioni intime di questa curiosa relazione e approfondirne quindi le possibilità suggestive attuali. I registi dei tre spettacoli di cui parliamo con questo taglio particolare, hanno dedicato qualche spunto riflessivo a Verdi. Essi muovono da strutturate ipotesi culturali, accusano in partenza la norma del teatro da cui occorre distaccarsi, il quale affoga nella noia di un linguaggio senza più convenzioni di sostegno, come un assegno senza copertura. E sembrano guardare, indirettamente, al mondo della lirica, dove il pubblico sembra ancora tale, ovvero sportivo, attento verificatore di spettacoli di cui conosce le convenzioni su cui poggiano e dunque si gode il loro rispetto, la loro infrazione e soprattutto il gioco di quell'alterità che è l'interprete. Mentre nel teatro «sopravvivente» tutto sembra scolorirsi nell'indistinto e il pubblico è ridotto a massa amorfa e passiva, senza neanche potersi riconoscere in quanto categoria sociale o culturale. In termini più generali il problema da porre è quello del rapporto tra teatro e melodramma, come dire che, nel caso italiano, la rappresentazione teatrale alla fine della modernità scopre di non avere più caratteristiche fondanti, quel tessuto di relazioni culturali tipico del teatro occidentale che consiste, secondo una brillante sintesi di Geraci-Taviani, nel «con-venire senza con-sentire» (S. Geraci e F. Taviani, in Il piccolo Hans n. 40), e si volge indietro a vedere quanto nelle tradizioni ci sia di recuperabile in condizioni nuove e inedite. In questo senso, ancora, si potrebbe leggere tutto il teatro di oggi in rapporto a tutti i passati dei teatri (giacché, a soccorrere la crisi di statuto e la perdita di tradizione, ci si rivolge anche a culture lontane, come quelle orientali, le quali sembrano però orientate da presupposti di consentimento; ma si leggono anche perché codificano sapienze di corpo, ecc.). D e Berardinis aveva lavorato già negli anni sessanta sul- )' Amleto e su Verdi. Nel Sir & Lady Macbeth, soprattutto, le musiche verdiane erano ridotte a brandelli, utilizzate dai due protagonisti nel loro «affrontement»: Leo e Perla, su una piccolissima scena ingombra d'oggetti di basso rango, eseguivano una rigida quanto complessa partitura vocale, gestuale, musicale e di luci. Nervi scoperti, non i nervi della musica verdiana, ma l'amore e l'antagonismo dei due che si mostravano attraverso reperti culturali di varia origine, da Baudelaire, Shakespeare e Verdi a una dialettalità, una volgarità e una violenza ultrarealistiche che il teatro sembravano fondarlo. (Inutile ricordare quanti pochi spettatori ha avuto quello spettacolo di sconvolgente bellezza). In Sir & Lady Macbeth Leo e Perla per primi usavano l'amplificazione vocale con una maestria (tecnica, s'intende, non solo d'istinto) che li portava a un dialogo diretto con la musica verdiana. Oggi De Berardinis riprende l'Amleto in un contesto diverso. È protagonista e regista di una formazione di una ventina di elementi, il testo shakespeariano è rispettato nella sua integrità. Le ambizioni dell'autore e dei produttori rischiano il naufragio in un risultato poco Ieggrbile, in uno spettacolo che è stato giudicato da molti noioso, che è tale solo per l'insufficienza del complesso di in-
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