Alfabeta - anno VI - n. 59 - aprile 1984

~ ..... Lastazion~BBono~loi gna Concorso di idee per la ristrutturazione del nodo ferroviario e per la costruzione di una nuova stazione centrale di Bologna Galleria d'arte moderna Mostra dei progetti concorrenti (22 ottobre - 30 novembre '83) Mostra dei progetti vincitori e segnalati (10 dicembre'83 - 15 gennaio '84) n Emilia, da un po' di tempo a questa parte, s'è attanagliati da dubbio: «Meglio l'Utopia del Mito?», ovvero: dobbiamo continuare a coltivare l'ideale (ormai datato come ideale, invero) della programmazione globale, «complessiva», o possiamo avventurarci in sperimentazioni locali e regionali, anche se non statuite da piano nazionale? Dubbio profondo, che può paralizzare. Paralizza infatti. Intorpidisce la linearità delle decisioni: quali vanno prese per prime, quali sono le più «complessive»? Intanto lanciamo un concorso di idee per la stazione di Bologna, poi si vedrà. E così, coniugando sentimento politico e volontà pianificatoria, come sempre da noi, si è arrivati alla conclusione del primo grado della contesa progettuale sulla nuova stazione. Chissà se all'espletamento del secondo livello concorsuale sarà già definito il piano regolatore. Ma è opportuno procedere con ordine. La cronistoria è tristemente nota. Il 2 agosto 1980 un attentato la cui natura è a tutt'oggi ignota alla magistratura devasta la stazione di Bologna. Vittime, distruzione, panico ma anche grande afflato cittadino e nazionale, e dalle macerie «la ferma risposta democratica», come scrive R. Zangheri in premessa al bando, e «la volontà di vincere la barbarie anche offrendo nuove e più ampie occasioni di sviluppo economico e civile». asce così l'intenzione di bandire un concorso internazionale di idee per la ristrutturazione del nodo ferroviario bolognese e per la costruzione di una nuova stazione centrale di cui le amministrazioni cittadina, provinciale, regionale e le ferrovie di Stato si fanno promotrici. Apposita commissione tecnica predispone documenti, analisi, indagini utili ai concorrenti, e nel febbraio '83 il concorso è ufficiale. Dopo duecento giorni, i progetti sono sul tavolo della giuria. Sono giunti numerosissimi, centodieci, le pareti della Galleria d'arte moderna non bastano a accoglierli, si montano percorsi pannellati e in questo abbacirante labirinto si rinchiude la giuria. In occasione dell'apertura del salone dell'edilizia, con occhio attento anche al profilo promozionale dell'operazione, la fumata bianca: habemus ideas. Le polemiche scoppiano immediate, le critiche più diffuse: «megalomania», «occasione perduta», «retorica grandiosità». Parole forti, prive di quella ambiguità che in altri luoghi si riconosce carica di significati, di sfumature, di dialoghi epistemici. Ma anche questa nitidezza, questo giudicare duro e univoco è intieramente emiliano. Eppure le scelte della giuria paiono sagge. V'è stato riconoscimento di merito a progetti di filosofia diversa, direi quasi opposta. Anche il dibattito che sino a ora si è svolto ha visto contrapporsi - ma si direbbe quasi inconsapevolmente - almeno due modi di intendere oggi piano e progetto: mentre da una parte Cervellati - membro della Commissione tecnica e poi con veci di supplente nella giuria - si indigna per la scarsa considera- . zione dei problemi globali della pianificazione, dall'altra Crocioni - giovane leone nel panorama bolognese, commissario per le ferrovie di Stato - rivendica la scientificità dell'operare per segmenti. Se non si può negare a Cervellati la ragionevolezza delle sue critiche che, semmai, definirei tardive nella loro complessività, nel loro prospettare precise scansioni decisionali, nel suggerire maggiore oculatezza dei programmi locali rispetto ai regionali e nazionali, d'altro canto non ha torto Crocioai quando reclama maggiore libertà propositiva e suggerisce, per non cadere nell'immobilismo, di appoggiarsi a riferimenti generali attendibili anche se non assoluti. Ma qui si scontrano concezioni diverse del fare progettazione: urban planners e urban designers, come ama distinguere Quaroni, si trovano faccia a faccia in questo concorso bolognese - e non importa se sono commissari o concorrenti. Le sfumature, tra i concorrenti, sono più ricche, meno taglienti delle parole che forse affrettatamente si sono scambiate i nostri sulle pagine del quotidiano locale. Emergono per chi vuole essere attento ai paradigmi e non soltanto alle soluzioni operative. L e questioni che la Commissione tecnica individua e propone ai concorrenti sono sostanzialmente due: come qualificare il nodo ferroviario bolognese nell'ambito di una interpretazione metropolitana della regionalità; come ricucire la mappa delle correlazioni urbane: tra quartiere Bolognina e Centro storico scavalcando la barriera della stazione, e tra i nuovi poli di attività, fiera district, centro alimentare, interporto, decongestionando il nucleo cittadino. Problemi dunque, innanzi tutto, di mobilità, di maggiore flessibilità del sistema di trasporto metropolitano e regionale, temi su cui da tempo si ragiona. In questa prospettiva - a forte impronta urbano-territoriale, si ammette nell'allegato al bando - si inquadra la proposta per l'aggregato fisico della stazione centrale, uno degli ostacoli al processo di integrazione urbana (nel frattempo, bisogna ricordare, si è provveduto a ricostruire l'ala distrutta attenendosi a criteri di acribico rifacimento). Attorno alla stazione, nelle aree che si andranno liberando con il trasferimento del mercato ortofrutticolo e la riqualificazione del canale Navile, la Commissione ipotizza un «nuovo centro» a cerniera tra il cuore antico della città e le espansioni urbane che dalla fine dell'Ottocento si sono dilatate a nord del percorso ferroviario. Il bando prefigura perciò una strut- • tura «a ponte», accessibile da entrambe le direzioni e con caratteristiche di centro polifunzionale, capace di esercitare «attrazione per attività culturali e spettacolari, ricreative e commerciali». La Commissione, dunque, ha idee assai chiare sui problemi da risolvere e stila un piano molto lu-• cido delle preoccupazioni più di- . scusse, un piano - così mi pare possa essere definito nel ruolo che gioca - che non lascia molto spazio a interpretazioni urbanistiche alternative, e pare quasi chiamato a· supplire il piano regolatore da tanto agognato - per non parlare del piano delle ferrovie statali e di quello regionale dei trasporti presentati, fatalismi delle analogie, a pochi giorni dall'espletamento del concorso. intieramente tale v1S1one:attraverso stazione, freeway, eliporto (quando non c'è ancora aeroporto), sotterranee, sopraelevate, ecc. ecc., la città diviene, deterministicamente, ingranaggio di un meccanismo dominatore e dall'essenza misteriosa. Molti progetti si adagiano in questa fola, la coltivano e arricchiscono. E quando si vedono gli schizzi di D'Olivo rimanendone affascinati, non si sa se interpretare l'elicoide e i suoi collegamenti in quota come narrazione immaginifica o se evocare alla memoria (e la stazione-astroporto rafferma l'impressione) il progetto con cui nel '24, in clima assai diverso, André Basbevant proponeva un aeroRoberto Da Pozzo Che in Emilia, da un po' d'anni, si mediti di «tentare la scalata all'effetto metropolitano» ovvero di «trasformare una regione di città in metropoli regionale»1 è argomento non nuovo. Ma credo che assistiamo a una interpretazione della regionalità sfasata dalle condizioni che ne originano la necessità di ridefinizione. Il concetto di regione metropolitana diviene, sotto questo profilo, nozione meccanicistica, fondata in maniera esclusiva su elaborazioni di carattere quantitativo: le isocrone di percorrenza. Criteri che guidavano semmai l'individuazione della regione funzionale nella fase dello sviluppo industriale, ora nobilitati da unità metrica a categoria interpretativa. I parametri, nel mutamento delle situazioni, debbono cambiare. Pur non prescindendo dalla puntuale considerazione delle percorrenze, la definizione della regionalità metropolitana non può che basarsi su analogie di comportamenti: anche il treno più veloce non riesce a collegare scenari di vita e atteggiamenti culturali distanti, è sempre e solo strumento, veicolo utile e passivo. La lettura della città che il concorso propone riflette porto sui tetti di Parigi. La città del futuro pare insomma troppe volte ancorata a vecchi amori mai dimenticati: è funzionale, razionale e movimentata, frenetica. Moderna, direi quasi, senza voler per questo entrare in un dibattito di cui si sperava di vedere il superamento. Dall'altra parte, medesime esasperazioni: archi, archetti, colonne e colonnine iterati a tal punto che diviene lecito chiedersi quanto può dilatarsi l'archetipo prima di sfilacciarsi in stereotipo. Ma qui forse divengono interessanti notazioni di metodo: il ribaltamento della griglia, il procedere secondo un itinerario induttivo dai «luoghi cospicui» ai «problemi emergenti», come definiti da Secchi, a quali riscontri conduce? La città analoga è ricca di suggestive contraddizioni, di ambigue e multiformi fantasie, di ancestrali rimembranze, ma vi alberga anche lo spirito del tempo? o qui si è assopito nella narcisistica contemplazione del già pensato? E il gusto per la «tradizione» non dà forse ragione anche a Zevi nelle sue critiche alle tensioni vernacolari? Forse l'unico spirito che gioca a rimpiattino nel labirinto della mostra, mai evocato come vero spirito che si rispetti, è Aldo Rossi. Q uale tipo di città viene dunque disegnato? Bologna, se per Porta è ininterrotta vibrazione architettonica, totale continuità della percorrenza urbana e periurbana, compenetrazione tra pieni e vuoti, interni e esterni, per Zacchiroli è non-città, è segmentata in frammenti, lacerata da barriere, diversificata nelle tipologie. Analisi diametrali, che non possono che portare a diametrali soluzioni progettuali: mentre il primo pensa alle polimorfiche e ambivalenti significazioni dell'arco, il secondo propone percorsi integrati in un sistema di relazioni intermodali. Mentre l'uno suggerisce analisi tipologica e antropologia architettonica, l'altro contabilizza il «turismo culturale», che a suo vedere «consente di impostare nei giusti termini economici una politica di salvaguardia e tutela attiva del patrimonio storico-artistico e ambientale». Piacentini si addentra assai poco in questioni architettoniche. O, meglio, in Piacentini il progetto discende in maniera diretta, onesta, senza infingimenti, dal piano, e le sue qualità di planner sono non poche. La città è disegnata in funzione della circolazione, i percorsi qui divengono «collettori», la memoria si ferma al 2 agosto 1980, ma quanta lucidità nel connettere il «nuovo centro storico» alla dimensione urbana e regionale, omogeneizzando situazioni che Zacchiroli gerarchizza in «poli» e «luoghi centrali». Tentativo di compenetrazione tra piano e architettura quello di Polesello. Nitide geometrie elementari si uniscono in composizioni autonome «aggregabili e intercambiabili», «stralci funzionali» si coniugano a scale diverse, seguendo una procedura che dichiara di non voler «affrontare solo un problema di linguaggio ma una struttura di linguaggio che garantisce la funzionalità», indizi di ritrovatorigore neorazionalista con venature di strutturalismo. E il povero visitatore della mostra, autentico avventuriero sperduto senza bussola in meandri di chilometrici grafismi, intanto si chiede se è questo il caos da cui si ergerà con furore creativo la sua stazione. Avrà la «semplicità» che il giudizio della giuria assegna a Zacchiroli, oppure «l'impostazione unitaria» del progetto di Piacentini, o «l'equilibrio delle componenti» di Polesello? rispetterà la «continuità del collegamento» come vuole Crotti, o si connoterà come «opera di architettura» come preferisce Porta? Ora parrebbe opportuno contentarsi di ragionare su tale «ricca disponibilità di idee» tenendo a mente, pur sedotti d<:1llfa ntasmagoria dei paradigmi, che Bologna in ogni caso rimane la città di Rubbiani e Kenzo Tange. Nota (1) Cfr. G. Campos Venuti, «Meglio l'Utopia del Mito», in Problemi della transizione n. 10, 1982, ora in Cittàmetropoli tecnologie, Milano, Angeli, 1983.

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