di Stoccolma di Ralph Erskine e il nuovissimo Meni! Museum di Renzo Piano a Houston (Texas). Non intendo certo esaminare qui questi edifici né tentarne l'analisi sistematica; ma potrei invece rammentare altre costruzioni che mi sembrano poter rientrare in questo stesso concetto di «soft machine»: e penso all'edificio per i sindacati portuari' di Aldo Loris Rossi, all'edificio per la Ford Foundation di Kevin Roche, a quello per l'Università di Cambridge di Sterling, ai grattacieli di Salmona per Bogotà. Questa possibilità o necessità d'una convivenza del fattore hightech con il fattore immaginario è senza dubbio il vero cardine per un'ipotesi di futura restaurazione dei valori dell'immaginario urbano. Non si tratta, cioè, di sacrificare il progresso in nome d'un romanticismo nostalgico, né di evitare gli apporti delle nuove tecnologie rifugiandosi nel bricolage alla Lévi-Strauss. Ritengo che l'elemento fantastico possa sussistere molto più seriamente in costruzioni high-tech che in maldestre reviviscenze stilistiche. Eppure, alle volte è proprio dal prodotto autoprodotto, automodificato •dall'attività autonoma del singolo contro gli schemi imposti dalle mode costruttive che può riaffermarsi un principio creativo che affondi le sue radici nell'immaginario. Non mi stupirei se, in una società abbastanza prossima che abbia superato la triste situazione odierna di conflittualità tra miseria e consumismo, tra progresso e tradizione, potesse verificarsi - a un livello generalizzato e non solo riservato a esigue élites - quell'equilibrio tra invenzione e progettazione, tra serialità e unicità, che sia in grado di offrire alle città future il predominio dell'immaginario sull'esclusivamente «edile», che un tempo esisteva, anche a scapito della corretta abitabilità e d'un generalizzato benessere economico e sociale; e che in futuro dovrebbe invece poter abbracciare entrambi gli aspetti della funzionalità e della fantasia. M a non è solo di fantasia che è questione in questo caso. Uno degli errori è quello di confondere bizzarria con fantasia: l'esempio del volume di Charles Jencks, Bizarre Architecture (London, Academy, 1979), è in questo senso tipico. Architetture come quelle presentate da Jencks nel suo libro (ad esempio, il Palais ldéal di Ferdinand Cheval, le Tower of Watts di Simon Rodia, e anche gli edifici • del gruppo Site) sono il più delle volte soltanto assurde (mentre è tutt'altro che assurda la Casa Battlò di Gaudf, il Goetheanum di Steiner, la chiesa di Maybeck o la Philarmonie di Scharoun, ecc.). L'errore consiste nel considerare l'architettura «bizzarra» alla stessa stregua dell'Art Brut, di Dubuffet - ossia quell'arte di mentecatti, subnormali e «primitivi» che spesso è carica di elementi fantasiosi e rientra nell'ambito dell'arte dei bambini e degli schizofrenici. Ma se è lecito accettare una pittura (<brut», è molto meno lecito t;/isabeth Bergner e Arthur Schnitzlèr, 1929. accettare un'architettura bruta (e brutta) dato che l'architettura - volere o no - è anche fatta per essere abitata. Eppure, è solo andando alla ricerca delle realizzazioni non-conformiste - ma non per questo necessariamente postmoderniste - che si potrà riaccendere il quoziente immaginario nell'architettura dei nostri giorni. E, ancora una volta, ritengo che alcune grandi personalità come quelle d'un Gaudi, di Scharoun, di Bruce Goff, di Steiner, e più recentemente di Hollein, di Sterling, di Kurokawa (ma non di Bofill, di Eisenman, di Charles Moore, ecc.) possano essere indicate quali depositarie d'un elemento di rinnovamento stilistico e fantastico. Q uali si potranno, allora, considerare le essenziali caratteristiche che dovrebbero presentare le nuove architetture per poter essere considerate fomite d'un alto quoziente immaginifico? Cercherò, sia pure approssimativamente, di riassumerle e elencarle. 1. Essere svincolate dai moduli stilistici appartenenti alle realizzazioni di epoche precedenti e divenuti ormai lettera morta. 2. Accettare le peculiarità tecniche dell'epoca in corso, ma soltanto come spinta alla realizzazione di nuove conquiste formali. 3. Non prescindere mai da quelle che sono le possibilità - anche Racconto paradossali - offerte dai materiali da costruzione utilizzati, purché questi siano impiegati per una finalità non solo utilitaria. 4. Dimenticare alcuni slogan come <(form follow function», e il miesiano (<lessis more» (ma anche il venturiano <(lessis a bore»). Il che significa che hanno torto tanto i difensori a spada tratta del Movimento Moderno e dell'Intemational Style, quanto i propugnatori programmatici del postmoderno. E in definitiva: ricordare che la vera novità architettonica - non soltanto tecnica ma stilistica - non deriva solo dall'uso di determinati materiali o di determinati sistemi costruttivi, ma dal fatto di usarli in una maniera diversa da come erano stati usati fino allora. Forse per conquistare una fase non postmoderna ·ma «neomoderna» quale sto auspicando, una fase in cui prevalga la fantasia sulla razionalità, l'immaginario sul funzionale, occorrerà attendere molto tempo, in maniera che si verifichino quelle condizioni di benessere generalizzato, di livellamento sociale, di predominio della giustizia, che oggi sembrano a distanza telescopica. Eppure credo che, anche nelle condizioni disagiate attuali, anche in situazioni perturbate e convulse come quelle che attraversiamo, sia possibile veder rifiorire la pianta - oggi non solo stentata ma agonizzante - dell'architettura. Questo articolo riprende parzialmente il testo della relazione di Gilio Dorfles al convegno internazionale «La città e l'immaginario», tenutosi a Napoli, in Castel del/'Ovo (24-25 novembre 1983), promosso dallafacoltà di Architettura del/' Università di Napoli, e di cui riferisce Lea Vergine in questo stesso numero di Alfabeta. diunabozzadiSereni · Remo Pagnanelli Vittorio Sereni Stella variabile Milano, Garzanti, 1981, 19822 pp. 90, lire 10.000 N el settembre '78, quando andai per incontrarlo, Sereni, disponibilissimo, si intrattenne con me tutto il giorno; nel tardo pomeriggio, prima di partire, volle accompagnarmi fuori, per fare delle fotocopie di poesie inedite che, diceva, avrebbero fatto parte del suo nuovo libro (meglio, una raccolta, questa per i Cento Amici del Libro, visto che parecchi testi erano già usciti in riviste o plaquettes - vedi al proposito la nota bibliografica di Caretti in Inventario n. 1, 1981): passeggiammo per parecchi isolati (una fotocopiatrice non si trovava), poi ci salutammo in un crepuscolo che riconobbi interamente suo... in seguito parlammo più volte di quei testi, che rompevano un silenzio ufficiale di sedici anni. Le mie osservazioni si appuntavano dapprima sul titolo, Stella variabile, eh~ per eccesso di significazione mi appariva francamente scontato, gli preferivo quello apparso su Poesia Uno di Guanda (Milano 1980), La traversata di Milano, al contrario joycianamente epico, riconnesso all'immagine eraclitea che avevo della sua «visione del mondo» (la figlia Maria Teresa mi dice, oggi, che La traversata sarebbe stato il titolo di una raccolta di prose inedite, il titolo del suo romanzo?): in sostanza, La traversata apriva una finestra sul carattere «acheronteo» di Sereni, sulla sua psicologia del profondo, e un tangibile esempio di quello che Blumenberg definisce il passaggio da una metafora assoluta e concreta a una dimidiata (Milano come la Trieste di Svevo). Il viaggio che l'uomo poteva compiere era quello, grottesco ma infido, di un trasferimento-passeggiata (Walser) da un quartiere all'altro di una metropoli e, d'altro canto, acuiva la certezza che la poesia non era solo un resoconto, ma viaggio. essa stessa. Invece, l'intermittenza della stella sereniana indicava quel disforico tracciato che «l'organismo vivente» diceva altrettanto bene. A posteriori, inoltre, si instaura una significativa isotopia tra la variante testuale e la variabile della lucentezza, ·che non a caso richiama l'altro nucleo tematico (centrato nel racconto Ventisei) della trasparenza della scrittura-vita. L'endiadi finale fa sì che la stella variabile si comporti come una bussola, a volte funzionante a volte no, presupposto necessario nella ricerca durante la traversata del centro abitato (titolo di una sezione degli Strumenti). Nei sedici testi in mio possesso, notai la presenza di parecchie varianti, non solo minime: alcune piutto:;to di sostanza. Conoscendo la famosa lentezza compositiva di Sereni (causa prima della scarsità della produzione e dei ritardi editoriali), lentezza che comportava una faticosa rielaborazione dei da011D·eslReautoren ............... ,., ... NORDISK·f'ILMS Co. "l"Pffl,dttet. Dw N•••.., ....._ ~...,.. r......,. Ol!RHARD HAUPTMANN o. ....................... ~ ARTHUR SCHNITZLl:R _.,._ • ...._ tt. vin111-.. """'" .,,..._.,.. .. w.rti, ......................... ,ia.,c..~Dlot ...... ,......._a.nt .................... ... ....._~Ml""Oll-.a- ... _._......._ hMllw<III ........... , ......... ,~ --,- ........... ~~-- ALLCINVfRTRt.TfR USO tcONZfS510NARt: P'UR OCSTERRCICN • UNOARN: PROJECTOORAPH A.-O.,WIEN I, WOLLZEILE 33 Annuncio pubblicitario degli accordi della Nordisk Films con Hauptmann e Schnitzler (da Kinematographische Rundschau, n. 279, 1913). ti primari, restai sorpreso perché sapevo che, dopo quelle vere e proprie ere geologiche di sedimentazione, la composizione nasceva quasi senza ripensamenti (basta controllare le correzioni di poco conto delle Poesie vallecchiane '42, rispetto a Frontiera, Corrente '41). Neppure Sereni sfuggiva alla poesia come produzione più che prodotto e alla ricerca di una approssimazione interminabile al testo unico e definitivo (definito da Contini un modo di «rappresentare drammaticamente il processo formativo»), solo che quasi sempre queste epifanie metamorfiche avvenivano non sul foglio (vs i continui ritocchi ungarettiani) ma in una fase precedente, ideativa e avantestuale. Pure, in questo caso, gli scartafacci del '78 meritano un discorso e una comparazione con il testo licenziato nell'81 (liberato dalla schiavitù di un trattenimento anancastico). Q ues!a parc~ezz~ ~i p~oliferaz1one vananhsttca nmanda all'esigenza-desiderio, codificato negli Strumenti, di ipersignificare i detriti del fiume poetico, quei materiali usati che si trascina dietro, di rompere per sempre l'ore rotundo della sua aristocraticità (secondo il giudizio di Pasolini) e la propensione verticale al sublime; ciò gioca dialetticamente con una volontà opposta di semplificare al massimo la poesia, regredendo alla scorrevolezza di Frontiera: le varianti subiscono la stessa sorte della poesia sereniana, vivente sulla contraddizione, nella fattispecie, tra una tecnica dell'aggiungere e una del levare.. La terza parte di «Lavori in corso» illumina una delle metafore ossessive dell'ultimo Sereni, quella di una scrittura a espansione, che si allarga (einsteinianamente): al posto _della redazione finale (garzantiana) «Inopportuno futile intempestivo I lo spiritello di cui sopra» è «lnoppo~o futile intempestivo / pullulava il pensiero di cui sopra». Il verbo pullulare si ripete di continuo in Stella variabile ed è quell'affiorare della parola dell'Es, infestazione psichica e prassi della transcodificazione. «Lo spiritello» trecentesco-averroistico non persuade, testimoniando che le redazioni finali non sempre migliorano le precedenti. Più avanti, ci si imbatte in un cambio tematico e di registro, oltre a un'amplificazione: il testo del '78 presenta, invece di (<isolottogià di quarantena / sfumante in nube di memoria», «isolotto già di quaran-
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