Alfabeta - anno V - n. 50/51 - lug.-ago. 1983

PESARO 9Agosto ts Settembre star completa: rischia di non essere nemmeno più una presenza magica e anomala. Jean Jacques Beineix, mostro idolatrato dopo il successo a sorpresa di Diva, costruisce con La lune dans le caniveau un insigne esempio di pretenziosità e di saccenza, di noia e di kitsch. Muove da un'ipotesi tutt'altro che priva di interesse, lavorando sui luoghi del classico immaginario cinematografico, mescolando il film noir della grande madre Hollywood al mauditisme esistenziale del realismo poetico francese degli anni trenta. L'idea di partenza è l'infinita artificialità del cinema e della stessa t---------------4 vita che il cinema rappresenta: Mercoledì 10, Venerdì 12, Domenica 14, Martedl 16 agosto, ore 20.30 Teatro Rossini LADONNA DEL AGO Concertatore e direttore MAURIZIO POLLINI Regia, scene e costumi GAE AULENTI lntcrprcti KATIA RICCIARELLI CECILIA VALDENASSI LUCIA VALENTINI TERRANI OSLAVIO DI CREDICO DALMACIO GONZALES OANO RAFFANTI SAMUEL RAMEY THE CHAMBER ORCHESTRA OF EUROPE CORO FILARMONICO DI PRAGA diretto da Lubomir Métl Giovedì 25, Sabato 27, Lunedì 29, Mercoledì 31 agosto, Venerdì 2 settembre, ore 20.30 Teatro Rossini ILTURCO INITALIA Concertatore e direttore DONATO RENZETTI Regia EGISTO MARCUCCI Scene EMANUELE LUZZATI Costumi SANTUZZA CALI" lntcrpreti LELL~ CUBERLI SOFIA WADA STILLITANO ALESSANDRO CORBELLI LUIGI DE CORATO ANTONIO D"UVA DAVID KUEBLER SAMUEL RAMEY ORCHESTRA INTERNAZIONALE JEUNESSES MUSICALES Gioventù Musicale d'lt■Ua CORO FILARMONICO DI PRAGA Diretto da Josef Vcselka Venerdì 9 settembre ore 20.30, Domenica 11 settembre ore 16.00, Martedì 13, Glovedl 15 settembre, ore 20.30 Teatro Rossini MOSE' • INEGITTO Concertatore e direttore CLAUDIO SCIMONE Regia, scene e costumi PIER LUIGI PIZZI Interpreti DANIELA DESSI" CECILIA GASDIA LUCIANA REZZAOORE SIMONE ALAIMO ROCKWELL BLAKE OSLAVIO DI CREDICO GIUSEPPE FALLISI BORIS MARTINOVICH THE LONOON OPERA SINFONIE1TA CORO FILARMONICO DI PRAGA diretto da Lubom(r Mjt) nessuna inquadratura è banalmente descrittiva, denotativa, tutto è subito iperconnotato, iperspettacolarizzato. Siamo immersi in un mondo fittizio, fantasmagorico, che rifà il verso alla storia del cinema e ai miti e alle nostalgie dell'immaginario contemporaneo. Ma poi questa opzione creativa da un lato è proposta con un linguaggio visivo che nella ricerca ossessiva dell'originalità raccoglie i cascami peggiori del manierismo, con spreco di fotografia gelatinosa, inquadrature incongrue, décors incerti tra il bric-à-brac postmoderno e il naturalismo sciocco alla Visconti ulteriormente enfatizzato; dall'altro è sepolta da uno strato compatto di letteratura, non cattiva ma pessima, da sbrodolature sub-esistenziali saccentemente profferite e da un'atmosfera che forse dovrebbe essere da ultima spiaggia, ma produce effetti di sala vuota. Beineix non ha capito che il postmoderno richiede un atteggiamento più soft, più ironico e distaccato, non consente nessun trattamento pseudosublime dei materiali, nessun tentativo di sacralizzazione visiva. E, d'altra parte, il film non ha convinto neppure gli interpreti: dando voce a un'opinione diffusa, Gérard Depardieu, rotto per altro ai fumettoni d'appendice di Bertolucci e Ferreri, pare abbia sparato sul film dicendo che non si trattava tanto della «lune dans le caniveau», ma della «merde dans le caniveau». Patrick Chéreau, invece, con L'homme blessé, sfrutta la moda del film omosessuale, tentando il ritratto scontato dei turbamenti di un adolescente. Ma la mediocrità del risultato è garantita non solo dalla prevedibilità dei percorsi narrativi, ma anche dalla presenza di Vittorio Mezzogiorno, che - grazie anche alla sua interpretazione nel film di Beineix - conferma le attese e si aggiudica la palma di peggior attore del Festival, equamente a disagioed equamente inespressivo nella parte di un·(probabilmente) trasognato e cinico personaggio d'avventura ne La lune e in quella di un (probabilmente) tenebroso omosessuale in L'homme blessé. Alla fine, nella selezione francese è restato in piedi solo Bresson, grande vecchio, nobilmente bizzoso, mai stanco di impegnarsi in polemiche contro il detestato ciné (che sarebbe poi il cinema degli altri), tenace assertore di una ricerca rigorosa e difficile, intessuta insieme sull'onda del «sentire", di una linea sottile di emozione riservata agli happy fews, e sui dettati di una visione del mondo che resta assolutamente pessimistica. L'argent non ha avuto certo un grande successo presso il pubblico di Cannes e non è riuscito neppure a imporre il rispetto che pur meritava: è stato fischiato durante la .proiezione e, alla fine, gli applausi sono apparsi scarsamente convinti. Come è noto, i nemici di Bresson sono, soprattutto in Francia, molto numerosi. E L'argentè rigorosamente bressoniano, non concede nulla allo spettacolo, non adBibliotecaginobianco I dolcisce minimamente i moduli linguistici che l'opera di Bresson ci ha fatto conoscere. In un certo senso è ancora più estremo, più ostico, nello sforzo di perseguire un'idea di scarnificazione, di rarefazione totale della narrazione. Sequenze brevi, scandite impeccabilmente con un raffinato lavoro di montaggio e costruite spesso attorno all'inessenziale, dettagli che sottraggono continuità al racconto filmico, riduzione dell'evento a un suo segno limitato, sistematica dedrammatizzazione dell'intrigo, apparente neutralizzazione dei sentimenti: il film disarticola la consueta comunicazione cinematografica e opera una sostanziale chiusura della rappresentazione, lasciando filtrare nel narrato solo alcune tracce ed escludendo metodicamente tutto l'ovvio: le porte aperte e chiuse, le maniglie e i dettagli di oggetti, di gesti, di parti del corpo prevalgono su tutto il resto. Il film diventa un mondo in cui è difficile entrare, che tende a respingere gli spettatori non complici (e a volte ci riesce al di là delle intenzioni). È un universo talmente segnato da una cifra stilistica da non apparire più come realtà riprodotta, ma come allucinazione soggettiva a occhi aperti. La recitazione contribuisce a rendere il mondo evocato ancora più impalpabile e disincarnato. È antinaturalistica, fatta a occhi bassulla vita del mus1csta Pavel Sisnovski) non aggiunge granché alle consuete dinamiche dell'angoscia e della nevrosi, care a tanta letteratura e a tanto cinema contemporaneo, ma resta sostanzialmente dignitosa, i settori diegetici affidati al personaggio femminile e al deuteragonista sono invece assolutamente incongrui e a volte fastidiosi nella loro insipienza pretenziosa. Ma anche se il soggetto rivela fin dall'inizio le proprie carenze, il film offre tuttavia momenti di grande suggestione visiva, prodotta sia mediante l'elaborazione di un orizzonte profilmico improbabile e suggestivo, sia mediante un ricorso estremamente raffinato a particolari procedimenti linguistici e in primo luogo all'inquadratura lunga e alle lente, infinite carrellate laterali. Ritornano in Nostalghia alcune ossessioni visive di Stalker, sorta di immagini allucinate come sospese nell'aria, la pioggia, gli stagni al coperto, i lenti spostamenti dei personaggi che sembrano impegnati in un invisibile sforzo di Sisifo. E qua e là balenano gesti, microeventi, figure, in cui in un attimo paiono sospendersi l'esistere di fronte al mistero (come nello splendido - e quasi sconosciuto in Occidente - primo film di Tarkovskij, Katok y Skrypka), o rapprendersi l'angoscia e la malattia mortale. Ma alla fine il film provoca Arrigo Lora-Totino e Patrizia Costa in •Soirù Dada», Polyphonù 5 Italia, 1983 si, senza nessuna partecipazione dell'attore: è l'esatto contrario della recitazione delle scuole d'arte drammatica (così polemicamente disprezzata da Bresson), e appare qui ancora più radicale e sublimata che altrove. La parte più debole del film, invece, è la sceneggiatura, non certo per la concezione del mondo che riflette, quanto per la scarsa articolazione dei nessi narrativi, e il sostanziale semplicismo della dinamica fattuale. In altri film la scoperta del dominio del male e la costruzione di un incubo terreno totalizzante, di un orizzonte esistenziale segnato dall'angoscia, erano più complesse e convincenti. Qui il concatenamento dell'accadere appare talvolta pretestuoso e la logica generale del film resta parzial_menteirrisolta. Q ueste medesime caratteristi"- che sono presenti, in una forma più marcata ed evidente, nel film di Andrej Tarkovskij, Nostalghia. Qui, tuttavia, la negatività del deterrente sceneggiatura è molto più consistente: Tonino Guerra (che firma lo script con Tarkovskij) non interviene mai invano. Se la crisi del personaggio principale (un intellettuale russo che viaggia in Italia per una ricerca soltanto un effetto di nostalgia per altri momenti e altre opere di Tarkovskij. Come L'argent, Nostalghia è l'espressione di un grande talento cinematografico in una prova solo parzialmente riuscita. Deludenti, come spesso a Cannes, i film americani, che presentavano due registi diversamente sopravvalutati, Martin Srorsese e Martin Ritt. Mediocre la partecipazione italiana, con un film di Ferreri (Storia di Piera), vecchio di più di dieci anni, anche se targato '83 - abbarbicato nell' esaltazione dell'eros come libertà, già tutto detto sin dalla prima sequenza, - e con l'ultima fatica, è il caso di dirlo, di Olmi, Cammina cammina, presentato fuori concorso, in cui la poetica epsteiniana del meraviglioso stenta a decollare ancor più che ne L'albero degli zoccoli. Il film di Lizzani, poi, era cosl insignificante, che è stato relegato in una rassegna secondaria, nonostante l'ospitalità imponesse per l'ex responsabile della Mostra di Venezia un trattamento di riguardo. Truce e piattamente realistico e dunque deludente è anche l'ultimo film di Giiney, Le mur, realizzato in Francia con finanziamenti statali, che non costituisce tanto una conferma a posteriori dell'interesse di Yol, ma al contrario ri- . propone il problema dell'anno scorso sul reale autore di Yol (Giiney che l'ha sceneggiato e ne ha scritto tutto il dicoupage, o Goren che l'ha realizzato effettivamente?). L e cose migliori del Festival -a parte i film presentati nel marchi e a parte Furyo di Oshima che non bo potuto vedere - vanno cercate dunque nelle nuove sintesi di metaspettacolo e di spettacolarità diversamente realizzate da Carlos Saura (e da Antonio Gades) con Carmen e da Chantal Akermann con Les annie.s 80, presentato in una rassegna collaterale. Sono esperienze che insieme riflettono tutta la tradizione colta, metaletteraria e metacinematografica, dell'opera sull'opera in fieri, e il modello spettacolare del musical sul musical che da 42d Street attraversa tutta IJa storia del cinema. L'aspetto più affascinante di Carmen e di Le.s IJllnies 80 è proprio questa fusione perfettamente operata di decostruzione dei meccanismi spettacolari e produttivi e di spettacolo pienamente realizzato, di opzione riflessiva e di ,produzione di un nuovo entertainment. L'opera sull'opera infieri, che nelfa tradizione letteraria attesta l'emergere alla coscienza dello scrittore della problematicità del rappono linguaggio-mondo, si intreccia qui con la dinamica avvolgente e trascinante (in Carmen), ironica e distanziante (in Le.s années 80), di una narratività differente pienamente esaltata come tale. La felicità espressiva e tecnica del 'ballet' di Antonio Gades e della sua troupe saldano d'un colpo divertimento e raffinatezza, riflessione sul linguaggio e coinvolgimento spettacolare, costruendo un meccanismo dal funzionamento perfetto (nonostante il parallelismo tra la storia della Carmen e il rapporto tra Gades e Laura Del Sol non sia del tutto convincente). E se il primo film di Saura e Gades, Bodas de sangre, era forse più semplice e più rigoroso nella linea narrativa, Carmen rappresenta tuttavia sul piano dello spettacolo una più completa esaltazione del1' espressività infinita e travolgente del flamenco, parimenti affascinante quando delinea arabeschi formali con il movimento di una mano e quando si scatena in balli trascinanti. Diverso è invece il lavoro sulla spettacolarità di Cbantal Akermann, che ottiene effetti di indu~ bio entertainment senza avvalersi di una star come Gades. La Akermann smonta i meccanismi di preparazione di un film musicale - che sta effettivamente realizzando, - presentando agli spettatori le audizioni, le prove e una sequenza del film stesso. È un'operazione in cui non solo la costruzione del film musicale sembra diventare simbolicamente più significativa del film stesso ma, soprattutto, ,j frammenti preparatori acquisiscono una deusità e una ricchezza che valgono sul piano del divertimento più di tante messe in scena. Cosl il gioco dei volti degli aspiranti attori, scrutati dalla macchina da presa, i movimenti affettati, i passi di danza apprm.mnativi, le battute un po' fumettistiche o larmoyanta del musical a venire, costruiscono un tessuto di immagini che mostra la verità del cinema senza sottrargli la sua valenza di godimento immediato. E che un'autrice rigorosa come la Akermann, dopo essere passata dalla sperimentazione di New {rom home alla narratività di Les rendezvow d'Anna, scopra ora il musical e tutta la ricchezza di uno spettacolare differente, è forse il segno più significativo (l'unico?) della contemporaneità proposto da Cannes '83, la sua più chiara immagine del limite del moderno. fJ

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==