Alfabeta - anno V - n. 50/51 - lug.-ago. 1983

S e il Festival di Cannes è il termometro del cinema 1983, c'è poco da stare allegri. Appannamento delle tendenze, ripetizioni di moduli già conosciuti, miopi e totali rifiuti delle innovazioni, frequentazioni della medietà spettacolare più ovvia. Persino le divinità consacrate ripetono se stesse con una certa stanchezza, alle prese con sceneggiature imperfette e con una nevrotica paura di perdere la propria identità. Il meccanismo dei premi, poi, non ha neppure il carattere della perversità, tanto è approssimativo e abborracciato. Si premia il film che dà meno fastidio, si sceglie la mediocrità diligente e scontata, si lascia che le antipatie personali, le idiosincrasie, diventino criterio di giudizio. La ballata di Narayama di Shahei lmamura è certo un film di sicura professionalità, interpretato con grande efficacia e sobrietà da Sumiko Sakamoto, che non esita a invecchiarsi di trent'anni per adeguarsi al personaggio recitato, con un atto di coraggio che, com'è noto, ben poche attrici occidentali osano compiere. Ma il film premiato è anche un polpettone tradizionale, su soggetto non originale, che evita accuratamente di tradire la sua data di produzione e si colloca quietamente nella serialità infinita del realismo giapponese più bolso. Nulla degli scatti inventivi, del ripensamento spettrale dell'esistenza e del soggetto (e della sua maschera), che attraversavano Kagemusha, meritamente premiato a Cannes due anni fa. Qui la legge della miseria che impone la morte sulla montagna sacra a chi compie settant'anni è solo il pretesto per uno studio accurato della vita di un paesino del profondo passato giapponese, in cui le giornate scorrono una uguale all'altra, scandite dai riti consueti. Per Imamura il massimo dell'audacia sono gli inserti non diegetici degli animali che vivono attorno alle case, o uno scenario tra le rocce allietato dagli scheletri degli altri vecchi che sono andati a morire sul Narayama. D'altra parte, la vittoria di Imamura, pur se costituisce una soluzione ultramediocre, riflette anche la delusione per i film più attesi. Il programma del Festival era tutt'altro che privo di nomi e di attrattive, e presentava accanto a due diverse generazioni di maestri (Bresson e Tarkovskij) anche una nutrita gamma di autori di mezza età variamente stimati dalla critica internazionale (da Scorsese a Saura, da Oshima a Ferreri, da Guerra a Giiney, a Olmi, che si presentava fuori concorso), oltre ad alcuni jeunes turcs, debitamente gonfiati, del mondo dello spettacolo francese (Beineix e Chéreau). Ma la selezione francese, come si poteva prevedere, era tanto numerosa Privatod'attore «Oh pene, la fita è zofferenza, comunque,.. Greta Garbo a Laurena Olivier Cf è un film in cui Olivier interpreta un piccolo ruolo, un film leggero e molto fine di Herbert Ross che si è rivisto di rece~ in tv: Sherlock Holmes soluzione 7 per cento, del 1976. Racconta dell'incontro tra Sherlock Holmes e Sigmund Freud. Il detective è ossessionato dall'idea che il mite professor Moriarty sia in realtà lapiù grande mente criminah del secolo e che voglia ucciderlo perché sa di essere scoperto. L'ossessione si manifesta in un perio@ di tossicodipendenza acuta di Holmes, e il suo amico dQttorWatson gli fa credere che Moriarty si sia recato a Vienna per un complotto, così da farlo incontrare con il fondatore della psicanalisi, il solo che possa curarlo. Freud guarisce Holmes con un lungo e doloroso trattamento a base di astinenza e ipnosi e, in un'indagine che nel frattempo si rende necessaria, i metodi dei due grandi si integrano con buoni risultati. Quandq Holmes è guarito, Freud gli chiede un'ultima seduta di ipnosi e si fa raccontare la scenaprimaria, quella che fonda la figura del detective e la sua paura delle donne. Moriarty era stato precettore in casa Holmes ed era l'amante della signora, quest'ultima era stata sorpresa e uccisa dal padre davanti agli occhi atte"iti del piccolo Sherlock, il quak sublimerà il trauma in una professione che consente di «scoprire i colpevoli e riparare i torti». Olivier interpreta Moriarty, pavidQ e meschino eppure terrificante, e si ritrova cosl a esseresimbolo convergente di una quantità di segnali, alcuni dei quali vo"ei rilevare in questa breve nota. Come conferma Olivier nelk sue memorie, Freud e Copeau hanno inciso nella cultura teatrale inglesepiù a fondQ di Stanislavskij e del suo profeta Strasberg. Lo stesso Shakespeare, che è considerato non solo il maggior autore nazionale ma anche una sorta di vangelo dell'estetica teatrale, al tempo dell'ascesa di Olivier viene interpretato alla luce ddJe analisi freudiane di Ernst Jones. Non deve perciò stupire che questo precettore in vestaglia,bavoso e tremebondo, si trasformi nel serpente della perdizione, nel distruttore dell'Eden, e che la sua apparizione fondi, al tempo stesso, la fi-· gura dell'attore: questi non si definisce, infatti, per la sua soggiacenza a un impulso naturale o una scelta, quanto piuttosto per la possibilità di guardare aifatti, di ripresentarli, caricandQdi responsabilità sia l'impulso che la scelta. L'attore è lo shock che rende l'artificialità del tutto, ehe violenta un'idea di naturapacifica e onnicomprensiva e che, attirando l'attenzione su se stesso, mostra la dinamica per- • versa del progresso, edif,cio costruito trauma su trauma, sublimazione su sublimazione. Che sia Olivier a interpretare quel ruolo è forse casuale, ma sappiamo che il caso realizza quei progetti che stanno nell'ordine delle cose piuttosto che nelle intenzioni dei suoi interpreti. Olivier dispone •• di poche brevi sequenze per tratteggiare un personaggio così decisivo, e si basa - con le particolarità del caso - sui topici di quel modo di essere attore. La sua mimesi del professore è data da una particolare impostazione vocale, da un tic caratteristico, dalla composizione di un atteggiamento fisico e infine da un accurato trucco. Queste coordinatesi accordano e poggiano su una plausibilità «sociologica»del personaggio, ma sintetizzano una mole di informazioni sulla sua particolarità, in un modo che tiene conto anche della durata e del peso specif,co del ruolo stesso nel film. Nell'interpretazione di Sir Laurence Olivierpossiamo dunque leggere la sua grandezza e la sua unicità di attore assieme a/l'appartenenza a un sistema ben preciso: eccezioni e regole risultano strettamente connesse. L'autobiograf,a che Olivier ha consegnato alle stampe (nel 1982, uscita in Italia il marzo scorso) è grandiosa e banale come tutte le opere del genere, chiarisce l'ordine di motivazioni quotidiane e incidentali di un'arte e l'aura d'ispirazione e di progetto in cui la vedevamo; allo stesso tempo, dobbiamo riconoscere che una persona di cui non condividiamo i gusti ha creato qualcosa che ci conquista. QualcoB1bliotecaginobianco Antoni Attisani s'altro da sé, forse, o forse ci piace qualcosa solo se ci sorprende (anche in contraddizione con noi stessi)? Gli attori sono dei con/ormisti, alla lettera - nel senso che aderiscono ai valori medi dominanti nel- ['ambiente sociale in cui vogliono affermarsi. Ci sono gli attori e i teatri che hanno successo, ma clie si dimenticano perché stavano semplicemente nei confini delle .ideologie con cui si identificavano. I grandi attori sono diversi, non per quello che pensano, non per la vita o la carriera che-fanno, ma perché recitano in un modo che sfonda i confini delle convenzioni fino a contraddire, nei fatti, un pubblico cheper questo decretaun particolare successo. Christian Descamps, Polyphonix 5 Italia, 1983 Dal che si deduce che un'autobiografia di Olivier non può spiegarne lagrandezza o la particolarità;può essereperò il tassellodi una storia materiale dello spettacolo che, rinunciando alla pretesa di memoria e ricostruzione, renda un sapore di complessità, il senso del- /' arte come mistero che non richiede resae apologiama, al contrario, sfida sperimentazione e dolore. Si accetta un mondo di convenzioni, una langue, e persino una parole - una corrente estetica, mettiamo, - per coltivare qualcosa senza nome, che subito brucia alla luce del sole e tuttavia è ancora e sempre l'indispensabile eccezione. Le memorie di Olivier sono mo/- to dettagliate nella descrizione di un conformismo che ce lo rende simile e contemporaneo: perbenista, monarchico, moralista e pavido; nello stesso tempo cultore di una «dannata lussuria» (Shakespeare) fatta di sesso e cuisine francese, e capace di mettere in scena un buon testo benché «di un autore di sinistra», disposto a rischiare reputazione e benessere in un'impresa teatrale o di sfidare, per una convinzione d'attore, una persona più potente di lui. L'autobiograf,a è sottoposta alle stesse leggi di uno spettacolo: per avere successo deve rispettare le previsioni, deve essere il supporto esegetico del personaggio di cui tratta, ma ci vuole dell'altro, deve sorprendere. Olivier sorprende con una misurata sincerità di attore, ha il coraggio di esporre dei fatti che non si adattano alle spiegazioni preesistenti. E il lettoresi sente.gratificato e spiazzato al tempo stesso: gli rimane qualcosa da risolvere, qualche scelta da fare. Poiché lo stile è superiore al genere, e non un suo segmento. Pensiamo, per un esempio verificabile, a Olivier e alla Monroe in Il principe e la ballerina (1956)dove, in un contesto di commediola, i due interpretano momenti di performance attorale acrobatica. Il lungo primo piano di Olivier sulla carrozza, dove passa dall'ira alla gioia, è di un virtuosismo talmente alto e gratuito da portare «fuori trama», verso una incontestabileemozione estetica che sarebbe sciocco quantificare. Le Confessioni di un peccatore (nell'originalesemplicemente di un attore) possono essere considerate anche un libro di testo, utilissimo per chi vuole capiremeglio la scuola attorale «psicosomatica» anglosassone, e d'altra parte si allineano a tutta lamemorialisticadel genere, da quella di un Tofano sul teatro ali'antica italiana fino ai grandi maestri orientali. In/atti, da quando si comunica con la scrittura, la condizione dell'attore non è molto cambiata, non solo per l'intreccio tra subalternità e alterità - anche per quel mondo di apparenti superstizioni (lo «spirito degli attori», l'«odore del successo e dell'insuccesso», lo «statodi grazia») che sono in realtà l'espressione verbale non per dare spazio a talenti diversi, ma per coprire il vuoto. Lf été meurtrier di Jean Becker, figlio del celebre J acques di Cascod'oro e di Le grisbi, è un feuilleton improbabile che prepara nella noia un finale a grandi tinte, con una bella collezione di eventi ridicoli, degni al più di Giordana e dei fratelli Bertolucci (o, se volete, del vecchio Matarazzo). lsabelle Adjani alle prese con un personaggio di rara idiozia, eppure a suo agio, si gioca il mitico charme che le era rimasto, cercando di integrare il ben noto fascino degli occhi azzurri con quello meno noto del deretano. Voleva forse diventare una incerta e cangiante di saperi molto concreti e tuttavia non codificati e codificabili. Il sapere del corpo si può contagiare (non passare o trasmettere) solo direttamente; lo scritto può servire come sommario e promemoria di qualcosa che non è raggiunto dalla parola. L'attuale ritorno di interesseper i materiali biografici ha per lo meno un doppio segno. Se da una parte significa riflusso dall'astrazione ideologica, dall'altra può essere indicatore di una nuova mitologia che· consisterebbe nella credenza che un resoconto possa sintetizzare un'esperienza. Invece si dovrebbe rifletteresul perché il mestiere dell'attore (ma non solo quello) si contagia solo per imitazione. L'imitazione è una forma di comunicazione tridimensionale e di induzione psichica al tempo stesso, già sistemata nel tempo e in un ritmo, Non esiste sistema più completo e complesso per sviluppare un'arte e verificare un talento: l'apprendista non è un ladro, come vuole certa critica vitalistica, ma un contagiato, un malato. Guarirà se saprà trasformare la malattia dell'altro nella sua, unica e nuova; morirà se è troppo debole per il morbo che gli viene passato, se riesce solo a balbettarne la lettera. Di nuovo si rileva, in questo ambiente considerato pretecnologico e culturalmente obsoleto, un pragmatismo pieno d'inedito, non privo di interesseper chi si occupa di altri livelli del sapere, poniamo quello linguistico o comportamentale. Olivier ricorda con imbarazzo e rammarico lo strano incidente che inaugura la sua carriera, la sua prima entrata in scena: inciampa in un gradino e atterrain proscenio dopo un lungo volo, affondando i denti tra due lampadine. Scoppia un boato di risate. Mai più - dice - sono riuscito a ottenere un effetto simile. L'aneddoto racchiude il senso di tutta la sua storia d'attore e come essa ci lascia in bilico tra aspettativa e sospetto nei confronti della scena. li problema non è risolto. Laurence Olivier Confessioni di un peccatore Milano, Rizzoli, 1983 pp. 292, lire 25.000

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