Alfabeta - anno V - n. 49 - giugno 1983

Ildemonia~ngelsaggio Ralpb Waldo Emerson Cerchi a c. di Roberto Mussapi Bologna, Cappelli, 1983 pp. 89, lire 6.000 Harold Bloom Agoo. Towards a theory or revisionism New York-Oxford, University Press, 1982 pp. 336, dollari 19.95 «Nascendo si ha il f!ernoccolo di tutto e il bernoccolo di niente!... li desideriodi tutto e di altro! All'inizio, capitemi, gli istinti e le bozze frontali non c'entrano! È dell'energia che chiede di essere impiegata: punto e basta! Ecco la mia teoria. Solo che quell'energia andrà dove la si condurrà, perdinci, è sicuro! Ma chi ne possiede il comando?... È questo che occorresapere!... È lì che bisogna guardare!... LI risiede la responsabilità!,. (parla il grarr criminale CbériBibi, in Les cagesflottantes di Gaston Leroux) A scolta come comincia: «L'occhio è il primo cerchio; l'orizzonte che esso forma è il secondo; e per tutta la natura questa figura primaria è ripetuta all'infinito. È l'emblema più alto nella cifra del mondo». Sono le frasi d'apertura del saggio «Cerchi», che presta il titolo alla traduzione italiana di alcuni saggi di Emerson. (Avverto che nel citare riprendo - con ritocchi - questa recente traduzione, salvo naturalmente per le mie citazioni da saggi qui non antologizzati). Poca fantasia, eh? Voglio dire, se metà dell'ars del critico (del critico, per dirla all'inglese, che valga il proprio sale) consiste nell'intarsiare il proprio discorso con appropriati tagli citatori che rinnovino gli scorci, che offrano prospettive inedite sui testi analizzati - allora è una scelta troppo prevedibile (dunque, vitanda) quella che ritaglia la frase d'apertura del primo saggio d'una raccolta. Ma non so che farci; in questo caso, è inutile lambiccarsi il cervello: le frasi citate offrono, in microcosmo, tutto l'emblema di quel che vuol dire essere gran scrittore di saggi. Waldo Emerson. Questi sono i tratti distintivi del saggio in genere - caratteristici, appunto, di questo genere potentemente misto (di letteratura e filosofia), al suo più alto e impegnativo livello. Vi è uno scatto interessante, una punta di emulazione, in un saggio di Auerbach dove egli, parlando dello stile di Pascal, esclama: «Nascono frasi cosi chiare e insieme così profonde che un lettore il quale per parte sua aspiri a esprimersi bene non può reprimetà, non si può scrivere un vero saggio (come cosa distinta dall'articolo trattatistico e accademico) senza gettarsi fin dall'inizio in un'atmosfera turbolenta. L a peculiarità di Emerson - l'unico tratto che propriamente lo distingua come saggista americano (ma su questo dovrò tornare più innanzi) - è il rifiuto di celarsi nel modo descritto: la turbolenza è dichiarata subito e direttamente, addirittura ostentata - _:,.~ ... -~~p va tradizionale di ogni metafisica: una ricerca dell'unitarietà, sia che si insista sul gran disegno nello sfondo sia che (al polo opposto, ma senza mutare intrinsecamente l'atteggiamento) si sottolinei la presenza del Buon Dio nei piccoli dettagli. Il saggio, nella sua turbolenta irrequietezza, contesta questa illustre tradizione teologico-filosofica, pur mettendo continuamente in opera concetti della filosofia e della teologia; e la contesta, essenColui che è proposto ora al lettore italiano è il Saggista per eccellenza in tutta la tradizione letteraria nordamericana. Questa piccola antologia costituisce una scelta fortemente metonimica - che come tale essenzialmente ha la funzione di suscitare desiderio: di sospingere alla lettura di tutti gli altri, egualmente importanti, saggi emersoniani. Ma l'esilità del libretto non deve trarre in inganno: ogni pagina ha il peso di un materiale eletto, anche se questo pregio traluce indirettamente poiché - e questa non è certo una critica del benemerito curatore - nei saggi esattamente come nella poesia v'è sempre una distanza fra la traduzione e la bellezza dei nessi originari. Un albero invisibile, a cui il serpente si auorciglia, è l'asse di questa cosmografia; agli angoli scene di vita pastorale (si traila di una illustrazione alle Georgiche) ..., Emerson «vedeva ciascuna cosa re un sentimento di ammirazione misto a una certa invidia». Commentando questa affermazione, ho tentato altrove di mostrare e definire l'elemento demoniaco del saggio. La ragione per cui lo stile letterario - che ha sempre in sé qualche cosa di demoniaco (si ricordi quel titolo fortunato del libro Le démon du style) - è più demonico che mai nel saggio è che il saggio, almeno nella sua declinazione moderna (dal Rinascimento in giù), è forse il più intrinsecamente (non ideologicamente) sovversivo tra i generi letterari. Esso infatti nasce dalla violazione dei confini che tradizionalmente in ciascuna cosa e parlava con la sono eretti per separare il discorso lingua di un demone», scrive Ha- letterario da altri tipi di discorso. rold Bloom nel suo libro Agon. Nulla di più ingannevole che la Son parole, del resto, che definì- superficie levigata - riflettente un := scono benissimo Emerson in sorriso urbano, di quelli che punquanto saggista. Non si tratta, teggiano una conversazione trancioè, di una differentia specifica quilla, - dietro la quale il saggio si che qualifichi !~ile di Ralph protegge, il più delle volte. In veriBibIi O tecagi obianco dunque è impossibile ignorare la indiavolata (usiamo per una volta tanto nel suo senso proprio questo aggettivo trito, da spettacolo di rivista), la indiavolata turbolenza che circola senza sosta di frase in frase («l'unità di discorso in Emerson tende a essere la frase piuttosto che il paragrafo», nota Bloorn centrando il bersaglio stilistico). Ma si può - si deve - essere più precisi, a proposito di questo elemento demoniaco. Ho tradotto più sopra, letteralmente, quell'apprezzamento su Ernerson che vede «ciascuna cosa in ciascuna cosa». È una brutta traduzione - una di quelle frasi legnose che sembrano troppo chiaramente ciò che sono: tradotte, appunto. Ma questa legnosità era qui indispensabile, per l'importanza fi. losofica - o antifilosofica - della posta in giuoco. Se si parlasse infatti di vedere «il tutto in ciascuna cosa» si evocherebbe la prospettizialrnente, collegando in rete sottilissima cosa a cosa senza rapportarle metonimicamente a qualche Cosa centrale. È in questo senso che il saggio è il rivale del trattato: in quest'ultimo (non importa quanto immanentista e materialista la sua ideologia) il trascendente è vivo essenzialmente sotto specie di Buon Dio (ciò sia detto senza alcuna ironia o superciliosità laicistica), mentre nel saggio vive soprattutto nella forma dell'inquietudine del dairnon. «È una conversione di tutta la natura nella retorica del pensiero, sotto l'occhio del giudizio, con uno strenuo esercizio di scelta», così Ernerson definisce il pensiero geniale: e questa vertiginosa conversione è il movimento caratteristico del saggio nei suoi momenti più alti. Ecco perché debbo ingaggiare qui una breve lotta con la lingua italiana, specificando che il saggio non è saggio. L'inglese distingue, come tutti sanno, il sostantivo essay dall'aggettivo sage. Dunque le due parole aiutano a tenere distinti i due concetti - anche se non si può non avvertire (in forza dell'appena detto) un'involontaria ironia nell'appellativo tradizionale 'il Saggio di Concord' (The Sage of Concord) di cui è fregiato Ernerson autore di dernonicarnente inquieti essays. Noi invece dobbiamo compiere un lieve sforzo per ricordarci che il saggio come genere letterario è etimologicamente un as-saggio; parola che per altro evoca la facciata apologetica di cui si diceva, e dietro la quale il saggio nasconde la sua vera forza. (Solo dopo aver terminato questo scritto ho letto le sottili riflessioni di Musi! sul saggio, in Alfabeta n. 47). T orno a quell'iniziale citazione di un inizio, per cui avevo sollecitato un ascolto particolare. E l'avevo richiesto a un lettore solo: o meglio - con speranza che spero non essere eccessiva - a un lettore dopo l'altro, dove però ognuno è appellato nella sua singolarità. Se, infatti, il vocativo implicito nel trattato è la seconda persona plurale, quello implicito nel saggio è la seconda singolare (per me, una delle rivelazioni giovanili dello stile saggistico è stata il «tu» - non importa quanto metaforico - cui sovente ricorre De Sanctis). Quello citato sopra è un incipit molto bello, che manda quasi un suono di organo, un a fondo su un pedale solenne; ed è anche - a rigor di logica - tutto sbagliato: par di vederlo, un cattedratico intento al lavoro di massacro con la matita blu, se pensieri come questo fossero presentati in una tesi di dottorato! Prima di tutto, l'occhio non è un cerchio (se non in certe immagini che evocano l'incubo - immagini sospese tra gli archetipici occhi di gufo associati a Pallade Atena, e certi volti creati da Williarn Blake), tutt'al più, può essere cosl descritta la pupilla; e poi, il senso in cui si parla di cerchio (meglio, semicerchio) dell'orizzonte è ben diverso da questa circolarità della pupilla. Eppure, questo legarne di visioni agisce, con forza, sull'immaginazione - stimola, come suol dirsi, un turbine di pensieri: appunto la turbolenza intellettuale che è l'impeto rivelatore, nemico della saggezza, tipico del saggio. L'occhio è uno dei più inquietanti tra tutti i simboli, anche là dove non è considerato nel suo aspetto malo. E lo è, mi sembra, poiché esso è la parte del corpo umano che più fortemente evoca la tensione tra corpo e ... mente (ma sarà meglio abbandonare questa alquanto frigida espressione di tipo anglosassone, e parlare - più francamente - di corpo e spirito). Gli occhi sono le più spirituali tra le rnernbra del corpo - e al tempo stesso (per la loro binarietà testicolare, per la loro golosità introiettiva, e così via) le più provocatoriamente carnali (quanto ingenuamente indifesi, al confronto, appaiono gli organi ciechi del sesso!). Non voglio anticipare i dati di una tesi sul terna dell'«occhio mostruoso» in corso di elaborazione a

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