" ..... (S ·i i ..... e ~ ·;;;, ~ ,i ] ~ '3 81 care filosoficamente l'attendibilità della conoscenza scientifica. Può anche essere - e in molti casi di fatto è - la descrizione di un particolare gioco linguistico, e il tentativo di comprendere la posizione che occupa nella nostra forma di vita - a usare per un momento il gergo un po' vago dei wittgensteiniani. sti concetti riguardino soltanto la filosofia del linguaggio, ma che è possibileunateoriadellinguaggio che tratti questi concetti in modo tale che le conclusioni raggiunte su di essi in sede di filosofia del !inPer esempio, in Nome e necessità Kripk.e fa vedere che la sua teoria dei nomi propri come designatori rigidi compona cene conseguenze per la discussione del materialismo in filosofia della mente bisogno di presupporre - tra l'altro - che il «vero» significato di una parola possa essere determinato con sufficiente precisione. Ciò è possibile se è possibile isolare, nel linguaggio, un numero limitato di enunciati che esprimono il significato della parola in questione. Ma la distinzione fra enunciati che esprimono il significato di una parola ed enunciati in cui la parola è usata, ma che non contribuiscono a costituirne il significato ,"I __ - la differenza fra 'le balene sono mammiferi' e 'le balene sono frequenti lungo le coste dello Svalbard' -coincide, grosso modo, con la distinzione fra enunciati analitici ed enunciati sintetici; e questa distinzione è stata criticata da Quine in un modo che è parso definitivo. Dire, come Dummett, che la teoria del signifièato è il fondamento della filosofia - e sia pure della filosofia intesa essenzialmente come epistemologia - non sembra implicare necessariamente che l'epistemologia sia a sua volta il tentativo di fondare la scienza. Che la comprensione del linguaggio possa avere un ruolo, e un ruolo importante, nella comprensione dell'articolazione di quell'insieme di enunciati (e di altro) che è una teoria scientifica, sembra una tesi indipendente dall'idea che l'epistemologia sia la/ ondazione della conoscenza scientifica. Kuhn e Feyerabend, ad esempio, non pensano che le teorie scientifiche abbiano fondazioni, possano averne, o ne abbiano bisogno; eppure le loro discussioni utilizzano largamente concetti e risultati (magari discutibili) di filosofia del linguaggio. Un tritone e una sirena del Nilo Quine (Two Dogmas of Empiricism, 1951), tra l'altro, ha fatto Fatta questa precisazione, bisogna riconoscere che in realtà è molto probabile che Dummett condivida la posizione di cui Rony ac.cusa lui e altri: egli attribuisce alla teoria del significato il compito di spiegare come il linguaggio riesce a rappresentare la realtà, e quindi come - grazie al linguaggio - la scienza riesca a cogliere aspetti della realtà non evidenti all'osservazione grossolana; egli sembra quindi attribuire alla filosofia del linguaggio il compito di garantire l'«aggancio» tra linguaggio e realtà, che è condizione della possibilità del successo dell'impresa scientifica (secondo Dummett, ovviamente). Per Rony, questo è proprio il nucleo centrale di quella che egli chiama «filosofia del linguaggio impura» (Putnam, Dummett, anche Kripke): il programma di ricerca che pretende che la comprensione del modo di funzionare del linguaggio componi la spiegazione dell'«aggancio» del linguaggio alla realtà, e quindi la fondazione della possibilità della conoscenza scientifica. Una specie di versione linguistica del kantismo. A questo programma, Rony contrappone la filosofia del linguaggio pura, rappresentata dall'opera di Donald Davidson: un programma di comprensione di come funziona il linguaggio che non presume di avere conseguenze sul piano epistemologico. La filosofia del linguaggio «pura» di cui parla Rony non solo non ritiene che i problemi filosofici siano problemi «di linguaggio» in nessuno dei due sensi di cui si è parlato all'inizio, ma. non ritiene nemmeno - come invece Dummett - che la risoluzione dei problemi filosofici presupponga la risoluzione dei problemi filosofici specifici del linguaggio (cioè presupponga una teoria del significato). I problemi filosofici specifici del linguaggio - i problemi posti da concetti come significato, nome, verità, necessità, - sono quasi completamente indipendenti dagli altri problemi filosofici. Non c'è nessun rapporto privilegiato fra linguaggio e filosofia; il linguaggio è semplicemente uno dei terreni su cui si esercita la riflessione filosofica. Il discorso sarebbe più convincente se Rony non introducesse, come esempi di concetti di cui una filosofia pura del linguaggio dovrebbe occuparsi, quelli di verità e necessità, in cui - ovviamente - la filosofia si imbatte anche quando non ba a che fare direttamente col linguaggio. Il punto non è che ueguaggio non hanno efficacia per altri settori della filosofia. Per esempio, la teoria della verità di Davidson spoglia di implicazioni epistemologiche non il concetto di verità in quanto tale, ma quegli aspetti dell'uso di questo concetto che riguardano la teoria del linguaggio. Ceno, è concepibile una teoria del linguaggio le cui implicazioni per altri settori della filosofia siano poche o nulle. Il punto è che la ragione per preferire una J1Babrago2a ltapitulum '.llnbrago .9u mci ~cnbai fcEec bogmt mir "m8 &j~rieéidf tllan are bu gclJ>: pmt'fur biffcm• filosofia di questo tipo non può essere che essa è «pura», ma può essere soltanto che es&a è una buona filosofia del linguaggio, cioè una buona comprensione di come funziona il linguaggio. E una filosofia epistemologicamente neutra non è per ciò stesso una buona filosofia del linguaggio. D'altra parte, non è neppure il caso di ammettere che l'unico modo in cui una teoria del linguaggio può avere un'efficacia sulla discussione di altri problemi filosofici sia farla coincidere con la fondazione del resto della filosofia, come vorrebbe Dummett. Si può benissimo rifiutare alla filosofia del linguaggio il ruolo fondazionale che Dummett le assegna (magari perché si r:ifiutal'idea stessa di fondazione) e contemporaneamente ritenere che ceni risultati relativi alla comprensione del modo di funzionare del linguaggio abbiano efficacia su altri settori della filosofia. o ,an (l'identità fra una persona e il suo corpo, o fra mente e corpo, non può essere contingente: non si può dire «Cartesio e il suo corpo sono di fatto la stessa cosa, anche se avrebbero potuto non esserlo»; allo stesso modo, l'identità di una sensazione e di uno stato neurofisiologico non può essere contingente). Che la teoria nei nomi propri di Kripke abbia queste o altre conseguenze in filosofia della mente (cioè per l'analisi filosofica dei alrun•fmm •rrituiij• f4 mufttt Cui,sc• ffcr(pncftcn acmq lli~~n~.ù?ebic b<rRflm mb kc nit mcm bai WII m~inbcmw Radici di mandragora in forma di donna e di uomo fenomeni mentali, intenzionali, ecc., e dei loro rapporti col corpo) non è di per sé una ragione per rifiutarla come teoria dei nomi propri, né per assegnade d'altra parte un ruolo di fondazione di tutta quanta la filosofia. Gli studi e le realizzazioni di «intelligenza artificiale,. possono avere effetti importanti sulla nostra comprensione della mente umana, ma certo non ne costituiscono la fondazione. Ciò che rimane di una vecchia Idea Resta qualcosa della vecchia idea che i problemi filosofici siano problemi di linguaggio? Oggi si sente spesso sostenere che entrambe le versioni di questa tesi - quella «risolutoria» e quella «dissolutoria» - erano legate a una nozione di significato che non ba retto alla critica. Sia chi sostiene che i problemi filosofici nascono da abusi del linguaggio, sia chi pensa che essi siano risolubili analizzando il significato di certe parole, ha vedere che una caratteristica essenziale degli enunciati analitici - l'inconfutabilità da parte dell'esperienza - non può essere attribuita in modo assoluto a nessun enunciato. Non ci sono enunciati irrinunciabili; l'unica distinzione possibile è quella fra enunciati a cui siamo più facilmente disposti a rinunciare ed enunciati a cui siamo più attaccati. Non ci sono, quindi, enunciati veri soltanto «in virtù del significato» e impermeabili ai fatti. La critica di Quine fa certamente giustizia di molte false idee intorno al significato; ma chi- come Rony - tende a trame la conclusione che è impossibile 'porre i problemi filosofici come problemi di linguaggio, rischia di buttar via insieme all'acqua del bagno alcuni bambini. Per esempio: attaccare la distinzione analitico/sintetico non è, ovviamente, rifiutare la distinzione fra linguaggio e metalinguaggio, del resto imparentata con la distinzione guineana di uso e menzione (la parola 'topo' è usata nell'enunciato 'Il topo è un roditore', mentre è menzionata nell'enunciato 'Topo è un nome comune'). Ora, pare che certe formulazioni filosofiche, magari paradossali (come certe contraddizioni hegeliane, o certe tesi del Parmenide di Platone) risultino da confusioni fra livelli linguistici, nel senso, grosso modo, che vengono attribuite a certe cose proprietà che spettano ai loro nomi, o nel senso che la formulazione nel linguaggio-oggetto non permette di cogliere certe distinzioni che una formulazione metalinguistica evidenzia («Tutti i qualcosa sono. questi e non sono questi»). Far rilevare tutto ciò non comporta nessun appello a entità misteriose come i significati, né richiede che si accetti la distinzione analitico/sintetico. D'altra parte, la critica di Quine non riesce a sopprimere completamente l'impressione che vi siano enunciati - come 'Le parti sono parti di un tutto' o 'Gli eventi singoli non sono ripetibili' - che, per esempio, faremmo fatica a considerare oggetto di scoperta scientifica. Il punto non è che essi siano «linguistici» piuttosto che «fattuali,. (possono essere indifferentemente considerati l'una o l'altra cosa); e non è nemmeno che siano irrinunciabili. Ma rinunciare a essi non è come abbandonare l'enunciato 'Tutti i corvi sono neri' perché si è trovato un corvo bianco. Se certi eventi singoli - o tutti gli eventi singoli - sono ripetibili, è il concetto di evento singolo (viene da dire) a essere in questione; se le parti possono non essere parti di un tutto, ci sono allora almeno due sensi della parola 'parte'. La naturalezza di questi rilievi è alla base dell'idea che rinunciare a enunciati come quelli citati sja rinunciare all'uso di certe parole. Non è facile, invece, dare un contenuto preciso all'idea di Quine che la loro peculiarità debba essere ricondotta alla loro «centralità» nel sistema delle nostre conoscenze. Ma, finché esiste la propensione a distinguere fra usi di un'espressione che hanno portata definitoria e usi che non l'hanno, c'è spazio per l'idea di significato, e quindi per l'idea che l'analisi del significato di una parola sia un compito possibile. Perciò la «svolta linguistica» di cinquant'anni fa, anche se ba perso le ambizioni con cui era stata originariamente proposta, non è nemmeno oggi del tutto priva di motivazioni.
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