Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Charles Marowitz The Marowitz Hamlet London, Allen Lane, 1968 A Macbeth London, Calder & Boyars, 1971 «An Othello» in Open Space Plays selected by Ch. Marowitz Harmondsworth, Penguin, 1974 The Shrew London, Calder & Boyars, 1975 The Marowitz Shakespeare London, M. Boyars, 1978 Sex Wars. Free Adaptations from lbsen and Strindberg Boston-London, M. Boyars, 1982 e ome difendere «quella polvere indecifrabile che fu Shakespeare» (Borges)? Difenderlo dall'oblio; e da quell'altro, terribile oblio che è l'oblio per eccessiva familiarità. Si tratta alla fine dell'esistenza stessa di un grande testo come poesia, cioè come stimolo di perplessità, oggetto di dibattito, fonte e origine di croce e delizia, manutengolo di complotti e di complicità - non come m•,;,o ristoro alla sete estetica. Se questo è in gioco, tutto dovrebbe essere permesso. Quando la bardolatria fallisce, cioè sempre, perché non ricorrere alla parodia? Charles Marowitz spezzetta i brani più famosi di Hamlet e introduce altri personaggi della tragedia che li commentano e ci scherzano sopra: cioè adopera Hamlet solo tra virgolette, in modo pop, con una riproduzione dévoyante. « ... perché non c'è niente che sia buono o cattivo, ma è il pensiero che lo rende tale», dice il principe di Danimarca in The Marowitz Hamlet; e un altro personaggio commenta: «Toccato, veramente toccato ... » (battuta tratta dalla scena del duello). «Essere propriamente grandi significa non scuotersi se non per una ragione importante ..... ; e l'altro personaggio: «Recita questo brano, ti prego, così come l'ho pronunciato a te, facendolo saltellare sulla lingua ... » (dalla scena con gli attori). L'approccio satirico del trascrittore moderno è segno di mancanza di rispetto: non per l'originale, ma per la condizione abbietta in cui l'originale, troppo conosciuto, ora si trova. La parodia non nasce dal di fuori ma dal di dentro: dal verme della conoscenza che consuma la rosa della poesia (parafrasando una celebre metafora shakespeariana). Come diceva Georges Bataille, ogni opera è anche la parcdia di se stessa. Marowitz non usa altri drammi e altre parole per riscrivere Shakespeare: riscrive Shakespeare con lo stesso Shakespeare. The Marowitz Shakespeare sono adattamenti e collages scritti da Shakespeare e scelti da Marowitz; ma molta malizia si può celare in quel participio «scelti». Se tutto è già stato detto in passato, perché parlare? La mattina, all'alba, come è possibile aprire le tende e la bocca e pronunciare le parole «Che splendida giornata!» se,1za arrossire, pur sapendo c;he queste stesse parole sono state pronunciate milioni di volte in simili circostanze? Maròwitz Se tutto è già stato scritto, perché scrivere? La sera, nello studio, come è possibile prendere penna e calamaio (si fa per dire) e scrivere che Oliver ama Jenny Jenny ama Oliver, quando un altro scrittore molto tempo fa aveva già scritto che Romeo ama Giulietta Giulietta ama Romeo? [I contributo dell'artista è dunque questo: la sostituzione di una coppia di amanti con un'altra coppia dal nome più moderno? «Rimastichiamo la lingua dei morti» rimasticava Enrico IV in Pirandello. La distinzione fra l'atto delJo scrivere e l'atto del copiare è a volte straordinariamente sottile, nonostante tutte le sciocchezze romantiche sull'ispirazione e sull'originalità. Siamo forse ispirati quando la mattina respiriamo l'aria a pieni polmoni e diciamo trionfalmente e sinceramente: «Che splendida giornata!» Lo scrittore è uno scriba infedele, troppo pigro per copiare fedelmente e coscienziosamente; e allora cambia qualche dettaglio qua e là, un po' per evitare la noia, un po' per coprire le sue malefatte e concedersi la facile illusione di avere qualcosa da dire. F orse il modo più economico e più proficuo di essere scrittore non è inventare qualcosa di nuovo (che è impossibile), o trovare un nuovo modo di dire qualcosa di vecchio (che è quasi altrettanto impossibile), ma riscrivere parole che sono già state scritte adottando una sequenza diversa dall'originale. Lo scrittore non è poi tanto diverso dall'inventore di una contrepèterie che riceve dalla sua tradizione linguistica la parola francese parachute e la trasforma io un char-à-putes. Se poi lo scrittore è anche un poeta, allora può prendere dei versi famosi e smazzarli in modo da ottenere risultati nuovi e inusitati, impiegando gli stessi ingredienti del passo originale (cioè non soltanto gli ingredienti comuni a tutti - le ventisei lettere dell'alfabeto e le diecimila parole del vocabolario, - ma le minisequenze di parole che si trovano in un verso). Come ricordava Umberto Eco nel suo Trattato, Pascal scriveva: «Qu'on ne dise pasque je n'ai rien écrit de nouveau: la disposition des matières est nouvelle», sacrificando inventio ed elocutio al dono essenziale della disposirio. L'arte di scrivere poesia, di ridurre un minuto frammento di conoscenza e di sensibilità nel circuito chiuso di uno schema metrico, è compito inaccessibile piuttosto che arduo, se il poeta è cosciente di duplicare formule che sono già state messe alla prova ed esperimentate in passato (voglionsi quindi poeti incoscienti, o almeno solidamente ignoranti). Virgilio aveva già versificato buona parte dello scibile e del sensibile, e con la sua abilità suprema di prosodista e di versificatore ritmico aveva ottenuto risultati che nessun poeta poteva sperare di emulare. Immaginiamo per un istante che io abbia qualche cosa di importante da dire, e abbastanza energia per decidere di dirla. Inoltre, potrei decidere non soltanto di parlare, ma di mettere su carta quello che voglio dire; e, per magnificare e allargare la portata di quello che Guido Almansi intendo dire, potrei addirittura scegliere la scrittura in versi. Ecco, qui si aprono due alternative: potrei scrivere i versi io stesso; oppure potrei limitarmi a identificare ed a isolare versi di Virgilio che si adattano a quello che intendo dire, e contrabbandarli nel mio contesto moderno e privato. È come se T.S. Eliot avesse deciso di scrivere le sue poesie e i suoi poemi citando Dante e Baudelaire e Wagner e Ovidio non solo qua e là ma in modo sistematico, strofa dopo strofa, senza prendersi la briga di modificare i versi originari (cioè come se T.S. Eliot avesse imitato più da vicino Ezra Pound). Nel Rinascimento questa tecnica della citazione aveva generato il centone, un genere letterario che sfruttava i versi dei classici per raccontare storie completamente diverse da quelle a cui erano interessati gli antichi poeti. La vittima principale fu Virgilio, il massimo artefice di versi della lirica occidentale; ma anche altri poeti, soprattutto latini, furono saccheggiati, anzi vampirizzati, in questo modo. Con i versi sparsi dell'Opera omnia di Virgilio i centonisti scrissero del Calvario, delle loro avventure personali, degli scontri navali della flotta olandese; lontane vicende di significato simbolico e contemporanei avvenimenti di immediata rilevanza. Tutto quello che il centonista doveva fare era sedere ai bordi dello stagno virgiliano con amo ed esca, e pescare il verso adatto a ogni circostanza. L'operazione nasce da due scopi opposti: per evitare sforzo e dolore (motivazione algof.oba); per ricercare piacere e diletto (motivazione edonistica con componente sadica). Il dolore da evitare è quello del parto poetico («the pangs of creation»), a cui si preferisce lo spoglio di migliaia di versi per trovare le parole e il concetto voluto. Il piacere (grande) da ricercare è la volontà di falsare la personalità altrui (di 'cambiare i connotati' a qualcuno), costringendo il 'maestro' e 'autore' a dire cose che non si era mai sognato di pensare ma che aveva inca'.ltamente scritto: far scrivere a un poeta le poesie che non ha mai avuto il coraggio di scrivere (ma che sono lì, acquattate nelle strofe, nei versi, se non addirittura nei giochi anagrammatici della poesia). Come un poliziotto disonesto che fabbrica prove e indizi usando frammenti di nastri registrati, il poeta centonista diventa un falsario che si diletta nella sistematica deformazione dell'intenzione originale del creatore per soddisfare le proprie ambizioni e la propria invidia. Lo scrittore è finalmente libero dall'Ansia dell'Influenza (ci riferiamo al titolo del celebre saggio critico di Harold Bloom): non è più Virgilio che influenza lui, bensì lui che influenza Virgilio, alterando il significato dei suoi versi. N ei suoi adattamenti shakespeariani (più che in quelli da lbsen e da Strindberg) Charles Marowitz è un perfetto centonista moderno. Da un lato, la sua opera appartiene alla nuova moda di adattamenti shakespeariani in quanto l'autore partecipa e collabora al banchetto primitivo in cui il corpo di padre Shakespeare viene macellato smembrato divorato, secondo modelli antropologico-cultural-culinari ben noti. Da un altro, Marowitz si differenzia dagli altri commediografi che hanno adattato i testi di Shakespeare nel Novecento, in quanto rimane fedele alla lettera e non solo allo spirito dei drammi shakespeariani, riproducendo i versi originari ma alterandone la sequenza. Gli altri riscrittori adottano tall volta la trama dell'opera, i nomi dei personaggi, persino l'atmosfera del dramma primigenio, ma soprattutto l'aura mitica che si è creata attorno a certe leggende capjtali della nostra cultura (in questa direzione, il lavoro di Giovanni Testori dall'Ambleto al Macbetto e infine all'Edipo è esemplare). Per quanto riguarda il testo - le parole stesse che formano il tessuto del dramma shakespeariano - tutti, tranne Marowitz, si prendono il massimo di libertà. L'adattatore moderno parte da un basso istinto che lo vuole stupratore di testi, macellaio di miti, vandalo di passi poetici, in modi che ci ricordano la disinvolta violenza, il cinico barbarismo, l'ironica sovversione ostentate da Shakespeare stesso verso la sua cultura. • Ma queste operazioni terremotanti richiedono negli altri riscrittori un linguaggio e un lessico autonomo. Non così nei testi di Marowitz, che adottano solo parole dalla concordanza shakespeariaBibl1otecaginobianco na, versi tratti dai Complete Works, e quasi sempre dalla commedia stessa che viene adattata. Il testo è stuprato dall'interno e non dall'esterno, come nel celebre quadro di Salvador Dalì, Giovane vergine autosodomizzata dalla sua castità. Slittiamo verso una metafora diversa: Marowitz non assassina i testi ma li costringe al suicidio. Gli altri adattatori sono gladiatori selvaggi che maneggiano ogni sorta di arma d'offesa per fare a pezzi e straziare questi venerandi capi d'opera; sfruttano l'alone di grandezza che circonda i nomi gloriosi, Macbeth, Otello, Tito Andronico, Re Giovanni, per soddisfare le loro perversioni private. Anche Marowitz deve soddisfare la sua perversione privata, ma con un bisturi, non con un'ascia d~.guerra. Ovvero Marowitz usa una forma di tortura psicologica piuttosto che agire da carnefice. «Hai scritto tu questo verso, signor Shakespeare? Ebbene, prova a ripeterlo, e vedrai cosa ti succede». A Macbeth di Marowitz sta al Macbett di lonesco come il Grande Inquisitore sta ad Attila. Il collage di Hamlet, il più famoso e il più infame degli adattamenti di Marowitz, è legato al mito di Hamlet, a tutto quello che uno pensa durante una rappresentazione di Hamlet e non osa dire. L' Hamlet di Shakespeare rimane intatto nonostante tutte le atrocità commesse dai filologi, dai critici, dagli adattatori e dai registi (i puristi che ne difendono la integrità pensano che si tratti di opera ben fragile se la sua grandezza può essere minacciata da una parodia). Qualcuno continuerà a leggere Hamlet nonostante quello che è stato perpetrato contro la tragedia. Se poi il testo non sopravvive alla violenza subita, questo significherebbe - ed è assurdo pensarlo - che non meritava la sopravvivenza. Marowitz denuncia tra le altre cose lo stato miserabile in cui sono decaduti alcuni dei più alti brani di poesia che siano mai stati scritti. Talvolta i versi non hanno più difesa, non a causa della parodia ma perché sono stati detti e ridetti, usati e abusati, declamati e biascicati, troppo a lungo. Si provi a ripetere ad alta voce il celebre attacco: «Oh if this too too so/id flesh ... » (Ah se questa carne troppo troppo salda ... ). Si viene subito colti da nausea non perché il verso non sia memorabile ma perché è troppo memorabile: lo si conosce 'a morte', anche se ci è stato risparmiato l'obbrobrio finale di essere coinvolti nell'antica «crux» testuale (so/id o sullied?) Marowitz sfrutta a suo vantaggio questa situazione grottesca e compie una operazione pop, citando tutti i versi come fra virgolette, come materiale di seconda mano, già conosciuto e già criticato (si pensi al vecchio ma significativo scherzo: «Che brutta tragedia l'Amleto: ci sono troppe citazioni!»). Il riscrittore riscopre una antichissima verità già nota ai classici: l'allucinante banalità della grande poesia quando è troppo nota e troppo citata. Basta dire: «Per me si va nella città dolente», per sentire i brividi, e non d'orrore.

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