Alfabeta - anno V - n. 48 - maggio 1983

Paradosseibraici Rosellina Balbi Hatikvà. U ritorno degli ebrei nella terra promessa Bari, Laterza, 1983 pp. 168, lire 10.000 e he gli ebrei siano portatori e provocatori di paradossi, se ne accorge chiunque cerchi di parlare di loro. È paradossale che la loro consistenza di gruppo sia rafforzata, se non prodotta (lo di• ceva già Sartre), dall'antisemitismo. Dopo una ventina di secoli di esilio, gli ebrei hanno sviluppato un'adattabilità che li porterebbe a disciogliersi tra i popoli ospiti, se non fossero ghettizzati, discriminati, o nel caso migliore considerati «diversi». D'altro canto, la loro individualità collettiva è quasi inafferrabile: non razziale (basta confrontare ebrei russi e marocchini, tedeschi ed egiziani o turchi); non religiosa, data la precoce diffusione tra loro di posizioni laiche; non linguistica, perché soltanto gli askenaziti hanno elaborato una lingua propria, l'yiddish. Restano alcune tradizioni, varie secondo paesi, regioni, persino famiglie; resta il senso di un'unità perduta, di un esilio secolare. A interrogare ebrei di varia provenienza, risulterebbe forse che il nucleo della loro realtà di popolo sta in una doppia fedeltà: fedeltà ai morti per le persecuzioni, fedeltà ai fratelli che sono stati e sono perseguitati. Una concezione stoica e immanente dell'onore, anche davanti alla morte. Ma con i paradossi si può proseguire all'infinito. È paradossale che vari paesi abbiano favorito l'immigrazione degli ebrei limitandone e indirizzandone le attività (no al possesso e al lavoro della terra, sì all'esercizio dell'esattoria e del prestito; no agli studi universitari, sì all'artigianato e al commercio), e poi, in momenti di crisi, li abbiano perseguitati proprio perché esercitavano le attività richieste. È paradossale che l'antisemitismo, i cui argomenti fondamentali risalgono alla concorrenza del derivato vincente dell'ebraismo, il cristianesimo, abbia continuato a prosperare in epoche e ambienti non religiosi. L'antisemitismo fascista è apparso nella sua prima fase un degno erede dell'Inquisizione di Spagna, nel suo mescolare religione e razza, acqua santa e genealogia. Questi paradossi derivano in buona parte da una asimmetria delle distanze. L'ebreo sente la sua diversità come minima: qualcosa che riguarda l'intimità di alcuni ricordi, sentimenti, emozioni. Tant'è vero che gli ebrei della diaspora non solo si sono inseriti in tutti gli ambiti della società a loro aperti, ma hanno partecipato ai moti nazionalistici e irredentistici locali, a partire dal Risorgimento; si sono ovviamente trovati a combattere, per esempio nella grande guerra, ebrei francesi e italiani contro austriaci e tedeschi. La vera patria è quella di adozione. Grande invece la diversità quando vista dagli altri. La constatazione di Ludwig Borne è lapidaria: «Alcuni mi rinfacciano di essere ebreo, altri me lo perdonano, altri ancora addirittura mi lodano per questo, ma tutti ci pensano». È questa distanza degli altri, troppo maggiore della distanza dagli altri, a costituire il segno di elezione e di condanna degli ebrei. Nessuno scampo, tra gli espedienti tentati: la Spagna del Cinquecento insegna che una conversione in massa alla religione dominante non serve; cambiamenti di cognome non sono sfuggiti, durante il nazismo, a facili ricerche anagrafiche; l'isolamento individuale dalle comunità ebraiche ha semmai privato di una solidarietà senza produrne altre. Si sperò molto nella vittoria delle concezioni democratiche, favorevoli per definizione a tutte le minoranze oppresse. E anche per questo fu così grande il contributo degli ebrei all'azione rivoluzionaria, in particolare alla rivoluzione russa. Lo stalinismo dimostrò che pure questa era un'illusione; e dopo Stalin le cose sono migliorate di poco, come si può verificare ogni giorno ad apertura di giornale. L'alternativa, sviluppatasi appunto in parallelo, e in dialettica, con la storia del socialismo, era la nascita di un nazionalismo ebraico, di un movimento per ottenere l'assegnazione di un focolare nazionale. Fu il sionismo. L e vicende attuali della nazione effettivamente ricostituita, Israele, suscitano reazioni così immediate e passionali da impedire un discorso pacato. Si può affermare tranquillamente che quasi nessuno sa cos'è il sionismo. Benvenuto perciò il libro di Rosellina Balbi, Hatikvà. Il ritorno degli ebrei nella terra promessa. Opera lucida e avvincente, in cui si seguono tre linee storiche intrecciate: quella del sionismo, quella delle persecuzioni dell'ultimo secolo, quella dello stato di Israele. La prima è senza dubbio la meno conosciuta, e farò su di essa qualche considerazione saccheggiando i materiali raccolti e intelligentemente ragionati dalla Balbi. B1bliotecag1nobianco Cesare Segre Il sionismo è uno degli ultimi movimenti di riscossa nazionale d'Europa. Esso matura tra bruschi e decisivi cambiamenti della situazione istituzionale e sociale, tra riforme illuminate, movimenti rivoluzionari, restaurazioni. In questo panorama cangiante, gli ebrei passavano da entusiasmi a pogrom, constatando ancora una volta la propria sostanziale insicu- . rezza (fu una cartina di tornasole ·il caso Dreyfus). Questo, proprio mentre le idee progressiste mettevano in crisi la loro religiosità e i loro riti, e all'interno delle comunità si prendeva coscienza delle divaricazioni sociali e politiche. Il sionismo nasce perciò, più che come ideale di una nazione cosciente di sé, come impegno di ricompattamento e come tentativo di sottrarsi al sempre latente antisemitismo. Theodor Herzl, il giornalista ungherese che fondò il sionismo, aveva una sola preoccupazione (non poteva immaginare quanto giustificata): salvare gli ebrei. Aveva pensato prima a un battesimo collettivo. Poi aveva cercato terre disabitate o poco abitate dove poter trasferire il suo popolo: il sud dell'Argentina, l'Uganda. La Palestina (allora prevalentemente desertica) era una sola delle possibilità, certo più prestigiosa come sede degli ebrei in un passato remoto. Herzl non trovò da principio molte adesioni: gli ortodossi vedevano con sospetto uno Stato laico, istituito per volontà umana senza l'opera del Messia; gl'idealisti invocavano una rinascita spirituale, che sola avrebbe giustificato l'autonomia di una nazione; i socialisti riponevano più fiducia nella rivoluzione, preferendo la fraternità di i !. classe a quella di popolo. Solo nel 1905, quando Herzl era già morto, un congresso sionista decideva definitivamente per una sede in Palestina. Occorre attendere altri quarantadue anni prima che il sogno di Herzl sia realizzato da una risoluzione dell'Onu; nel mezzo, il genocidio di sei milioni di ebrei e gli altri massacri minori, prodotti o tollerati dall'indifferenza o dall'orgoglio imperialista o dagli interessi commerciali dell'Occidente. La Balbi fa benissimo a soffermarsi proprio sui primi decenni del Novecento, sulle prime limitate immigrazioni, sui rapporti tra ebrei e popolazioni locali, sui cambiamenti prodotti nella nuova entità ebraica dalla situazione e dal tipo di vita. Intellettuali che si facevano contadini, imbelli e pacifisti che imparavano l'uso delle armi; e in complesso un rovesciamento delle gerarchie sociali molto più radicale di quello predicato dai rivoluzionari europei. È in questo periodo l'incubazione di quanto di meglio ha poi dato Israele. Un 'altra tematica interessante sviluppata dalla Balbi è quella politica. Non alludo solo ai precedenti e alle conseguenze della «dichiarazione Balfour», la quale sin dal 1917 impegnava il governo inglese (che poi mancò alla parola) a costituire «un» focolare nazionale ebraico in Palestina (nella prima redazione si diceva «il» focolare; identico problema filologico nella ben più recente risoluzione dell'Onu che impegna Israele a restituire «territori occupati», oppure «i - cioè tutti i - territori occupati»). Sottolineo invece i tentativi frequenti di trovare un accordo preliminare con gli arabi: dal patto stipulato da Chaim Weizmann con Feisal nel 1919 (egli accettava la «dichiarazione Balfour»), agli incontri di Ben Gurion con esponenti del nazionalismo arabo nel 1935, alle trattative di Golda Meir con Abdullah di Transgiordania nel 1947. Ma Weizmann stesso constatava scoraggiato: «Nei nostri rapporti con gli arabi, una delle maggiori difficoltà è stata la mancanza di una personalità, o di un gruppo di personalità, capace di rappresentare il mondo arabo». Merita anche ricordare che già Ahad Ha'am aveva preconizzato uno Stato binazionale. I nsomma, mentre il sionismo non aveva mai rivendicato tutta la Palestina biblica («prenderemo quello che ci verrà offerto», diceva Herzl), il progetto della «grande Israele» rientra nella politica espansionista e militarista degli ultimi governi israeliani. Era in sintonia col sionismo, quasi sua realizzatrice, l'assemblea dell'Onu che istituì lo stato di Israele; era la voce del sionismo Gromiko, che in quell'assemblea dichiarava: «Il fatto che nessun paese occidentale (dimenticava la Russia. C.S.) sia in grado di assicurare la tutela dei diritti elementari del popolo ebraico e di difenderlo contro le violenze dei carnefici fascisti, spiega l'aspirazione degli ebrei al proprio Stato. Negare questo diritto al popolo ebraico è inammissibile». Eppure oggi, sotto l'etichetta dell'antisionismo, si sta sviluppando un nuovo antisemitismo. Sarebbe ingenuo pensare che si tratti Disegno per Vaso da fiori doppio (/968)

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