Alfabeta - anno IV - n. 38/39 - lug.-ago. 1982

ma è il mondo di una «integrale attualità». La lingua qui scompare come categoria autonoma, non è possibile farsene alcuna immagine distinta né imprigionarla in alcuna scrittura: gli uomini non scrivono più la loro lingua, ma la celebrano come una festa senza riti, s'intendono fra loro «come i nati di domenica intendono la lingua degli uccelli». Pensare che cosa sarebbe una comunità umana e una lingua che non rimandassero più ad alcun fondamento indicibile e non si destinassero più a un tramandamento infinito, e in cui le parole non si distinguessero più da ogni altra prassi umana, è certamente un compito arduo. Ma questo e nulla di meno che questo è quanto resta da pensare a un pensiero che voglia veramente essere all'altezza del proprio problema. Forse ciò che abbiamo qui di fronte è qualcosa di cosi semplice, che ci manca il coraggio di pensarlo - quel coraggio, diceva Wittgenstein, che soltanto può pagare il pensiero. Quel coraggio che, alla fine della scienza della logica, spinse Hegel a formulare l'idea assoluta come «la parola originaria, che è un proferimento, ma tale che, come proferimento è immediatamente di nuovo dileguato, mentre è» (...). 2. Gianni VaNimo: Equivoci 11 recente convegno di Modena può davvero rappresentare una tappa importante negli studi benjaminiani; anche e soprattutto nel senso di metter sotto gli occhi di tutti un'esigenza ormai irrimandabile: quella di scanonizzare Benjamin, di toglierlo dall'aura in cui, proprio con l'ausilio dei mezzi di comunicazione di massa, i suoi discepoli e commentatori lo stanno collocando, attribuendogli ogni sorta di sagge posizioni di sintesi tra i pericolosi estremismi del pensiero novecentesco. Di questo processo di canonizzazione è certo un elemento determinante anche il problema degli scritti postumi. Nelle attuali condizioni dell'industria cultural.e, per uno scrittore il Nachlass è tutto. Sul Nachlass si «apre il dibattito», si fanno tesi di laurea, ricerche di archivio possibilmente finanziate da enti pubblici, ghiotte trouvail/es di foglietti dimenticati in vecchie valigie, edizioni critiche a ripetizione; ogni nuova carta pubblicata cambia tutta la prospettiva e stimola nuove discussioni. (In questa «cultura del caso», persino la fortuna di Nietzsche è ricominciata, nigli anni sessanta, a partire dal caso creato dalla edizione degli scritti postumi, prima con Schlechta e poi con Colli-Montinari ...). Quando poi, la stessa opera edita è sufficientemente criptica da permettere ogni genere di acrobazie interpretative, la fortuna dell'autore è fatta ... Scanonizzare non vuol dire avanzare l'ipotesi che l'opera di Benjamin sia tutta un bluff; ma solo tentare di ristabilire proporzioni, distanze, differenze teoriche, tutte cose che possono solo giovare alla comprensione più completa e rispettosa dell'autore. Per esempio: la tesi (se è una tesi, e se possiamo permetterci di schematizzarla molto, qui) della lingua pura dei nomi, la lingua originaria pre-babelica, nella quale, in virtù della potenza ontologico-evocativa dei nomi, si darebbe la verità di là da ogni travisamento, e prima di ogni manipolazione alienante, questa tesi che c'è nel saggio giovanile sulla lingua e riecheggia nella premessa gnoseologica del Dramma barocco, è davvero cosl teoricamente produttiva come i commentatori sembrano credere? Essa viene spesso più o meno esplicitamente accostata - e accreditata. mediarite tale accostamento - a Heidegger e alla sua critica del linguaggio ridotto - nell'epoca della metafisica - a strumento della manipolazione tecnologica dell'ente. Ma proprio questo accostamento dovrebbe in realtà richiamare l'attenzione sull'enorme dif- B 1t1nzt':JJeet'è!yi1a chulJi le due posizioni: l'ontologia ermeneutica heideggeriana e la sua filosofia del linguaggio dà luogo a conseguenze teoriche rilevantissime (né più né meno che la dissoluzione della nozione di essere tramandata dalla metafisica), e può entrare in un dialogo produttivo con la riflessione sul linguaggio di impostazione analitica e di derivazione wittgensteiniana; insomma, tutto un articolato sviluppo di elaborazioni teoriche dense di implicazioni. Si può dire lo stesso, o qualcosa di simile, del pathos benjaminiano per la lingua originaria? Il problema degli equivoci accostamenti di Benjamin e Heidegger è forse solo la spia degli equivoci nei quali si avviluppa la sua collocazione, in funzione solutiva, entro la filosofia contemporanea; rispetto ai cui problemi il pensiero di Benjamin sembra avere un significato tutto sommato limitato, almeno se si ammette che esso ha due tratti fondamentali che lo legano proprio al mondo concettuale rispetto a cui la filosofia di oggi - e anche quella alle cui tematiche Benjamin viene considerato, erroneamente, affine (come è il caso di Heidegger) - ha inteso prendere le distanze. (Non è questo, occorre ripeterlo, un giudizio di valore fondato sull'assunzione storicistica che bisogna essere al passo con la filosofia odierna; è solo un invito a non dimenticare le differenze, creando confusioni inutili.) Questi due tratti sono: I) il neokantismo, cioè la filosofia delle università tedesche del primo novecento, entro il cui ambito il linguaggio concettuale di Benjamin, sebbene spesso travestito in modi fantasmagorico-mistici, rientra abbastanza chiaramente: così si farebbe bene a leggere anzitutto in riferimento al neokantismo termini come quello di idea e quello, correlato, di costellazione, che troppo spesso gli interpreti caricano di eccessive risonanze esoteriche. È un neokantismo profondamente segnato dalle frequentazioni mistiche e cabalistiche di Benjamin; ma ciò aggiunge solo al tutto un pathos per l'originario che, per restare a Heidegger a cui cosl spesso questo aspetto di Benjamin è avvicinato, non può non apparire che una versione ancora più «compromessa» con la metafisica dell'interesse neokantiano per la fondazione. 2) Il materialismo storico e la diak·ttica materialistica. È su questo, soprattutto, che si appunta l'interesse dei tanti orfani di Marx e di Gramsci, che vedono in Benjamin una possibilità di salvare la dialettica dalla (meritata) liquidazione a cui va incontro nel pensiero contemporaneo. Anche qui, però, bisogn~ rispondere a una semplice domanda: che cosa c'è in Benjamin che permetta una reinterpretazione della nozione di dialettica tale da ridarle forza· teorica? Ci sono in lui elementi risolutivi che non siano stati già ripresi ed elaborati per esempio da Adorno? (Non mi pare che la risposta a questa domanda possa venire da quel suggetivo scritto che sono le Tesi di filosofia della storia, nelle quali il materialismo storico crede di aver preso al proprio servizio la teologia ma alla fine risulta piuttosto esso stesso asservito a quella, con esiti certo stimolanti, ma proprio perché estremamente contraddittori, niente affatto riportabili a un'immagine canonica di Benjamin come aurea linea di mezzo, saggia sintesi, ecc. ecc.). Naturale che queste domande non esauriscono la mostruosa ricchezza degli scritti di Benjamin, quella che spiega e giustifica - di là da ogni gioco della moda - la sua permanente presenza nella nostra cultura. Ma quelle a cui si sente sempre il bisogno di tornare sono piuttosto le sue analisi particolari, le visioni che offre della coscienza moderna e tardo-moderna, il suo Baudelaire, insomma ... Proprio tutte quelle pagine in cui non è pensatore sistematico,canonizzabile, ma saggista e acrobata. 3. Cesare Cases: Imparare dal nemico N iente di più ovvio che a un congresso su Benjamin si tenesse il tempo in non gran cale. In pratica relazioni e interventi duravano quanto si voleva, proprio come se una squadra di operai benjaminiani avesse sparato su tutti gli orologi di Modena e fatto tacere le campane della Ghirlandina. L'unica eccezione - qualcuno evidentemente aveva un orologio sfuggito al massacro- fu fatta per Barbara Kleiner, ammonita il secondo giorno dopo aver parlato per non più di un quarto d'ora. Eppure sostituiva un relatore assente, Giacomo Marranrao. e avrebbe ~yuto il diritto di parlare più a lungo che per un semplice intervento. Ma aveva fatto la parte del guastafeste, dell'omino gobbo della canzone cara a Benjamin (anche se in questo caso l'omino gobbo era una bella signora dritta). Non so che cosa avrebbe detto Marramao, che doveva parlare dei rapporti tra Benjamin e Cari Schmitt. La Kleiner accennò brevemente all'argomento ma ne approfittò per criticare energicamente l'atmosfera del congresso. È verissimo- disse all'incircache Benjamin scrisse una lettera pressoché entusiastica a Schmitt e mostrò molto interesse per Ludwig Klages e C.G. Jung, ma questo rientrava nella sua strategia di «imparare dal nemico» (come diceva Brecht) e non cancellava affatto i confini. Quanto a Heidegger, che a Modena era quasi sempre associato e talora indiscernibile da lui, la Kleiner ricordò che Benjamin non l'aveva mai stimato nè come uomo nè come pensatore. Non era-nemmeno un nemico da cui impar~e. In effetti Benjamin e Brecht furono tra i pochi uomini di sinistra che rifiutarono di sottoscrivere la condanna globale del pensiero e dell'arte di destra (al polo opposto sta LukAcs), il primo certo in misura molto maggiore dell'amico, perché la sua teoria del- !' «agente segreto», escogitata per Baudelaire, gli permetteva di accettare molti scrittori, da Baudelaire stesso a Kafka, che Brecht giudicava scarsamente o per nulla «utilizzabili». Sono note le discussioni a Svendborg in proposito. Il limite poteva essere spostato diversamente, ma a un certo punto era eguale per entrambi, che non a caso ventilarono insieme qualche cosa per «fare a pezzi» Heidegger (lettera a Scholem del 25.4.1930: la data è importante perché mostra che non può ancora trattarsi di animosità politica). Ancora il 20.6. I 938 Benjamin si lamentava con Gretel Adorno della «miseria della produzione ortodossa» comunista citando l'esempio di un numero della moscovita/nrernarionale Lirerarur in cui lui, per una parte del saggio sulle Affinirà elenive, «figurava come seguace di Heidegger». Sarebbe interessante andare a vedere chi era questo audace precursore. La sua voce andò perduta in quelli che Enrico Filippini anche in questa occasione (la Repubblica, n .4.1981) chiama «i tetri anni Cinquanta» e negli anni seguenti, di «perdurante terrore nei confronti dell'irrazionalismo». EJ lecito infischiarsi dell'autocoscienza di Benjarnin e appaiarlo sotto certi aspetti a Heidegger? Direi proprio di sì, specie se ci si ricorda che il secondo, benché di tre anni più vecchio del primo, grazie alla sua robusta complessione sveva (la menzione di altri motivi ci ripiomberebbe nei tetri anni Cinquanta) gli sopravvisse di trentasei anni, continuando a pensare. Dopo tutto le plateali ingiurie di Scbopenhauer contro Hegel non banno impedito per esempio a Horkheimer di amare e utilizzare entrambi. È questo il diritto dei filosofo, di cui fa uso Giorgio Agamben nel suo recente libro-seminario// linguaggio e la mone (Einaudi}, dove peraltro Benjamin è citato salvo errore una volta sola mentre nella relazione modenese dello stesso Agamben gli sono sostanzialmente attribuite le tesi del libro, e cioè l'identificazione della negatività con il principio ontologico alla base della metafisica occidentale e la necessità di «togliere» questa negatività e di instaurare un linguaggio che non ne sia inficiato. L'acume speculativo di Agamben può servirsi di Benjamin e di Heidegger come di Gaunilone e di Hegel. Il filosofo piglia il suo bene dove lo trova, anche se i conti filologicamente non dovessero sempre tornare al centesimo. Ma sarebbe pensabile anche un'indagine filologica delle divergenze e convergenze tra Heidegger e Benjamin, simile a quella recentemente compiuta da Hermann MOrchen per i rapporti (in vita certamente duramente antitetici) tra Heidegger e Adorno. Quello che meraviglia è che, invece di studiare opposizioni e convergenze in modo problematico, ci si trovi in un ambiente da foto di famiglia in cui, quando si parla dell'avversione di Benjamin per Heidegger (come fece onestamente una volta Ferruccio Masini nella discussione), lo si fa nel tono in cui si ricorda la nota antipatia del nonno Aristide per la prozia Carolina, che ci interessa solo come pettegolezzo storico perché in fondo, si sa, erano fratelli e i nipotini vanno tutti d'accordo. È davvero così? Forse sì, ma non so ce ci sia da rallegrarsene. Torniamo ai tetri anni Cinquanta o ai primi Sessanta, quando uscì Angelus 11ovus con l'introduzione di Solmi, che presentava Benjamin in Italia. Per tre quarti penso che essa sia ancora accettabile per i convenuti di Modena. Solmi era stato un po' intimidito dal «perdurante terrore nei confronti dell'irrazionalismo», ma certamente lo guardava in faccia e non esitava a riconoscere, a proposito dell' «unità messianica della storia», che •anche qui, come già nella teoria del linguaggio, certe formulazioni possono far pensare a quelle non del tutto dissimili (anche se tanto più astruse e mistificate) di un Heideggen. Perfino la parentesi è riecheggiata a Modena in un intervento di Fabrizio Desideri, che voleva differenziarsi dall'equiparazione dei due anche nell'ermeneutica linguistica. Ma se Benjamin secondo Solmi era come Heidegger •analogamente in polemica con lo storicismo tradizionale, analogamente inteso a affermare, contro il 'tempo meccanico' dello storicismo, una 'temporalità estatico-orizzontale' emergente dalla storia», tuttavia in lui il nichilismo «non si presenta più, come nell'irrazionalismo 'classico', come u,na polemica contro la storia (in nome del singolo, del nulla o dell'eterno ritorno); ma sembra ritrovare nella storia stessa, nella sua attualità più urgente e immediata, la sua dimensione trascendente e messianica». Il rimprovero che qui Solmi muove a Benjamin è di lasciare a questo punto «oscuramente intrecciate» «prospettiva storica e prospettiva religiosa», sicché «la rivelazione del contenuto storico dell'angoscia, anziché risolversi in una prospettiva puramente umana, sembra trovare conferma ... nel suo oggetto reale». Inversamente la spe- ::

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==