Alfabeta - anno IV - n. 38/39 - lug.-ago. 1982

Il testo ,li Agamben è un estrai/odella relazione svolta dall'Autore al convegno « Walter Beniamin. Tempo storia linguaggio». tenutosi a Modena i giorni 22-24 aprile /982. Gli scritti di Vattimo e Cases sono invece stati stesi appositamellle per Alfabeta su richiesta ,/ella nostra redazione. I L Giorgio Apmben: La tnspuenza deOa lingua L a condizione storica dell'uomo è inseparabile dalla sua condizione di essere parlante ed è iscritta nella modalità stessa del suo accesso al linguaggio, che è originalmente segnata da una scissione. Ma in che modo Benjamin intende questa coesione di lingua e storia, di categorie linguistiche e categorie storiche? In uno scritto del 1916 (// significato dd linguaggio nel Trauer:spiel e nella tragedia), essa è espressa in una folgorante abbreviatura: «La storia,. qui leggiamo «nasce insieme al significato nel linguaggio umano,. (ll,1, 139). In questo scritto, tuttavia, la coesione di lingua e storia non è totale: coincide anzi con una frattura del piano del linguaggio, cioè col decadere della parola (Wort) dalla sua epura vita sentimentale,. (reines Gefùhlsleben ), in cui essa è epuro suono del sentimento,., nella sfera del significato (Bedeutung) (Il, 1, 138): «nel mezzo di questo cammino (verso il puro suono) la natura si vede tradita dal linguaggio, e questa immensa inibizione del sentimento diventa lutto,. (ibid.) Storia e significato si producono, dunque, insieme, ma essi sopravvengono a una condizione per cosi dire preistorica del linguaggio, in cui non vi è ancora la dimensione del significato, ma solo la pura vita sentimentale della parola. Nel saggio Sulla lingua in generale e la lingua degli uomini (1916), la scomposizione del linguaggio in due piani è chiaramente articolata in un mitologema fondato sull'esegesi biblica. Qui. come nel pensiero medievale, il piano originale del linguaggio è quello dei nomi, esemplificato, però, secondo il racconto della Genesi, nella nominazione adamitica. Ciò che Benjamin definisce qui epura lingua,. (reine Sprache) o lingua dei nomi (Namenssprache ), non è. però, in alcun modo ciò che noi, (secondo una concezione sempre più diffusa) siamo abituati a considerare come un linguaggio: cioè la parola significante, come mezzo di una comunicazione che trasmette un messaggio da un soggetto a un altro. Una tale concezione del linguaggio è, anzi, espressamente rifiutata da Benjamin come «concezione borghese della lingua,., la cui «inconsistenza e vacuità» egli intende, appunto, mostrare (11,1,144). Di fronte a questa, la pura lingua dei nomi sta come esempio di una concezione della lingua che «non conosce alcun mezzo, alcun oggetto e alcun destinatario della comunicazione» (ibid.). Il nome, come «più intima essenza del linguaggio stesso,. è ciò «anraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua comunica ·se stessa assolutamente. Nel nome, l'essenza spirituale che si comunica è la lingua» (ibid.). Per questo, Benjamin può definire ancora il nome come eia lingua della lingua (dove il genitivo non esprime la relazione del mezzo, ma quella del medium)» (ibid.). Lo statuto di questa lingua adamitica è, dunque, quello di una parola che non comunica niente. all'infuori di se stessa, e in cui, pertanto, essenza spirituale e essenza lingui- • ooin. nma o,a Beniamino,ggi Giorgio Agamben, Cesare Cases, Gianni Vauimo Una tale lingua, infatti, non ha un contenuto, non comunica degli oggetti attraverso dei significati, ma è, invece, perfettamente trasparente a se stessa: «Un contenuto della lingua non esiste; come comunicazione, la lingua comunica un essere spirituale, cioè una comunicabilità pura e semplice» (II, I, 145). Per questo non può esistere, nella pura lingua, quel problema dell'indicibile (come «contrasto fra il proferito e il proferibile da una parte e l'indicibile e l'improferito dall'altra,. - II, 1,146 -) che caratterizza il linguaggio umano. Qui la filosofia del linguaggio ha il suo punto di contatto con la religione nel concetto di rivelazione, che non conosce l'indicibile. Il peccato originale, che scaccia l'uomo dal paradiso, è, innanzitutto, la caduta del linguaggio da questa lingua dei nomi insignificante e perfettamente trasparente nella parola significante come mezzo di una comunicazione esteriore: «La parola deve comunicare qualcosa (al di fuori di sé)1t, scriveBenjamin, «questo è il peccato originale dello spirito linguistico... In quanto l'uomo esce dalla pura lingua dei nomi, egli fa della lingua un mezzo (di una conoscenza ad esso inadeguata) e quindi anche, almeno in parte, un mero segno; e ciò ha più tardi come conseguenza la pluralità delle lingue,. (II, I, 153). E ' questa condizione decaduta del linguaggio, sancita dalla confusione babelica delle lingue, che il saggio del 1921 sul Compito del traduttore ci presenta nella prospettiva di una sua redenzione messianica. Qui la molteplicità delle lingue storiche è colta nella sua tensione verso quella pura lingua che il saggio del 19I6 presentava come la loro origine paradisiaca e che appare. ora. come l'inteso unico che ogni lingua, a suo modo, vuole dire. «Ogni parentela sovrastorica delle lingue» scrive Benjamin «consiste in ciò che in ciascuna di esse, presa come un tutto, è intesa una unica e medesima cosa, che tuttavia non è accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni che si integrano a vicenda: la pura lingua,. (IV,1,13). Questo inteso unico rimane nascosto nelle singole lingue in attesa di affiorare dall'armonia di tutte le lingue in quella che Benjamin definisce eia fine messianica della loro storia». Come la storia tende al suo compimento messianico, cosi il movimento linguistico nel suo complesso tende verso «uno stadio ultimo, definitivo e decisivo di ogni struttura linguistica» (IV,l, 14). Compito del filosofo, come del traduttore, è, infatti, la «descrizione» e il «presentimento,. di quest'unica lingua vera, che cerca di «esporsi• e «costituirsi» nel divenire delle lingue. E, alla fine del saggio, questa pura lingua è descritta nella figura decisiva di una «parola senza espressione,., che si è liberata dal peso e dall'estraneità del senso: «Liberarla da questo senso, fare del simboleggiante il simboleggiato stesso, riottenere al movimento linguistico forgiata la pura lingua, è l'unica e possente capacità della traduzione. In questa pura lingua, che non vuol dire più nulla (nichts mehr meint) e non esprime più nulla (nicht mehr ausdruckt), ma come parola senza espressione e creatrice è l'inteso di tutte le lingue, ogn, comunicazione, ogni senso e ogni intenzione raggiungono una sfera in cui sono destinati ad estinguersi,. (IV,l,19). Come dobbiamo intendere questa «parola inespressiva,., questa pura lingua in cui ogni comunicazione e ogni senso si estinguono? Come pos- .siamo pensare - perché questo e nulla di meno che questo è il compito che si apre a questo punto al pensiéro - una parola che non vuol più dire, che non si destina più al tramandamento storico di un significato? E in che senso questa parola - che avrebbe necessariamente spento la confusione babelica dei linguaggi - potrebbe fornirci il modello di quella lingua universale dell'umanità redenta, che «è immediatamente compresa da tutti gli uomini come la lingua degli uccelli è compresa dai nati di domenica»? Come può, cioè, l'uomo puramente parlare, comprendere la parola senza le mediazione del significato? Tutte le lingue storiche, scrive Benjamin, vogliono dire la pura lingua. Essa è l'inteso (das Gemeinte ), ciò che è voluto dire in ogni lingua; d'altra parte essa stessa non vuol più dire nulla, in essa cessano ogni senso e ogni intenzione. Potremmo dire, cioè, che tutte le lingue vogliono dire la parola che non vuole dire. Cerchiamo di pensare fino in fondo il paradosso di questa formulazione dell'inteso. Benjamin scrive che «in ciascuna lingua presa come tutto è intesa una sola e medesima cosa, che non è tuttavia accessibile a nessuna di esse singolarmente, ma solo alla totalità delle loro intenzioni che si integrano a vicenda» -(IV,1,13). Ciò che resta indicibile e non detto in ogni lingua è, dunque, proprio ciò che essa intende e vuole dire: la pura lingua, la parola inespressiva. Ed è questo permanere non detto dell'inteso che sostiene e fonda la tensione significante delle lingue nel loro divenire storico. Il piano della lingua dei nomi-la cui distinzione dal discorso abbiamo visto inaugurare la coesione di storia e lingua - è l'inteso che le lingue si tramandano senza riuscire mai a portarlo come tale alla parola: esso è. cioè. (in questo modo possiamo ora interpretare il mito biblico della perdita del linguaggio edenico) ciò che destina le lingue molteplici al loro movimento storico. Esse significano, hanno un senso, perché vogliono dire; ma ciò che vogliono dire - la pura lingua - resta in esse non detto. e osi dialettico è il rapporto fra le '.°olteplici_lingue sto_richee il loro inteso umco: per dirlo, esse dovrebbero cessare di volerlo dire, cioè di tramandarsi in significato: ma questo è precisamente ciò che esse non possono fare - a meno di non abolire se stesse-perché è accessibile solo alla totalità delle intenzioni linguistiche, cioè al loro compimento messianico. Per questo Benjamin scrive che «altra soluzione che temporale e provvisoria (all'estraneità delle lingue), una soluzione istantanea e definitiva di questa estraneità resta vietata agli uomini o non è, comunque, perseguibile in modo immediato• (IV,1,14). Ciò non significache ci troviamo qui di fronte a una dialettica infinita. Mediamente (come Benjamin scrive per la religione, «che matura nelle lingue il seme nascosto di una lingua più alta» - ibid.) questo co.mpito è possibile e reale. La lingua universale e senza espressione si «costituisce» e si «espone» nel divenire storico delle lingue. La sua costituzione spegne, però, definitivamente ogni intenzione linguistica e elimina l'indicibile che la destinava al tramandamel)tO storico e alla significazione. In quanto la pura lingua è l'unica che non vuole dire,ma dice, essa è anche l'unica in cui si compie quella «cristallina eliminazione dell'indicibile dal linguaggio,. che Benjamin evoca in una lettera a Buber del luglio I 916 (Br. 127). Essa è veramente eia lingua della lingua»,oehesalva l'intenzione di tutte le lingue e nella cui trasparenza la lingua dice, finalmente, se stessa. (...) In questa perfetta trasparenza della lingua, in cui è venuta meno ogni distinzione fra il piano dei nomi e quello delle parole significanti, fra il voluto dire e il detto, sembra veramente che le lingue - e, con esse, ogni cultura umana, siano giunte alla loro fine messianica. Ma a finire, qui, sono soltanto una determinata concezione della lingua e una determinata concezione della cultura: quelle a cui siamo abituati che fondavano ogni divenire e ogni tramandamento storico sulla immedicabile scissione fra cosa da trasmettere e atto della trasmissione, fra nomi e parole, e garantivano, a questo prezzo, l'infinità e la continuità del processo storico (e linguistico). Contro questa concezione Benjamin si è espresso senza reticenze quando ha scritto che il passato deve essere salvato non tanto dall'oblio o dispregio in cui esso è tenuto, quanto «da un determinato modo della sua tradizione», e che «il modo in cui esso è stimato come un'eredità, è più nefasto di quanto potrebbe esserlo la sua scomparsa». O, ancora, che «la storia della cultura aècresce il peso dei tesori che gravano sulle spalle dell'umanità. Ma non le dà le forze di scuoterseli di dosso e quindi di prenderli in mano•. Qui, invece, l'umanità ha preso veramente in mano i suoi «tesori»: la sua lingua e la sua storia, la sua lingua-storia, vorremmo dire. La scissione del piano del linguaggio, che fondava l'inestricabile intreccio di lingua e storia e, nello stesso tempo, garantiva la loro asintotica impossibilità di coincidere, viene meno e lascia ora il posto a una perfetta identità di lingua e storia, di prassi e parola. Per questo la storia universale non conosce più un passato da trasmettere,

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==