Rellal,etturi,,.dneel gativo Franco Rella, D silenzio e le parole. D pensiero nel tempo della crisi Milano, Feltrinelli, 1981 pp. 202, lire 10.000 Massimo Cacciari Dallo Steinhof. Prospettive viennesi del primo Novecento Milano, Adelphi, 1980 pp. 258, lire 9.000 Gianni Vattimo Le avventure della differenza Milano, Garzanti, 1980 pp. 201, lire 7.500 11silenzio di cui Franco Rella tratta nel suo ultimo libro è quello della cultura austro-mitteleuropea del primo Novecento, la quale viene ad esperire nel tramonto del linguaggio metafisico l'impossibilità di affermare «l'unità etica della kultur, della civiltà» (Il silenzio e le parole, p. 17); è il limite che il Wittgenstein del Tractatus risolve nell'orizzonte del Mistico e che Weininger tenta disperatamente di infrangere nell'etica eroico-paradossale della trasgressione e dell'autoannientamento. Testimoni impietosi del disagio di fronte ad un mondo che ha cessato di essere spiritualmente significativo, tenaci sentinelle del Nulla e fedeli custodi dell'ineffabile, minuziosi archivisti dell'Effimero e - insiemeappassionati difensori e vigili guardiani dell'Eterno, i protagonisti della «grande crisi» - da Wittgenstein a Hofmannsthal e Rilke, da Weininger a Musi! e Heidegger - vengono assunti, all'interno di un quadro analitico che non trascura di porre in luce le consistenti differenze esistenti tra le loro opere, quali termini di riferimento di un percorso teorico che conclude il senso della cultura classica, sino a pronunciarne l'ultima parola, forse persino la più alta e la più difficile: quella che decreta, appunto, il silenzio. del Valore, compiendo nella disperata perfezione dell'Indicibile le grandi utopie di un Kant o di un Goethe. li silenzio e le parole: il progetto teorico di Rella si enuncia e si chiarisce sin nel titolo del libro. Dire-per poter governare e comprendere-ciò che nel linguaggio della Ragione unitaria rimaneva innominato e innominabile. elaborare nuove forme di rappresentazione capaci di dar voce a quella crisi che il «pensiero negativo» si limitava ad accogliere nelle sue impietose e ad un tempo sbigottite radiografie dell'Orrore (basti pensare - per far solo un esempio - alle prime pagine del Malte rilkiano ), nominare i conflitti che attraversano lo spazio sociale, i soggetti, la storia, allo scopo di «avere ragione» della pluralità irriducibile in cui il reale consiste, senza pretendere - come ancora i «classici»- di risolvere e ordinare una simile molteplicità nel quadro di una prospettiva sintetica volta all'assorbimento delle contraddizioni, ma senza volere, d'altra parte, esorcizzarla o rimuoverla, mettendola (illusoriamente) a tacere attraverso il gesto impotente dell'esclusione o l'insensata apologia del rifiuto. Il destino tragico di Weininger può venire assunto, in questo orizzonte, quale cifra emblematica di tutta una cultura annichilita di fronte all'emergere di una differenza senza nome; negatività pura, ossessione fantasmatica, seduzione perversa della follia e del male, essa sradica e trascina via, precipitando la parola nei vortici dell'assenza, attirando la vita stessa verso la pienezza illusoria della morte. «La 'donna' e !"ebreo', simboli e figure della differenza e quindi della crisi dei valori della cultura e della civiltà della razionalità classica, conducono, nel testo di Weininger, all'abisso del nulla, all'insensato che spinge a trovare senso e significato altrove, fuori del mondo, o nella morte» (p. 12). Infrangere il circolo vizioso al quale una simile negatività assoluta condanna il linguaggio, oltrepassare i limiti che essa impone senza peraltro illudersi di poterli spezzare attraverso la risoluzione di un «gesto» nullificante puramente-trasgressivo, significa- per Rella - rilanciare, al di là della crisi della cultura classica e oltre il naufragio delle sue «grandi parole», il «progetto» della ragione, il progetto di un sapere critico capace di costruirsi incorporando i conflitti e le differenze. lavorando a mosaico su frammenti e detriti di un reale assolutamente contraddittorio e stratificato, il quale si lascia decifrare e comprendere solo da chi sia disposto a riconoscerne l'intima complessità. Ma d'altra parte (equesto è il punto più significativo, quello su cui occorre insistere), un simile progetto non sembra orientato verso la definizione di una razionalità plurale secondo il modello elaborato nel quadro delle epistemologie post-classiche o in alcune aree specifiche del «sapere della crisi» (per quanto riguarda il dibattito italiano, pensiamo sorattutto alle proposte teoriche di Massimo Cacciari). Alessandro Allori I n un contesto problematico nel quale la separazione weberiana del nesso mezzi-fini viene fatta interagire con la dicotomia instaurata dal «primo» Wittgenstein tra la sfera dei fatti e l'ambito dei valori e con la definizione heideggeriana della Tecnica quale orizzonte epocale del mondo moderno, lo sviluppo della «ragione divisa» viene ad essere subordinato- in autori come Cacciari- alle funzioni di governo che essa è in grado di esercitare in quanto trama articolata di saperi specialistici e apparati scientifici di dominio. (Cfr. soprattutto Krisis e Pensiero negativo e razionalizzazione). Nell'ambito di questi riferimenti critici ciò che viene innanzitutto sottolineato ed esaltato è il ruolo tecnico-produttivo della «razionalità moltiplicata», la sua capacità di liberarsi dall'ipoteca dei fini e dei valori, la sua tendenza a lavorare «in borghese», al di fuori di qualsiasi pregiudiziale assunzione metafisica relativa allo statuto ontologico dei suoi oggetti, nella disincantata accettazione dei limiti che definiscono i domini regionali dei saperi in cui essa si trova inscritta. La ragione in tale modo viene ad articolarsi in rete di autonomie e in sistema di competenze professionali, le quali si accompagnano a loro volta ad una segmentazione sempre più spinta delle pratiche di ricerca e ad un crescente processo di specializzazione dei linguaggi scientifici. In virtù dell'alto livello di complessità che li contraddistingue, ma soprattutto ed essenzialmente a causa della loro specificità concettuale e metodologica, questi ultimi risultano in ampia misura autonomi- reciprocamente intraducibili - e non possono pertanto essere assunti quali articolazioni settoriali di Rusalbu Carrit'ra un codice unitario. Il processo di legittimazione e di ordinamento dei linguaggi non si svolge più sulla base di strategie fondazionali e progetti sintetico-compositivi di tipo enciclopedico, bensì piuttosto si compie attraverso l'assimilazione degli apparati di produzione e riproduzione del sapere entro i quadri istituzionali predisposti all'organizzazione della ricerca scientifica; in tal modo il «sapere» è posto in rapporto di stretta vicinanza e in stato di costante tensione rispetto alle istanze progettuali del Politico, il quale si incarica di governare la separatezza e la dispersione degli strumenti di indagine tecnico-scientifica del reale. Ciò che ordinariamente suole intendersi mediante il concetto di progresso, viene gradualmente a perdere quelle connotazioni di tipo etico che esso manteneva nell'ambito di una definizione propriamente filosofica, e si definisce ora piuttosto sul terreno della mera efficacia produttiva deJle pratiche conoscitive, in relazione agli effettivi processi di crescita, trasformazione, innovazione e sviluppo dei linguaggi. È il dispiegarsi deJla razionalità strumentale in quanto nuda volontà di potenza ciò che qui viene affermandosi; e - ancora una volta- una simile affermazione si produce sul silenzio del Valore (Krisis di Cacciari espone costantemente questa indicibilità), la ragione «divisa> e plurale non essendo altro - da questo punto di vista-che il compimento di quel progetto metafisico di certificazione dell'esistente che Heidegger ha indicato come «destino» di tutta la civiltà occidentale. Operare e «fare silenzio>, comprendere il divenire della ragione nel suo infinito processo di articolazioneinnovazione-sviluppo e tacere sul «resto>, ben ~apendo che «ciò ch'è più alto> per dirla con Wittgenstein «non rivela sé nel mondo>. Il percorso che è stato qui brevemente delineato nel tentativo di tracciare a grandi linee le vicende e gli sviluppi della «ragione divisa>, mi sembra possa convenientemente illustrare l'ordine dei problemi con i quali il saggio di Rella viene a misurarsi. La critica svolta da Rella ai fondamenti epistemologici dello «strumentalismo razionalistico> può essere riassunta in due punti essenziali: (a) innanzitutto egli insiste, piuttosto che sul carattere meramente disseminativo dei linguaggi e delle tecniche, sulla dimensione conjliltuale deJle forze in gioco entro i processi di rappresentazione, una dimensione che si rivela «all'interno di ogni manifestazione propriamente significante>. «Costruire» come ha fatto Freud «un sapere in grado di rappresentare il conflitto>, «destrutturare i decreti di una razionalità che invece lo escludeva>, canalizzare questi stessi decreti che nel momento stesso in cui escludevano la contraddizione, in qualche modo dovevano mostrarla> (p. 200): tutto ciò costituisce, per Rella, il compito prima del «sapere della crisi>. Piuttosto che sull'autonomia delle tecniche, egli insiste con forza sulle resistenze, le incidenze reciproche, gli intrecci che la dinamica conflittuale dei saperi costantemente produce. Occorre tuttavia rilevare che questa critica non può essere completamente rivolta - né del resto ciò è fatto, se non indirettamente, nel testo di Rella - contro le posizioni teoriche di Cacciari il quale, se da un lato è assertore convinto dell'autonomia degli specialismi, dall'altro mostra di non intendere tale autonomia come assoluta, ed individua invece nella conflittualità di cui Rella parla un fattore decisivo del processo di trasformazione dei linguaggi (in particolare, su questo aspetto del problema, v. di M. Cacciari e G. Franck il saggio Politica e specialismi, di imminente pubblicazione su Critica marxista). (b) Il secondo punto, in buona parte collegato con quello ora esposto, si rivela comunque più complesso e viene a mostrare una maggiore densità problematica. Come si è detto, Rella rifiuta la separazione wittgensteiniana «classica> tra cii linguaggio dei fatti> e «il silenzio dei valori>, tutta giocata sugli opposti versanti della «strumentalità operativa> e del Mistico. Ciò significa che la «nuova ragione> di cui egli parla deve in qualche modo incorporare al suo interno i «valori>, sottraendoli alla dimensione di etemi_tà entro cui essi si affermavano nell'orizzonte della metafisica. I «valori> dunque sono detti, parlati, agiti; essi vivono il destino della caducità il cui tempo investe e attraversa tutto lo spazio della nostra crisi. Il «sapere dell'emergenza> - i cui artefici, per Rella, sono innanzitutto Benjamin e Freud- li costruisce, li pone, li decide, senza per questo consegnarli all'immobilità spettrale del cretromondo>, né taotomento racchiuderli nell'intangibile scrigno del silenzio. La ragione critica di cui si parla viene .dunque investita da domande propriamente filosofiche (come del resto essenzialmente filosofico è il progetto di un «nuovo sapere> e di una «nuova razionalità>. In un simile quadro di riferimenti, nozioni e categorie classiche - tipiche della filosofia - quali «soggetto>, «decisione>, «scelta>, «valore>, non sono giudicate concettualmente neutre o vuote, né tantomeno vengono risolte in termini meramente tecnicooperativi, in un dominio di pure equivalenze. Esse vanno piuttosto tradotte e costruite (per usare un termine caro a Rella) all'interno di un altro linguaggio, in un'altra ragione, in un quadro epistemologico capace di accettare la «sfida della precarietà> e di accogliere entro i propri domini tutta la fragilità e caducità dei nostri assetti culturali e sociali (p. 123). e ostruire un sapere «dalle vie trave~> composto di ~l~oni precane, sottoposto a cnten sempre revocabili, che non consentono in alcun modo una decisione definitiva (pp.
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