Alfabeta - anno III - n. 26/27 - lug.ago. 1981

Cfr. Walter Burkert Homo necans «Antropologia del sacrificio cruento nella Grecia antica» Torino, Boringhieri, 1981 pp. 304, lire 25.000 Prima del volume va segnalata la collana, che il volume inaugura, diretta da Mario Vegetti e sostenuta da un illustre comitato scientifico: si tratta di un'operazione culturale che nasce dal privilegio dato al punto di vista interdisciplinare. Etologia, antropologia, psicanalisi vengono qui utilizzate da un grande storico e filologo della Grecia antica allo scopo di mettere bene in luce come tutta la ritualità religiosa del mondo greco ha le sue radici, i suoi modelli in epoca addirittura neolitica, quando l'uomo per vivere cacciava e uccideva. Come si sa, l'antropologia, soprattutto dopo la fusione di metodo strutturale e storico, si è configurata come nuova scienza dell'uomo, influenzata anche dalla teoria della modellizzazione e del valore segnico dei riti propria della semiotica. Walter Burkert con grande rigore filologico dimostra come l'uomo cacciatore, necessariamente homo necans, è accompagnato da un senso di colpa che scaricherà a poco a poco in moduli comportamentali che sono in definitiva dei riti, passabili di funzione religiosa. La tendenza a ritualizzare non è solo umana: vedi lo starnazzo della coppia di oche selvatiche che non ha più bisogno di un nemico esterno per essere scatenato. Cosl l'uomo, quando non avrà più bisogno di vivere di caccia, ne continuerà il modulo comportamentale ritualizzando l'uccisione e dandole un significato religioso nei sacrifici che accompagnano le antiche feste. Come siamo lontani dalla visione razionalistica soltanto e apollinea della società greca! E come diventa chiara la precedenza dei riti sui miti: si legga l'affascinante capitolo sui riti di uccisione, sulla sessualizzazione dei riti funebri. A poco a poco lo studioso, attraverso l'esame del sacrificio arcade, del mito di Licaone e dei lupi mannari, ci guida lentamente alle illustri feste greche, le Panatenee, le Lenee, le Antesterie, le Dionisie, le Targelie e via di seguito, feste che scandiscono il ritmo della natura e nello stesso tempo della vita sociale, cioè un ritmo di natura socializzata. L'atto religioso per eccellenza, cioè il sacrificio cruento, ne esce come gr.andioso segno di un tragico destino umano. Maria Corti Lilli Dalle Nogare e Luisa Finocchi (a cura di). Nascere, sopravvivere e crescere nella Lombardia dell'Ottocento Milano, Silvana Editoriale, 1981 pp. 215, s.p. Ma che fatica facevano a stare al mondo le madri e i bambini nella noJ stra avanzata e luminosa Lombardia dell'Ottocento! Questa è la prima riflessione di chi osserva il bellissimo volume edito dalla Regione Lombardia a documento sociale e storico, costruito con una ricca serie di testimonianze scritte e pittoriche, oltre che di fotografie per l'epoca meno lontana. Si parte dalla nascita, cioè dal parto, documentato (come tutto del resto) ai vari livelli della vita sociale di allora; le donne partorivano in casa salvo le «miserabili partorienti segrete, nubili o vedove, rimaste incinte per illegale commercio»; è detto tutto: Costoro, le poverine, finivano nei piccoli reparti ostetrici degli ospedali. Naturalmente i figli nati in tali condizioni venivano «esposti». Il fenomeno dell' «esposizione» infantile sui sagrati delle chiese, nelle strade, presso· gli ospedali, era diffusissimo in una società che rifiutava in modo assoluto le madri nubili; si aggiungano le povere madri contadine che, arrivate al quinto o sesto figlio, occupate in campagna o in filanda, abbandonavano i neonati alla «ruota», di cui a Milano era famosa quella dell'ospizio di Santa Caterina. Non molto più brillante l'avvenire dei figli cresciuti in famiglie povere: la legge Casati si occupava della loro istruzione elementare, ma i genitori ne avevano bisogno in campagna e non potevano condividere l'affermazione di Carlo Tenca «L'istruzione è necessaria ormai come il pane»; eh no, il pane per chi non ne ha non tollera paragoni. Impressionante la sorte dei bambini nel processo di industrializzazione e il loro pericoloso utilizzo; per non parlare del lavoro nelle tipografie, per esempio quella della ditta Fratelli Treves: ragazzi di dieci anni in piedi dieci ore al giorno in locali insalubri, donde il sacrificato sviluppo fisico e la morte prematura (secondo le statistiche del 1876-1880) a 30-35 anni. Questo libro giova a ricostruire una memoria storica, indispensabile a ogni collettività che voglia acquistare un'autentica cultura, che è prima di tutto coscienza della propria identità passata e presente. m. c. «Antropologia, filosofia, ideologia» numero speciale di Materiali filosofici, 3, 1980 Milano, Franco Angeli editore pp. 346, lire 10.000 Da un paio d'anni Fulvio Papi lavora al rilancio di questa rivista di «filosofia» il cui polo di riferimento è l'università di Pavia ma che sta allargando sempre più l'ambito def collaboratori, e di pari passo le proprie ambizioni culturali. Non da oggi, ma oggi anche grazie al dinamismo delle nuove iniziative (alla rivista si può affiancare l'attività della Scuola di perfezionamento), la Pavia filosofica è centro di scambi teorici davvero non secondario. Ciò è in relazione stretta con il modo particolare di intendere la ricerca filosofica, e proprio per questo ho scritto la parola con le virgolette, perché filosofia per il gruppo di Papi non è un terreno specialistico e recintato bensl un luogo di intersezioni disciplinari: luogo la cui densità teorica si può cogliere nella nozione di «pratiche simboliche», che è un tentativo di arricchire la nozione marxiana di pratica. Economia e politica, in altri termini, non possono restare né linee separate né i referenti unici: anzi, perdono la loro limitata autonomia se tra esse vien fatto correre il fascio dei comportamenti simbolici e dei saperi quotidiani. Per esempio, .l'antropologia come ricerca della cultura mitico-rituale, ecc., si rivela un campo privilegiato, e tra antico e moderno (o postmoderno) non viene tracciata una secca demarcazione: l'interesse è, al contrario, in direzione dell'approfondimento delle specificità e della possibilità degli scambi di opportunità conoscitive. Questo impegnativo fascicolo dà conto di tali intenzioni. Il lettore vi trova ricerche vere e proprie (Remotti, Cardona, Meillassoux, Picon, Amselle e Le Bris), testi di taglio critico orientativo come quello iniziale di Augé o i conti che fa Copans di fronte ai silenzi del marxismo verso l'antropologia, e infine chiavi di lettura dell'intera iniziativa. Mi riferisco in particolare alle pagine di Mario Vegetti sul modello greco: se Detienne ironicamente (ironia verso una tradizione inveterata) ebbe a dire una volta che" i greci non sono come gli altri», Vegetti con una punta di paradosso riprende la frase sul serio. Pensando davvero che i greci non sono come gli altri, avremo un doppio vantaggio metodologico: segnare la distanza che ci deve essere tra noi e quella cultura, e segnare anche la distanza (la cui mancanza è altrettanto o anche più insidiosa) dei greci da se stessi. Con ciò Vegetti vuole segnalare sia il proprio interesse per le ricerche parigine (Detienne, Vernant) che rimandano al filone LéviStrauss, sia però l'esigenza di prendere un distacco critico, non dimenticando il filone di antropologia sociale (di matrice weberiana). Si tratta, cioè, di elaborare, anche con spregiudicatezza, non di tralasciare, le ragioni della ricerca storico-materialistica. Un po~to a sè nel fascicolo ha, infine, il saggio dello stesso Fulvio Papi su La morte e il simbolico. Misurandosi con Baudrillard, ma allargando l'orizzonte con una ricchezza di riferimenti storici, Papi riconosce che nella nostra vita sociale la morte è occasione di «scarsa circolazione simbolica». Però, secondo l~i, sarebbe irrealistico pensare a un possibile risarcimen_tosimbolico: in una società dominata dalla «massima utensilità» il simbolico assomiglierà sempre più alle operazioni tecniche. «Se l'avvenire sarà peggiore non so dire», conclude: certo, cresceranno le pratiche collettive per unà morte accettabile e il divario tra «servizio sociale della morte» e «cordoglio privato» avrà una diminuzione sensibile. Pier Aldo Rovai/i Gizeh I Rivista di Filosofia e Poesia L. Ballerini & R. Milazzo, Eds Torino, Out of London Press, 1981 Talvin/Smagliature nn. O e I. Cosenza, 1980-1981 «La poesia segnala la sutura tra la logica formale e l'evento». Cosi inizia la presentazione della nuova rivista internazionale di Filosofia e Poesia (questo il sottotitolo) Gizeh, a firma di Luigi Ballerini e Richard Milazzo. Sorvoliamo sulla logica formale, la sutura. E atteniamoci, invece, all'evento che l'uscita della rivista rappresenta. Già per l'apertura. Sin dall'inizio la OOLP è nata due (paradossale a tal proposito la sua sol itudine orgogliosa), tutte le sue pubblicazioni, cioè, con programmatica determinazione, sono bilingui (italianoinglese ). Con Gizeh le lingue salgono a tre, il francese in più. Tre luoghi dunque, per adesso, di esilio privilegiati della poesia. Sul contenuto, due parole. La parte italiana è «occupata» da Ballerini, . appunto, e assieme a lui, in ordine alfabetico, Nanni Cagnone, Angelo Lumelli, Raffaele Perrotta e un innesto, il pittore Claudio Olivieri - doppiamente presente - con la mise en page della rivista (copertina e design) e alcune riflessioni in stile eleatico (l'infinito non sfugge, ci insegue. Dice.) Ovvio, il campione qui,presentato non vuole rappresentare «la» poesia italiana, nemmeno una parte. Ma ne delimita un luogo particolare, una zona di confine. Per la parte straniera, ora. Gli interventi variano dalle poesie al poema in prosa alla riflessione epistemologica o anche una mischnug dei tre, come nel caso di Eugene Nicole che scrive, così mi è sembrato, di «trascendenza selvaggia», di «geometria carnale», di Wittgenstein, di Cavalcanti ecc; un contributo sull'oscenità; un Jacques Garelli tenero e scorticato; un Pierre Lartigue furiosamente prosastico (vuole rendere conto solo «il più inesatto possibile» delle cose); Richard Milazzo, essenziale, in esilio tra uno specchio opaco e uno abrupto; Lione! Ray presente con tre letture di Hubert Juin («un morso nell'alba che discende») e altri notevoli contributi di Louis Oppenheim, Rosa Maria Salamone, Nicki Tillingast, Carolyne Meredith Heard. Un altro segnale, e di tutt'altro genere, ci giunge invece dalla Calabria. Un foglio eliografato di poesia no·made, senza statuto né destinazione. Sono già «usciti» due numeri con testi di Marcello W. Bruno, Massimo Celani, Raffaele Deluca, Franco Dionesalvi e il sottoscritto. Le illustrazioni, per il primo, sono di Mario Del Vecchio e ·per il secondo di Tonino Sicoli. Se qualcuno è interessato lo può chiedere a: Red. di Talvin/Smagliature, Corso Mazzini 51, 87100 Cosenza. Costa 1500 lire. Vincenzo Bonazza Giovanni Giudici D ristorante dei morti Milano, Mondadori, 1981 pp. 136, lire 10.000 Credo che per valutare meglio l'ultimo libro di Giovanni Giudici che dà subito un'impressione «generale» di riuscita (dunque per confermare o diminuire questa prima impressione), occorra liberarsi da certe sue persistenti opacità, da certi luoghi comuni che, mi sembra, possano funzionare solo nell'ultimo Montale (per es. «La vita verapovero cappello demodé I Nella minestra dove ci stanno rimescolando.») e anche da alcuni infelici tentativi di chiusura (per es. «-e poi /Te nella strada come se nulla erastato.», oppure: e - ti disegno, ti scrivo I Vuoto del corpo assente», di cui rimane l'impressione di un cattivo gioco di parole e di un vuoto linguistico provocato da un'irrecuperabile usura dell'assenza). Ma i libri di Giudici sono sempre percorsi da ferite banali che l'autore sembra autoimporsi quasi fossero il necessario pedaggio per percorrere quella via media o mediana che la lunga crisi della poesia tenta di praticare quasi per un istinto di sopravvivenza. Il progetto di Giudici è una storia di pietosa/impietosa autoriduzione. Ha scritto con acume Geno Pampaloni: «Nell'atto medesimo con cui il poeta, nell'astuzia del suo esprimersi, pronuncia la sua autonomia dalla vita e dalla società senza poesia, egli rinfaccia alla vita la sua povertà di poesia.> Ma si potrebbe anche dire, con un piccolo spostamento: egli rinfaccia alla poesia la sua povertà di vita. Nessuno, forse, oserà sostenere che il nostro sia ancora il tempo dei Grandi Progetti, ma occorre certo discutere se la nostra povertà media debba necessariamente ridurci alla nostalgia di un ordine invece che costringerci a trovare le forze per viaggiare al di sopra della media imposta (va notato che una sezione del libro s'intitola appunto L'ORDINE, che mi pare dovesse essere il titolo generale dell'opera, cambiato all'ultimo momento ne Il ristorante dei moni, che troppo sottolinea la riduttività perfino metafisica del progetto di Giudici). Ciò che invece persuade appieno 1 nell'opera di Giudici è la guizzante capacità di sfuggire alla sua stessa , «media» per merito, soprattutto, di I una molto godibile abilità tecnica, che corre soltanto il rischio, in certi punti, di diventare disinvoltura o distrazione, quasi fosse il rimorso a prevalere, quel rimorso che il citato Pampaloni mette in campo cosi: «L'ordine cui ora (Giudici) si richiama ... al cospetto della storia, alla vita cosi com'è, è un invito al rimorso.» Pampaloni sa che un artista non deve avere rimorsi, se non verso la propria opera, e le sue parole a me suonano riduttive, e specularmente cariche di imbarazzanti rimorsi critici, proprio perché l'opera in versi di Giovanni Giudici conquista e mantiene, nei momenti di felice incandescenza, una sua «piccola» musica liberatoria. Antonio Pona

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