Alfabeta - anno III - n. 24 - maggio 1981

Postmoderno/Moderno (4) Piranesei il fluiredelnuovo Manfredo Tafuri la sf'erae il labirinto Torino, Einaudi, 1980 pp. 371, lire 35.000 Paolo Portoghesi la fine del proibizionismo Catalogo della prima mostra internazionale di architettura della Biennale di Venezia 1980. Ed. La Biennale di Venezia, lire 20.000 Francesco Dal Co «Acuminate sono le spine del moderno», in Il manifesto, 1/10/1980 Franco Pierluisi «Le manifestazioni piranesiane a Cori», nel catalogo Piranesi nei luoghi di Piranesi Roma, Ed. Fratelli Palombi, 1979 U n dibattito approfondito su «post-moderno» e «moderno• deve contenere anche il riferiment~ critico-teorico (magari polemico) a testi di fondo come il recente libro di Manfredo Tafuri, La sfera e il labirinto (Torino, Einaudi, 1980). Per Tafuri funzione della critica è in primo luogo ricostruire l'avvenimento, come montaggio di pezzi differenti, composto di «piccole verità non appariscenti». Altro assunto cruciale è l'affermazione che il progetto storico è sempre progetto di crisi: «L'autentico problema è come progettare una critica capace di porre di continuo in crisi se stessa, mettendo in crisi il reale». Progettare :... crisi dunque, e la crisi della critica, affinché quest'ultima non ceda alla tentazione di credersi progetto positivo, utopia fondatrice in un mondo in cui si sono dissolti i fondamenti. Va subito osservato che in questa apparente modestia, nella rinuncia a modelli totalizzanti di razionalità e progettualità, insiste un 'idealistica fiducia nella possibilità di mettere in crisi il reale attraverso la coscienza della crisi. Ma l'interrogativo più specificamente architettonico che ci si può porre è un altro: perché l'opera d'arte va smontata e non invece considerata nella sua unitarietà (punto di equilibrio e di precarietà fra tensioni) e nel suo rapporto contraddittorio con la storia? on si rischia così - con il duplice pretesto dell'interminabilità dell'analisi e della messa in crisi del progetto - di rinunciare programmaticamente a ogni compito di trasformazione del reale, legittimandolo così com'è? Tafuri riprende qui il mito della morte dell'arte, del grande silenzio in cui si conclude il fallimento di tutti i tentativi delle avanguardie storiche e che verrebbe oscenamente violato dai giochi effimeri de_lpost-modem. Gli si potrebbe rispondere come il giovane Mahler al vecchio Brahms che gli profetizzava la fine della musica guardando il fiume dal ponte: qual è l'ultima onda? A guardar bene, poi, il senso della morte dell'arte, in un universo omologato dall'onnipresenza del dominio, starebbe nella tendenziale «trasformazionedell'attivitàartisticainlavoro direttamente inserito nell'organizzazione produttiva». Qui si dà un'oscillazione fra vocazione al silenzio, carica peraltro di comprensione per l'lnternational Style (se ne veda un'evidente riprova nell'intervento giornalistico di Dal Co), e l'aspirazione a farsi carico di una quota del dominio, come ai bei tempi andati in cui l\,peraismo di destra integrato nel Pci scopriva g!i specialismi (e Tafuri cantava le lodi dell'austerità al convegno dell'Eliseo del npn poi cosi remoto 1977). Fallito il progetto di ammodernare il Pci all'altezza del Capitale, oggi ci si asside sulle macerie, «proibendo» qualsiasi ricostruzione. Ma vediamo per scandagli come nella Sfera e il labirinto alcuni episodi della storia dell'architettura vengano piegati, con grande finezza espositiva e sprazzi interpretativi illuminanti, a una dimostrazione ossessiva di queste tesi di fondo. Piranesi In Piranesi si manifesterebbe una perdita del senso del centro; il suo rapporto con la storia è solo «nostalgia per la felice stagione dell'infanzia dell'umanità». In effetti egli non svolge un discorso storicistico; il rapporto fra la grandiosità del passato come reperto naturale e la piccolezza degli uomini ha un distacco «genealogico». Ma questa operazione, che si avvale della cultura settecentesca della catalogazione, non sbocca affatto, come vorrebbe Tafuri, nella distruzione frammentistica della forma, per cui la famosa ricostruzione immaginaria di Campo Ma'rzio risulterebbe assenza di linguaggio, autoconsumazione della forma, disgregazione assoluta della relazione fra storia e presente. Ora, se Piranesi è conscio della rottura industrialistica del rapporto tradizionale fra natura e cultura, è anche vero - come sostiene Franco Pierluisi in un catalogo piranesiano (Roma, Palombi. 1979) che egli coglie nell'immenso campo di rovine costituito da Roma e dalla campagna romana un esempio presente dell'agire e del comporre. Ciò che avviene attraverso il rilievo dello stato reale dei monumenti e non già di un ipotetico loro restauro. Piranesi cioè considera la storia come la serie delle trasformazioni operate dall'uomo e non semplicemente come la storia dell'architettura: non vi è rinnovazione senza la riconsiderazione complessiva del passato considerato quale reperto naturale, valore di per sé. Conclude invece Tafuri - e così si ripeterà per tutte le altre avanguardie storiche prese in considerazione - che in Piranesi nasce un'architettura «priva di significato», dove l'accettazione del negativo porta al «silenzio della forma». Piranesi segnerebbe l'avvio al declino di qualsiasi logica linguistica. alla riduzione dell'architellura a segno e costruzione arbitraria. A nostro parere meglio varrebbe considerare nel Campo Marzio quell'elemento visionario in cui sembrano confondersi l'eco del barocco borrominiano con la prefigurazione del neo-classicismo rivoluzionario di Ledoux. Né ci sembra filologicamente corrello scavalcare le affermazioni stesse di Piranesi (per es. sulla giusta distribuzione «gerarchica» dell'ornamento - uno spartiacque notoriamente invalicabile rispetto alla «morte dell'arte») o travisare le note di Eizenstein (riportate in appendice), dove la scomposizione piranesiana è genialmente affrontata in una ottica progettuale di montaggioche ricomponedialetticamente i pezzi secondo nuove gerarchie (all'opposto dei tafuriani «segni vuoti»). Nel Campo Marzio allora - se possiamo azzardare un'interpretazione - questo elemento gerarchico potrebbe essere rappresentato dall'andamento sinuoso del Tevere, che non è residuo naturalistico, bensì indica il luogo storico che organizza gli edifici piranesiani. Augus10 Illuminati e Francesco Montuori Dalla sconfitta delle avangnardie · alla New Babylon È singolare come, nel seguito del libro, si escluda sistematicamente l'analisi di quei «vertici» artistici che avrebbero costrello l'autore a deviare dal suo assunto, per privilegiare lo studio di «correnti» immediatamente commisurabili a un discorso di progettualità e fallimento: la pianificazione urba~istica weimariana e sovietica, la pluralità di usi del grattacielo, infine la rivolta post-modem contro il razionalismo. Ogni ricerca di nuovi valori artistici e culturali finisce, per Tafuri, con l'annunziare l'avvento di un universo di non-valori, l'universo tecnologico «senza qualità» dello sviluppo organizzato dal grande capitale. Contraddizione e differenza svaniscono sistematicamente riguardo sia alla forma sia al modo di produzione. Abbiamo, per cosi dire, una concezione «ultraimperialistica» applicata al campo culturale sino al punto di soffocare ogni specificaattenzioneper i percorsiformali e gli esiti artistici. Alla fine il capitalismo, più o meno dilatato e razionalizzato, resta l'unico orizzonte in cui si compie questa dinamica di annullamento dei valori e dei significati. Ne risulta l'apologia - senza aura progressista - del modernismo, sola possibile gestione architettonica del disincanto del mondo; di un modernismo privato peraltro di tutto il suo diballito interno, amputato per esempio di Wright e dello stesso Le Corbusier. L'etichetta di neo-romanticismo e di nostalgia comunitaria è pronta per qualsiasi tentativo di conferire un senso o di creare contraddizioni politicamente motivate. L'effettiva ingenuità e gli insuccessi connessi a molti di questi esperimenti (che comunque andrebbero meglio analizzati in base a una valutazione incrociata dei problemi formali e del contesto delle sconfitte dei movimenti di massa rivoluzionari) servono a ribadire terroristicamente là necessità del «silenzio» e l'indecenza di ogni pretesa di senso. oliamo anche che, a differenza di altre linee di presa d'alto dello «sterminio» del senso - per esempio Baudrillard - si preclude qui ogni riapertura «ludica» del discorso politico-culturale: insomma il «senso» è proibito quanto la «decorazione», il progetto quanto la seduzione. Insistiamo a dire che la trattazione, peraltro esemplare, del rapporto fra progetti di normalizzazioné e prefabbricazione edilizia weimariani e il libero gioco del mercato delle aree e dei materiali spiega l'impasse urbanistica in cui si arena il riformismo socialdemocratico ma non spiega le differenze fra M. Wagner, Tau! e May e neppure rende irrilevante tale questione. U sudario della filosofia negativa è posto sulla città, assemblaggio di segni neutri che rinviano, come a loro al di !à, alla pianificazione totale del capitalismo organizzato. Si dimostra così che è meglio il silenzio: per quanti ancora vogliono fare architettura non resterebbe che «utilizzare ciò che è rimasto sul campo di battaglia» dopo la sconfitta delle avanguardie storiche. Dietro questo tipo di rinuncia in realtà l'autore accetta sino in fondo la nozione di moderno e di movimento moderno. L'irrilevanza proclamata del progetto lascia in piedi la cultura della borghesia che, nella misura in cui tendenzialmente coincide con le tecniche di fabbricazione, si sottrae al circolo vizioso fra tentativi di attribuzione di significati e utopia regressiva. Le classi antagonistiche sono incapaci di emettere alcun segnale. L'utopia sociale può essere valutata soltanto come documento letterario. In realtà proprio quando si ribadisce insistentemente non è né significante né assurdo, ma semplicemente è, e quando si constata che il linguaggio dell'architettura è perversamente chiuso in se stesso, si innesta un atteggiamento nostalgico per impossibili corticircuiti fra arte e politica sul terreno di una concezione riformistica di quest'ultima. Non si ipotizza mai che la coerenza di un linguaggio, in primo luogo verificata auraverso gli strumenti specifici, possa essere messa in rapporto con il contesto reale, senza che l'architetto cambi il mondo e senza che il mondo resti com'è. Nasce invece la tentazione di spostare contenutisticamente il discorso sul ruolo dell'architetto nel «gioco economico». Laddove Benjamin chiedeva all'artista di «fare proposte» ai fini di una trasformazione dell'arte, Tafuri chiede direttamente all'architetto di incidere ui rapportidi produ• zione e considera l'architettura da quest'unico angolo visuale, mettendo-. la insieme all'attività edilizia e all'urbanistica. Su questo piano, però, egli ritrova inevitabilmente, malgrado tutti i distinguo, i miti «moderni» della tecnologia, della tipologia, della ripetizione. Come più sbrigativamente fa Dal Co (cfr. li manifesto del 1/10/ 1980). In realtà i critici che hanno decretato la «morte dell'arte», anche quandCJ_ colgono il tramonto dello statuto funzionalista, non riescono a scoprirne i motivi, proprio per indifferenza a una tematica specificamente architettonica. Da tempo ormai si è individuato nella cesura con la storia la ragione dell'accettazione acritica dei «tempi nuovi» da parte delle avanguardie del Movimento Moderno. Storia non come passato, bensì parte della storia naturale, luogo e stimonianza presente di ogni trasformazione. Condizioni post-moderne Un'esperienza come quella della «strada novissima» della Biennale 1980 di architettura, a proposito della quale Portoghesi ha parlato di «fine del proibizionismo» (nel catalogo), pare a noi stimolante malgrado e forse in misura della sua eterògenejtà. li ritorno in primo piano dell'esigenza di comunicazione - una tendenza che è comune, per esempio, anche alla musica, dopo l'ascetismo darmstadtiano- ·comporta ovviamente flussi contraddittori, manierismi, nostalgie per il passato. Segna però anche la fine irreversibile di una fase della prassi artistica che non può essere artificialmente prolungata con decreti apocalittici di divieto del Senso. La trasformazione del senso (staremmo cauti a parlare del suo «sterminio») si compie per «inflazione» e non per astinenza, riattingendo alla storia e anche praticamente difenùendo il patrimonio storico (significativa l'esperienza dei Krier). Nella naturale alternanza degli stili gli eccessi del rigorismo suscitano eccessi opposti - come l'ossessione della serialità ha scatenato una reazione ludica neo-tonale parallela al post-modem più frivolo - ma come pretendere di erigere barriere al fluire del nuovo, anche se esso in parte svolge funzioni di evasione o di apologia «performativa» dell'esistente? li carattere controriformisticamente celebrativo di tanto barocco ci dovrebbe forse riabilitare l'attardato proibizionismo di allora? La messa in crisi del linguaggio è un fenomeno specifico: è revoca di un linguaggio - sia ornamento art nouveau o sistema cromatico-non annichilimento di ogni linguaggio, impossibilità perenne di senso. E come tutte le revoche è provvisoria e reversibile (pensiamo al «tradimento» del padre della dodecafonia che gli valse l'articolo: Schonberg è morto, in un momento in cui Boulez non aveva ancora riscoperto Mahler, Debussy, Berg...) Alla deflazione di senso risponde l'ambiguità dell'inflazione post-modem, omologa a quella economica che articola la crisi del capitalismo contemporaneo. li recupero di problemi stilistici passati assunti senza pretesa di continuità storica - dall'ordine all'ornamento - e la libera variazione sul presente contengono un'esigenza di ristabilimento della comunicazione attraverso l'intenzionalità della forma e insieme il gioco spesso banale e commerciale dell'eclettismo. Sono prezzi da pagare per sgorgare canali intasati. Il ritorno dalla sospensionedi sensoallapluralitàdelsenso è passaggio accettabile e auspicabile senza che si debba obbligatoriamente cadere in fantasmagorie di «simulacri». Il discorso della seduzione e il gusto dello spettacolo traversano certo tutto il post-modem, ma il loro ridimensionamento richiede non esorcismi bensì rigore nella costruzione formale, minori ossessioni epistemologiche e maggiore progettualità.

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