Alfabeta - anno III - n. 24 - maggio 1981

F ra la fine di marzo e l'inizio di aprile in diversi paesi del mondo occidentale si sono moltiplicati i messaggi su oscure vicende politiche del presente e del passato. Il loro comune denominatore è lo sfondo di ambiguità, di intrigo e di violenza in cui si collocano. All'orizzonte la crisi polacca; per la quarta (o quinta o sesta) volta la stampa occidentale aveva lanciato il grido di allarme annunciarido l'imminente intervento delle truppe del Patto di Varsavia. Ancora una volta l'allarme si è rivelato vano. Ciò non significa ovviamente che la minaccia di un intervento militare in Polonia non esista. Ma ciò che rischia di diventare grottesco è l'atteggiamento di esasperata attesa dei media verso un evento che non si verifica, in contrasto con il clima di allegra superficialità con cui vengono accolti eventi reali che indicano la regressione in atto nei regimi democratici occidentali. Preoccupa, insomma, perché sintomo del ritorno a schemi propagandistici da guerra fredda o da vigilia di coflitti, là tendenza a deviare l'attenzione pubblica sulle minacce incombenti sulle società del campo avverso, mentre sarebbe necessaria la massima attenzione ai sinistri scricchiolii provenienti daUa casa in cui si abita. Nello scorso numero abbiamo visto come è stata trattata l'informazione sul golpe tentato- e in qualche misura comunque riuscito - in Spagna. Gli avvenimenti successivi confermano l'incapacità della Spagna di estirpare le radici della minaccia golpista che continua a condizionare lo sviluppo politico-sociale del Paese. A questo tema la nostra stampa dedica uno spazio del tutto asimmetrico rispetto a quello che la Polonia ottiene quasi quotidianamente, con ricorrenti punte febbrili. Questa disparità di atteggiamento sembra ricalcare quello dell'amminitrazione Usa che, mentre moltiplica gli ammonimenti sia contro un intervento esterno in Polonia sia contro una repressione condotta con mezzi «interni», ha dichiarato ufficialmente in occasione del tentativo golpista la sua indifferenza verso gli «affari interni» della Spagna. « Indifferenza», peraltro, smentita dalla prassi di un passato recente. Si pensi, ancora, all'unanimità della condanna dell'intervento sovietico in Afghanistan e lo si confronti con le titubanze di molti giornali ad assumere una posizione egualmente netta sulla violenta repressione nel Salvador, in cui gli Stati Uniti sono ormai direttamente implicati sia sul piano diplomatico sia sul piano operativo. È in questo quadro assai poco rassicurante che si è collocata l'informazione sull'attentato a Reagan. Come già in occasione del sequestro del parlamentare spagnolo ad opera degli uomini di Tejero, è il Corriere della Sera, incurante di una tradizione più dignitosa, che si assume l'ingrato onere di sfidare il ridicolo. Il 31 marzo, giorno in cui la ·notizia dell'attentato al presidente americano esplode nelle prime pagine, il Corriere pubblica un breve commento non firmato- che riflette perciò la posizione ufficiale del quotidiano - dal titolo D prezzo della libertà. In esso si legge: « Il grande, libero Paese da cui dipendono tanti destini dell'intero mondo, registra nelle sue pagine anche queste azioni solitarie che, nelle loro conseguenze, fanno tremare intere nazioni, interi blocchi dello schieramento degli Stati. Il sangue è sempre stato una parte della storia: è una verità che non è il caso di scoprire in questa drammatica notte. Una segreta, violenta componente del1'America ogni tanto esplode come la vena segreta d'un vulcano. In questa vena, sono compresi gli umori contraddittori d'una sÌoria ancora giovane, che spesso si è radicalizzata in aspre contese, in selvagge rese dei conti. Si pensi al West, a quei larghi cappelli che Reagan è cosl fiero di poter portare. La libertà ha anche questi prezzi che si pagano purché resti la libertà». Si provi ad immaginare se all'indomani di uno degli episodi di terrorismo o di xiolenza mafiosa che hanno punteggiato la storia italiana degli ultimi anni il Corriere della Sera avesse parlato di «prezzo della libertà> che bisogna rassegnarsi a pagare «purché resti la libertà». Il giornale che ospita le tirate di Leo Valiani sul «permissivismo», in bilico sul precipizio della incostituzionalità, quando si tratta degli Stati Uniti scopre una vocazion·e libertaria che sconfina con l'ammirazione per l'anarchia della Frontiera, da una parte, dall'altra con un lirismo orfico e tellurico che equipara i fenomeni sociali alla vita insondabile dei vulcani. In definitiva, potremmo rubricare l'articolo fra i lapsus, sia pur rivelatori, che ogni giornale commette di tanto in tanto. Ma l'editoriale del Corriere della Sera si inserisce in un «coro» informativo dove non è più il caso di parlare di lapsus. Se, a caldo, mentre le notizie erano del tutto frammentarie ed incomplete, l'editoriale del Corriere archiviava già l'accaduto fra le «azioni solitarie che, nelle loro conseguenze, fannotremare intere nazioni»,ilgiorno successivo (2 aprile) nel titolo di testa della Stampa si trovava un giudizio storico certo e irrevocabile: Nessun complotto, ha sparato un folle. Sembra davvero incredibile che la vicenda dell'assassinio di John F. Kennedy abbia insegnato così poco. Non si capisce da quali fonti La Stampa abbia tratto un'informazione cosl certa, mentre, lo stesso giorno, è proprio il Corriere a smentire la sua stessa avventatezza del giorno precedente, ponendo esplicitamente nel titolo di testa l'inevitabile interrogativo: L'attentatore tace: pazzo nazista o sicario? Le contraddizioni non si fermano qui. Se da una parte il Corriere non può fare a meno di raccogliere i dubbi e i sospetti che sono sulla bocca di tutti, dall'altra incarica Alberto Ronchey di fugare i germi malsani del sospetto. Lo stesso 1 ° aprile, infatti, sotto il titolo di testa, Ronchey firma un commento dal titolo Quando sparano ad un ottimista. «La prima congettura, istintiva e insopprimibile quando viene colpito uno statista - scrive Ronchey - è sempre quella di un complotto, d'una tenebrosa e motivata 'conspiracy'. Ma occorre guardarsi dall'errore di formulare ipotesi solo dall'angolo visuale della logica politica. Per la logica politica, la demenza non esiste. Eppure c'è una tradizione americana di attentati compiuti da psicopatici e allucinati>. Una spiegazione di questo tipo nella sua insinuante forma tautologica ( «è una tradizione americana>, «in America si fa cosl») e nel richiamo alla demen~a come fattore della storia lascia poco spazio all'analisi. Con la follia si può spiegare tutto; colpisce semmai la somiglianza di questo uso politico della follia per spiegare i fenomeni sociali con quello che viene fatto nell'Unione Sovietica, sia pure con obiettivi diversi. È strano che a Ronchey non sia venuta in mente questa allarmante analogia. Il «paradigma della follia> è stato ampiamente utilizzato dalla stampa come canone di interpretazione fondamentale dell'attentato. Tre sono stati gli argomenti principali su èui si è appoggiata tale interpretazione: a) l'argomento delle armi (l'eccessiva disponibilità di armi trasforma gli squiJibrati in potenziali attentatori); b) l'argomento «nazista» (l'attentatore era talmente esagitato da essere espulso perfino dal partitino neonazista in cui militava); c) l'argomento Jody Foster (l'attentatore ha agito per «compensare> il suo amore deluso per l'attrice). A questi tre argomenti «specifici», si è aggiunto un quarto argomento generico sull'influenza dei mass-media nel fornire modelli di comportamento e personaggi-simbolo a soggetti psicopatici. In proposito, è stato più volte riproposto il parallelo con l'uccisione di John Lennon. Nella «finestra» riportiamo alcuni titoli e brani di articoli che si rifanno a queste argomentazioni. Sul Manifesto del 1° aprile, Giangiacomo Migone scrive: «Ogni qualvolta si verifica un attentato politico negli Usa scatta un riflesso condizionato, assai diffuso sia nella stampa che tra i leaders politici, teso a dimostrare che ciò che è successo è sostanzialmente privo di significato. Oggi il Washington Post titola in prima pagina: 'l'attentatore è un vagabondo privo di scopo'. Il Wall Street Journal è ancora più specifico: 'gli assassini americani abitualmente non uccidono per un motivo politico. Alcuni studi affermano che la figura del presidente è percepita come simbolo da persone psicotiche e socialmente isolate'. Gli indizi dell'«intrigo» Se il «paradigma della follia> è risultato complessivamente dominante nella stampa «indipendente>, bisogna però dire che molti giornali hanno registrato gli interrogativi posti dalle circostanze dell'attentato. Numerosi elementi vanno infatti in direzione del «paradigma del complotto>. È interessante notare che alcuni di essi sono gli stessi utilizzati altrove per sostenere il «paradigma della follia>. Ad esempio, l'appartenenza dell'attentatore a un gruppuscolo nazista ben noto ai servizi di sicurezza e i sospetti cheglistessimembridel grupponutrivano sul suo conto, e che portarono alla sua espulsione come probabile agente provocatore, possono servire a costruire l'immagine di un esaltato ma anche la figura.di un soggetto manipolabile, inspiegabilmente sfuggito alla rete dei controlli. Sulla Repubblica del 3 aprile, nell'articolo Reagan rischiò di morire per una grave emorragia, ad esempio, si legge: «L'Fbi è convinto che non vi sia una cospirazione, e che il giovane sia effettivamene un solitario squilibrato. Ma stasera il segretario al Tesoro Donald Reagan ha rivelato che dopo aver fermato Hinckley a Nashville, lo scorso autunno, l'Fbi non avverti mai il servizio segreto. Il giovane fu fermato lo stesso giorno dell'arrivo di Carter in città e trovato in possesso di tre pistole». Gli aspetti inspiegabili sono del resto numerosi. Lo stesso Corriere della Sera del 1° aprile, in una corrispondenza di Leonardo Vergani, ne registra alcuni: «Adesso l'America si domanda come mai è possibibile che un 'ragazzo venuto dal nulla' e di cuisembra - non si conosceva la propensione per le armi, possieda una simile mira. È un altro 'caso Oswald', l'uomo che con un vecchio e scassato Mannlicher-Carcano centrò da una finestra di Dallas il presidente Kennedy, il quale,oltre tutto, viaggiava su un'automobile, e a discreta velocità, e a moltJ!I distanza dal suo assassino?>. Molti giornali si sono anche chiesti coma abbia potuto Hinckley superare tutti i controlli fino a giungere, armato, a pochi passi dal Presidente. Questa circostanza è enfatizzata da altri elementi «sconcertanti>; nel sommario dell'articolo di testa del Corriere della Sera del 2 aprile si legge: «Sconcertanti scoperte: l'attentatore alloggiava nello stesso albergo degli agenti segreti incaricati di proteggere il capo della Casa Bianca>. li Giorno è una delle testate più inclini a dare credito alla tesi della congiura. Il 2 aprile il titolo di testa a tutta pagina afferma: ll Canada avvertì: Reagan è in pericolo / Sospetto: Haig temeva qualcosa. L'occhiello è esplicito: «Dopo le rivelazioni dei servizi segreti israeliani, l'ipotesi della congiura trova un'altra conferma». Nell'articolo di Franco Pierini si legge: «Dopo l'informazione che i servizi segreti israeliani 2 mesi fa avevano comunicato al Fbi notizie sulle minacce di attentato contro il presidente Reagan appena insediato, anche dal vicino Canada arrivano circostanziate notizie su progetti di morte contro il Presidente, durante il suo recente viaggio canadese. È addirittura il ministro della Giustizia del governo di Ottawa, Robert Kaplan, a rivelare che i servizi segreti americani furono messi al corrente>. Uscendo dall'ambito degli elementi «polizieschi> per entrare in quello degli elementi politici, occorre inquadrare l'attentato a Reagan e i successivi avvenimenti sullo sfondo del contrasto fra il vicepresidente Bush e il Segretario di Stato Haig. Pochi giorni prima dell'attentato, Reagan aveva preso una importante decisione favorevole a Bush e sfavorevole a Haig. La Stampa del 26 mano dava rilievo alla decisione: Reagan limita i poteri del segretario di Stato dice il titolo di testa. Nell'articolo si legge: «Contro la volontà del segretario di Stato Haig, il presidente Reagan ha assegnato al vicepresidente Bush l'incarico di gestire eventuali crisi di politica estera. Rellgan ha reso pubblica ieri la sul! decisione, che pone fine a una sorda lotta in corso tra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca dal giorno del suo insediamento. È corsa la voce che il segretario di Stato abbia rassegnato le dimissioni. La voce è stata smentita dallo stesso Reagan>. In questa cornice, il 30 marzo verso le ore 16, un'ora e mezza dopo l'attentato, il generale Haig è apparso alla televisione, nella sala-staml?a della

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