Alfabeta - anno III - n. 21 - febbraio 1981

--. oO °' viene trafitto. In tutti questi casi, per godere la violazione, occorre che la regola di genere sia già presupposta, e giudicata inviolabile. Se questo è vero, e credo che l'ipotesi possa essere difficilmente falsificata, ecco che dovrebbero cambiare anche le metafisiche del comico, compresa la metafisica o la meta-antropologia bachtiniana della carnevalizzazione. Il comico pare popolare, liberatorio, eversivo perché dà licenza di violare la regola. Ma la dà proprio a chi questa regola ha talmente introiettato da presumerla come inviolabile. La regola violata dal comico è talmente riconosciuta che non c'è bisogno di ribadirla. Per questo· il carnevale può avvenire solo una volta all'anno. Occorre un anno di osservanza rituale perché la violazione dei precetti rituali sia goduta (semel - appunto - in anno). In regime di permissività assoluta e di completa anomia non c'è carnevale possibile, perché nessuno si ricorderebbe cosa viene messo (parenteticamente) in questione. Il comico carnevalesco, il momento della trasgressione, può darsi solo se esiste un fondo di osservanza indiscutibile. In questo senso il comico non sarebbe affatto liberatorio. Perché, per potersi manifestare come liberazione, richiederebbe (prima e dopo la propria apparizione) il trionfo dell'osservanza. E questo spiegherebbe perché mai proprio l'universo dei mass media sia al tempo stesso un universo di crontrollo e regolazione del consenso e un universo Nomades et vagabonds (Cause commune 1975/2). Testi di Jacques Serque, Paul Virilio, Jean Ziegler, Annie Guedez, Jean-Pierre Corbeau, Constant Nieuwenhvis, Philippe Meyer, Jean Duvignaud e altri. Paris, Union Générale d'Editions René Lourau Autodissolution des avant-gardes Paris, édition Galilée, pp. 316 Eugenio Barba The Floating_lslands Holstebro, Drama Gilles Deleuze, Félix Guattari Mille plateaux Paris, Les Editions de Minuit, 1980 pp. 648. S.i.p Alighiero Boetti, Anne Marie-Sauzeau Boetti, Classifyng the Thousend longest Rivers in the World Ascoli Piceno, pp. 1002, lire 30.000 Colette Godard Le théatre depuis 1968 Paris, JCLattès Magazzini Criminali Rivista diretta da Federico Tiezzi, Marion D'Amburgo, Sandro Lombardi Firenze/Milano, Magazzini Criminali Productions/Ubulibri pp. 80, lire 4.000 A Bochum sembrava impossibile trovare un biglietto. Dopo aver molto chiamato e fatto telefonare, la conferma che il posto era stato trovato l'ebbi solo al mattino del sabato, quando dell'aereo per Diisseldorf era disponibile solo la lista d'attesa e l'unico volo liberatosi per Colonia mi obbligava a tralasciare un appuntamento importante a Berlino. A Colonia, il treno per Boclium era in ritardo crescente; tutti i treni per Bochum fondato sul commercio e sul consumo di schemi comici. Si permette di ridere proprio perché prima e dopo la risata si è sicuri che si piangerà. Il comico non ha bisogno di reiterare la regola perché è sicuro che essa è nota, accettata e indiscussa, e ancor più lo rimarrà dopo che la licenza comica ha permesso - entro uno spazio dato e per maschera interposta - di giocare a violarla. «Comico» è tuttavia un termineombrello, come «gioco». Rimane da chiedersi se nelle varie sottospecie di questo genere così ambiguo non trovi spazio una forma di attività che gioca .diversamente con le regole, così da permetterle di esercitarsi anche negli interstizi del tragico, e di sorpresa, sfuggendo a questo commercio oscuro col codice, che condannerebbe il comico in blocco ad essere del codice la migliore delle salvaguardie e delle celebrazioni. e redo potremo individuare questa categoria in ciò che Pirandello opponeva o articolava rispetto al comico, chiamandolo umorismo. Mentre il comico è la percezione dell'opposto l'umorismo ne era il sentimento. Non discuteremo sulla terminologia ancora crociana. Se esempio di comico era una vecchia cadente che si imbellettava come un fanciulla, l'umorismo imporrebbe di chiedersi anche perché la vecchia agisce così. In questo movimento io non mi sento più superiore e distaccato rispetto al personaggio animalesco che agisce contro le buone regole, ma inizio a identificarmi con lui, patisco il suo dramma, e la mia risata si trasforma in un sorriso. Un altro esempio che Pirandello fornisce è quello di don Chisciotte opposto ali' Astolfo ariostesco. Astolfo che arriva sulla luna a cavallo di un favoloso ippogrifo e al cader della notte cerca un albergo come un commesso viaggiatore, è comico. Non così Chisciotte, perché ci si rende conto che la sua lotta coi mulini a vento riproduce l'illusione di Cervantes che si è battuto e ha perso un arto e ha sofferto il carcere per illusioni di gloria. Direi di più: è umoristica l'illusione di don Chjsciotte_che sa, o dovrebbe sapere, come sa il lettore, che i sogni che egli insegue sono confinati ormai nei mondi possibili di una letteratura cavalleresca passata di moda. Ma ecco che a questo punto l'ipotesi pirandelliana si incontra con la nostra. Non a caso il Chisciotte inizia con una libreria. L'opera di Cervantes non dà per note le sceneggiature intertestuali su cui le imprese del folle della Mancha si modellano, ma rovesciandone gli esiti. Le spiéga, le ribadisce, le ridiscute, così come un'opera tragica rimette in questione la regola da violare. L'.umorismo quindi agisce come il tragico, forse con questa differenza: che nel tragico la regola ribadita fa parte dell'universo narrativo (Bovary) o, quando viene ribadita a livello delle strutture discorsive (il coro tragico) appare pur sempre enunciata da personaggi dell'opera. Nell'umorismo la descrizione della regola invece dovrebbe apparire come istanza, per quanto nascosta, dell'enunciazione, voce dell'autore che riflette sui frames a cui il personaggio enunciato dovrebbe credere. L'umorismo eccederebbe quindi in distacco metalinguistico. Anche quando un solo personaggio parla di sé e su di sé, esso si sdoppia in giudicato e giudicante. Sto pensando all'umorismo di Woody Allen dove la soglia tra le «voci» è difficile da individuare, ma si fa, per così dire, sentire. Più evidente questa soglia nell'umorismo manzoniano, che marca il distacco tra l'autore che giudica l'universo morale e culturale di don Abbondio e le azioni (esterne ed interne) di don Abbondio. In tal modo l'umorismo non sarebbe, come il comico, vittima della regola che presuppone, ma ne rappresenterebbe la critica, conscia ed esplicita. L'umorismo sarebbe sempre metasemiotico e metatestuale. Della stessa razza sarebbe il comico di linguaggio, dalle arguzie aristoteliche ai puns joyciani. Dire che le idee verdi senza colore dormono furiosamente potrebbe essere (se non assomigliasse alla poesia) un caso di comico verbale, perché la norma grammaticale è presupposta, e solo presupponendola la sua violazione appare evidente (per questo questa frase fa ridere i grammatici, ma non i critici letterari, che stanno penIl teatrodeimeteci erano in ritardo. Montai su un locale per Diisseldorf, poi cambiai di nuovo a Essen. Intanto il tempo s'era fatto minaccioso e sulla banchina soffiava un vento gelido; a Diisseldorf anche la tettoia era in riparazione e s'aspettava a cielo scoperto. Quando finalmente arrivai erano passate da poco le sei, era sceso il buio e pioveva. Uscii dalla stazione e m'affacciai a una città qualunque, lavori in corso, traffico incolonnato e fuliggine, e neppure una piazza a nessuno dei due lati dell'anonima galleria; non arrivavo a riconoscerla, anche se v'ero già stato, e per più di un giorno, ma sempre in circostanze consimili: una città con un teatro importante, ma nota piuttosto per la sua ubicazione, schiacciata tra la Krupp e la Opel. In preda allo sconforto mi chiesi: «Ma cosa ci faccio io, a Bochum?». Ma era troppo tardi. Respinsi la tentazione di partire subito, mi feci depositare allo Schauspielhaus, anzi alla sua saletta posteriore riservata ai Kammerspiele, dove dopo una coda paziente scoprii che invece il mio biglietto non c'era e che forse mi ero lasciato pilotare fino a Il da un «misunderstanding». Mi misero su una sedia in ultima fila. E mentre aspettavo, tra facce tutte uguali e tutte festanti per decisione già presa, il caldo della sala e la soddisfazione di avercela fatta non riuscivano a soffocare la domanda di prima: «Ma cosa ci faccio io, a Bochum?» Lo spettacolo invero fu bello, anche se delle tre ore che durava il monologo, col mio tedesco, potei coglierne.solo qualche spizzico. Ma que-. sto lo sapevo fin da prima. Trascrivo queste impressioni da diario privato, strappate da un episodio esemplare e recentissimo, perché nonostante il lieto fine il dubbio che m'aveva colto all'arrivo in quella città estranea non s'è dissipato. Quanto tempo può valere realmente l'assistere a uno spettacolo? E questo aldilà di un apprezzamento di merito, e mettendo sulla bilancia la serata secca sotto casa o i disagi della trasferta. Quanto, spec_ialmenteoggi, in un panorama camFranco Quadri biato dai mezzi di comunicazione, e in cui la semplice conoscenza di un evento anche scenico tende sempre di più a determinarne l'appropriazione, e a surrogarne il rapporto immediato del partecipante? Non a caso si son visti moltiplicare anche nelle cronache giornalistiche, i 6.400 spettatori di Winterreise o i 2.500 delle Baccanti di Prato, come un tempo avvenne per i Mille di Garibaldi, ma con maggior cognizione di causa. «Tutto ·è vicino ormai compreso l'avvenire, con la generalizzazione della predizione e della previsione, tutto è anticipato, progetta/o» (Paul Viri/io) Immagini dell'economia del vicolo N el caso in esame non si trattava però di constatare una messinscena o un esempio di teatro concettuale, ma di confrontarsi con un'interpretazione, cioè con un elemento di cui è difficile rimpiazzare i connotati emozionali con una fruizione non diretta. Ma di questa presenza va anche valutata l'utilità in termini pratici, tarando già in anticipo il consenso di quel margine accrescitivo da porre abitualmente sul conto del viaggio (come fatica fisica e come fatto psicologico) per arrivare a vedere proprio quel lavoro, dell'esclusiva critica almeno per il territorio nazionale e della mancanza sempre entro questo ambito di una verifica concorrenziale possibilmente riduttiva. Sono anche dei criteri di professionalità a venire a questo punto investiti. Perché assodato che non è più lecito a chi è invischiato nell'infelice mestiere lo starsene nella sua poltrona di platea a aspettare gli spettacoli che passano, e che del teatro di oggi non ci si consapevolizza né andando soltanto a teatro, né trascurando perlomeno la contemporaneità a livello internazionale, bisognerebbe pur individuare dei limiti all'area da coprire e agli spettacoli «da vedere». E se questi sono identificabili nella relativa necessità di un reportage, che adempia quindi a una funzione nei riguardi dell'ipotetico lettore e non nutra solo il narcisismo di chi impone una sua scelta un po' esoterica, io non ero neanche sicuro che dell'allestimento visionato a Bochum avrei finito per render conto in modo specifico da qualche parte. Né il'viaggio stavolta mi veniva rimborsato da un giornale. Anche dell'Oresrea della Schaubiihne che avevo visto il giorno prima a Berlino, sapevo che avrei potuto scrivere solo in modo incompleto e parziale, tale da non soddisfarmi, né da esaurire il rapporto con uno spettacolo così importante. Ma lì si parlava comunque di uno degli avvenimenti della stagione, e della messinscena di un regista come Peter Stein, che seguo da tempo sando ad altre regole, già di ordine retorico, e cioè di secondo grado, che la renderebbero normale). Ma dire che Finnegans Wake è uno o una scherzarade ribadisce, mentre 11asconde, la presenza di Sheerazade, della sciarada e dello scherzo nel corpo stesso dell'espressione trasgressiva. E dei tre lessemi ribaditi e negati mostra la parentela, l'ambiguità di fondo, la possibilità paronamastica che li rendeva fragili. Per questo l'anacoluto può essere comico o il lapsus di cui non ci si chiedano le ragioni (sepolte nella struttura stessa di ciò che altri chiama la catena significante, ma che di fatto è la struttura ambigua e contraddittoria dell'enciclopedia). L'arguzia invece, e il calembour, sono già affini all'umorismo: non ingenerano pietà per esseri umani, ma diffidenza (che ci coinvolge) per la fragilità del linguaggio. Ma forse confondo categorie che dovranno essere ulteriormente distinte. Riflettendo su questo fatto, e sul rapporto tra la riflessione e i propri tempi (tempi cronologici, dico) forse apro uno spiraglio su un nuovo genere, la riflessione umoristica sulla meccanica dei simposi, dove si chiede di svelare in trenta minuti cosa sia le propre de l'homme. Relazione al convegno italo-tedesco sul comico (Bressanone, agosto 1980) organizzato dall'Istituto di Filologia Neolatina del- /' Università di Padova. e obiettivamente non si può trascurare. Nell'altro caso, nonostante fosse in scena un testo di Thomas Bemhard con la regia di Peymann e le scene di Herrmann, e fossero cioè implicati tre personaggi chiave del teatro tedesco, la mia curiosità era morbosamente pilotata dall'exploit del protagonista Bemhard Minetti, attore vecchissimo e conteso, questo mito della scena german.ica al quale s'è addirittura arrivati a intitolare pochi anni fa una pièce. Ma da noi Minetti è ignoto agli stessi esperti. Se anche lo paragonassi a Eduardo {l'interprete naturalmente) e a Renzo Ricci a un tempo, primo non ne imbroccherei esattamente il registro, secondo non arriverei a destar l'interesse di nessuno. Allora questa trasferta (come nel senso più estensivo quella di Berlino) era da catalogarsi nel campo più privato - e vorrei dire più lungimirante - della professionalità, rispondendo a impulsi personali più che a obblighi pubblici. Un giusto specchio del teatro che in genere mi tocca di vedere. Anche se per una volta la curiosità di informazione o di documentazione mi aveva spinto verso il territorio da me poco frequentato del richiamo di un attore. A questo punto era logico che all'indomani raggiungessi Eugenio Barb<t nella sua scuola internazionale di teatro, antropologica, insediata nella vicina Bonn, per ascoltare e toccare con mano ancora da privato, invece di convenirvi ufficialmente da critico di lì a meno di una settimana al simposio canonico di esplicazione spettacolarizzata. La proposta di Barba, implicato nell'iniziativa in veste personale in un periodo di vacanza dell'Odin Teatret, è senz'altro inedita. Aprire una scuola per una cinquantina fra registi e attori venuti da ogni dove, soprattutto finalizzata a una presa di coscienza: tema, un esame dei moduli recitativi, svolto sulla pelle dei partecipanti chiamati a esercitarsi nel training e a un montaggio scenico per gruppi, ma soprattutto

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