Alfabeta - anno III - n. 21 - febbraio 1981

Il novissimMoontale Eugenio Montale L'opera in versi Edizione critica a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini Torino, Einaudi, 1980 pp. 1225, lire 50.000 S i deve lodare incondizionatamente l'impresa editoriale che ci offre ora ctutto Montale» in un unico volume; ma non per una ragione di ordine qualitativo, cioè per il fatto che questo Montale differisce dal come ci era stato servito nelle occasioni precedenti in quanto si offre ora con tutte le possibili garanzie filologiche, assicurate dal nostro filologo-principe, Gianfranco Contini. Su questo punto Contini stesso ci tranquillizza ostentando modestia e spirito riduttivo: il gioco delle varianti, esito immancabile dell'esercizio filologico applicato a un poeta, nel caso di Montale non dà frutti rilevanti, anche se non esigui; nulla comunque di paragonabile al variantismo costitutivo di cui si ammanta l'altro «faro,. della nostra poesia contemporanea, Ungaretti. E del resto, in linea con la dichiarata modestia dell'occasione, Contini si segnala per uno scritto in appendice che batte ogni record nel nascondersi, nell'evitare i massimi problemi, nello sbocconcellare l'argomento Montale partendo da aspetti minori, evitando con cura di entrare nel vivo della materia. Ma Contini senza dubbio si può concedere questo apparente understatement, venato in realtà di orgoglio luciferino, dati i contributi capitali che all'esegesi montaliana ci ha fornito in passato attraverso una «lunga fedeltà>. Il «tutto Montale> è importante per una ragione ben più banale, di ordine brutalmente quantitativo, per il fatto che, una volta tanto, ci consente di condurre confronti fra le sue membra. fin qui disiecta. E cade subito, allora. una curiosa illusione ottica che pure su di lui era incollata tenacemente, forse per uno scambio di parti fra la tematica e l'opera: che cioè, per natura, l'officina montaliana fosse votata a una perfezione presto conclusa e quindi foriera di un silenzio e di una sterilità precoci; che insomma prima o poi l'uomo Montale dovesse tacere, sopravvivere a se stesso. Così, dopo il «miracolo» di qualità e di compattezza degli Ossi di seppia e delle Occasioni, ogni ulteriore aggiunta prendeva subito il carattere dell'appendice importuna, forse inutile, o quanto meno rischiosa. Questo stupore, questa perplessità accolsero già a suo tempo la Bufera, si riaccesero maggiorati al sopraggiungere di Satura, ma ogni volta si riusci a superare l'imbarazzo ricorrendo alla carta di relegare queste aggiunte nel ruolo di appendici marginali, tali da non spostare il baricentro della poesia montaliana nel suo complesso. E invece il primo, tangibile risultato di quest' «opera omnia» (almeno per la parte in versi) è di indurci a un computo quantitativo. C'è poco da fare, la produzione da Satura in poi, corrispondente al «secondo» Montale venuto dopo la svolta degli anni '60, è già oggi quantitativamente superiore al «primo», corrispondente al blocco canonico e consacrato degli Ossi più le Occasioni più la Bufera. Questi tre nuclei, sommati assieme, danno 260 pagine circa; mentre Satura più il Diario del I 971 e I 972 più il Quaderno di quattro anni raggiungono le 350 pagine. Forse si può registrare un accorciamento della lunghezza media di ogni singolo poema, ma un tale elemento è da riportare nell'ambito delle chiavi interpretative, e comunque pare proprio che si debba accantonare la profezia del silenzio e del nulla obbligatorio cui l'officina montaliana sarebbe stata votata per legge intrinseca. Essa anzi prosegue, registra quasi un incremento nel ritmo di produzione, i nuclei sacri si allontanano ormai nel tempo, le appendici crescono a tal punto da rovesciare un certo rapporto di forze. Dobbiamo concludere insomma che i due blocchi montaliani, prima e dopo il 1960, sono pressoché paritetici a livello quantitativo, con un vantaggio, semmai, del secondo sul primo. A questo punto, si apre la partita qualitativa, il gioco delle preferenze; e ancora una volta la possibilità consentita dal- !' «opera omnia» di trascorrere celermente negli anni di produzione e di condurre raffronti si dimostra di uno straordinario vantaggio pratico. Sarà nostra tesi che il secondo Montale non è sicuramente inferiore a quello classico; forse per amore di novità e di paraLe 1111oveso/11zio11i11rba11is1iche dosso si potrebbe arrivare a sostenere un suo primato, almeno come fatto di cuore, di preferenza istintiva; forse si inserisce nella valutazione, come è inevitabile, un fattore generazionale. Chi si è formato negli anni '30-'40 continuerà a preferire gli Ossi; chi è nato alla cultura a cavallo tra il '50 e il '60 preferirà il nuovo corso. Attorno a quel momento, infatti, si compie nel poeta una mutazione, se non tematica, almeno linguistico-stilistica dì grande peso. Egli decide di sciacquare i suoi panni nel fiume di una contemporaneità più incalzante, di sciorinarli a captare un paesaggio sociale largamente mutato per effetto dell'incidenza di fattori sociologici e tecnologici: quello stesso pacchetto di trasformazioni di cui nel medesimo tempo dovettero tener conto, in modi ovviamente più baldanzosi ed estremisti, i poeti Novissimi. B eninteso la svolta di cui qui si vuole parlare non riguarda i temi montaliani, ovvero gli strati filosofici e morali della sua poetica, la sfe.- ra dei «significati»: egli nasce e permane nell'arco intero della sua carriera come il grande poeta dell'esistenzialismo, di una condizione umana che comprende di non poter più contare su miti o verità consolatorie, a differenza dei vati di fine Ottocento, Pascoli e D'Annunzio: un'umanità che si sa «gettata nel mondo», senza alcun riRenato Bari/li scatto che non sia la «grazia», il carisma di qualche oggetto «inutile» in cui consistere e raggrumarsi: l'estasi del far blocco con le occasioni mondane, del fondersi per un attimo nelle circostanze, o nella memoria involontaria di sapore proustiano. Del resto, le epifanie, l'estasi materialistica, il «tempo ritrovato» sono appunto i succedanei che i grandi di questa condizione culturale propongono al posto dei valori crollati, fino a costituire il nerbo di una metafisica del precario che vede il contingente solleva'to al rango di Dio, l'esistente celebrato al posto di un essere irraggiungibile. Montale, di questi anti-valori fondari sul culto del precario e del fenomenico, è il nostro magnifico testimone da sempre, e su questo punto non ci si può certo ricredere. Resta però il fatto che nel lungo primo tempo, fino a tutti gli anni '50, egli pratica una tale fede pagando molti inevitabili tributi a limiti sociali e generazionali. La sua dovrebbe essere fin dall'inizio una poetica degli effetti prosastici, del tuffarsi tra gli oggetti banali, e invece quanto preziosismo, quante inflessioni culte, quante citazioni involontarie non ci è dato reperire nel primo vasto segmento della sua produzione! Quanto vasta e ingombrante si stende ancora l'ombra pascoliana-dannunziana! Elenchiamo alla rinfusa, da un rapido spoglio degli Ossi: «triste artiere - attedia - uno spiro - divelge - aligero - strepeanti - è desso - la rancura - ordegno - tra udii - alighe - alide ali - ebrietudine - spera - sorrade ... ». Per non parlare di costrutti interi: «E scampo n'è-in sua furia incomposta - siccome i ciottoli che tu volvi...». E sia ben chiaro che non si tratta di c"Ìtazioni volontarie, introdotte a scopo di parodia, come oggi avviene tanto di frequente, o come è sempre avvenuto nella linea crepuscolare, da Gozzano a Erba, o come farà sapientemente il secondo Montale. Sono invece incontrollati innalzamenti di tono, di µn autore che sente ancora l'obbligo di nobilitare la dizione poetica per renderla degna dei modelli ricevuti, e anche per dare decorosi panni alle anti-verità di cui si fa portatore. Un po' diverso il caso del famoso lessico oggettuale, di provenienza «ligure», mediante il quale il nostro poeta si propone di rispondere a distanza alla sfida delle cose pascoliane, disturbandole nella loro rotonda cantabilità, e rendendole invece aspre e chiocce, dirottandole verso una fronda espressionista, in luogo appunto della musicalità simbolista-decadente. Ecco così la serie «bruiva - svolacchia - fumacchi>>,e continuando con esempi tratti dalle Occasioni e dalla Bufera, «fumicose - sbiocca - fiotta - bombito», e inoltre tutta l'ornitologia e la botanica anch'esse accidentate, marginali, stridenti, per cui la poesia montaliana va famosa. Ma riconosciuta la carica di rivolta insita in tutto ciò, il desiderio di decentrare l'asse linguistico spostandolo verso le eccezioni, i dati contingenti, come d'altra parte non ammettere che ne segue inevitabilmente un effetto di impreziosimento? Lessico della domenica, del territorio privilegiato della poesia, anche se desunto con criteri alquanto diversi da quelli canonici della tradizione. Del resto i connotati preziosi e malgrado tutto non ancora prosastici, non interamente di grado zero. del lessico e della sintassi di Montale non nascono da soli, ma agiscono da spie di atteggiamenti più larghi, confermanti anch'essi una collocazione preziosa del poeta, che tale intende essere già a livello psicologico e sociale. Infatti numerosi motivi collaborano a situarlo in una zona di arcadia (seppur dolente e sorvegliatissima), di fuga nella natura, di corrucciata lontananza dal vivere urbano. Ragioni autobiografiche: c'è poco da fare, la «ricerca del tempo perduto» lo riporta agli anni dell'infanzia e dell'adolescenza ligure, con relativo paesaggio e lessico e zoologia e botanica. Il primo Montale non ha capito, a differenza del secondo, e dell'omologo modello proustiano, che il tempo (vale a dire la circostanza carismatica, il sintomo che apre la porta al recupero del piacere) si può ritrovare ovunque, nel lastricato di un palazzo di Parigi, o di piazza S. Marco, o nell'infilascarpe di latta arrugginita dimenticato al Danieli di Venezia. E allora si ostina, sempre questo «primo» Montale, a effettuare i suoi repechages nel mare, nel cielo, nelle tartane, negli insetti del paradiso perduto dell'infanzia, ritenendo che invece nulla di simile si possa esperire sul materiale di esperienza corrispondente al suo inurbamento, diÌntellet- .tuale interamente assorbito nei ranghi di una società sviluppata. Il dato autobiografico, insomma, viene a coincidere con una scelta stilistica, poetica, culturale: va bene praticare una poesia umile, contro i vati rompiscatole, va bene mirare all'effetto prosastico; ma come c'è un tabù verso l'alto, verso l'eloquenza, così ce n'è uno verso il basso, verso il grigiore della prosa urbana: la città, la vita sociale, nei loro riti, nel loro lessico, si devono evitare perché degraderebbero un po' troppo l'aura, la temperatura, desublirnerebbero pericolosamente il discorso poetico; questo deve mantenere una sua dignità retorica, di cui il segno forse più evidente è il «tu»; quell'astratta, stilizzata interlocutrice •femminile che compare in buon numero degli Ossi e delle Occasioni, «istitu- ·zionale» presenza letteraria, il cui padrino più prossimo è evidentemente il D'Annunzio della Pioggia nel pineta, anche se il poeta «ligure» ha addensato ogni possibile scongiuro per purgare quell'«istituto», ma pur sempre nell'atto di riprenderlo, e di riconoscere così una continuità. N on sarà allora per puro caso che il nuovo corso di Satura si apre con una lirica ove il poeta è finalmente in grado di fare dell'autoironia appunto su quel suo istituto, ormai definitiv_amenteabrogato, a tangibile pegno che è avvenuta la «risciacquatura», e che le ultime tracce di preziosismo ·letterario sono state emendate. Nei Xenia di Satura sopravvive un «tu», nia ben diversamente concreto e contingente, tanto contingente che il poeta è ora intento a celebrarne le lodi «in morte»; purtroppo si sa che le parti dei canzonieri scritte «in morte» della donna amata hanno il triste privilegio di apparire ben altrimenti corpose e sofferte. Nel caso specifico di Montale, sparisce la fastidiosa discrepanza tra una poetica del contingentismo e la presenza di un «tu» canonico, letterario, mera finzione retorica. Ma non è tutto; la donna scomparsa ha avuto anche il merito di estendere la rete degli oggetti carismatici, salutiferi, e soprattutto di strapparli dal paradiso dell'infanzia, dall'Arcadia ligure, dal limbo delle vacanze in villa, per trasferirli nel presente della vita urbana, dove ci sono i telefoni, gli antibiotici, le dosi omeopatiche, i viaggi concreati con relativialberghi, ilgià ricordato infilascarpe di latta arrugginita, e così via; dove oltretutto l'io recitante, così come lascia cadere il fatuo «tu» retorico, si decide correlativamente a entrare nei suoi panni reali di intellettuale riuscito, che vive ormai «alla pari» con la società affluente, ricca di mezzi materiali e di gerghi espressivi. Questo atteggiamento «alla pari» rispetto alla società contemporanea, ai suoi strumenti, alle sue risorse linguistiche, sono stati i ov1ss1m1a introdurlo, soprattutto quelli legati alla poetica degli oggetti, che del resto sono i più (Sanguineti, Giuliani, Porta, Pagliarani; se ne distacca solo il postdadaismo di Balestrini, ma attento anch'egli a usare un materiale readymade di grado zero). Questa infatti appare sempre più la via di maggiore efficace per presentare la rivoluzione «novissima», facendola appunto corrispondere a una generale ~ _svolta sociologica, al passaggio dell'Italta da una condizione contadina e pre-industriale a una di avanzato svi- ;;;:; luppo tecnologico. ~ D'altronde, si tratta quasi di uno slogan che proprio in quei primi anni '60 veniva usato a principale capo d'accusa della neoavanguardia, ma così si tradiva la persistente anima arcadico-georgica dello stato maggiore dei nostri poeti (con annesse salmerie critiche), che consideravano delittuoso, o effimero, pareggiare il linguaggio

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