Alfabeta - anno III - n. 20 - gennaio 1981

Pascoli, esperienzq~;o~M,lla lettera Giovanni Pascoli Opere Voi. 1. a cura di Maurizio Perugi Milano- apoli, Ricciardi, 1980 pp. 1224, lire 40.000 L ' stato Gianfranco Contini il primo E a identificare la poetica di Pascoli, al di là del suo artigianato poetico in latino, nell'aspirazione a operare in una lingua morta. Inseguendo l'ambizione, comune a tutti i grandi decadenti" europei (ma che in Italia ha, forse, una più tenace discendenza), di lavorare in una lingua inedita, Pascoli si sarebbe posto davanti al linguaggio come davanti a una «riserva di oggetti poetici che furono vivie a cui restituire la vita». Di qui il suo annettere alla lingua normale le lingue speciali («fin quelle specialissime che sono le sequenze foniche dei nomi propri•); di qui, anche, l'ostinato ricorso a quella lingua agrammaticale o pregrammaticale che è l'onomatopea (la «presenza insopportabile degli uccelli» che tanto infastidiva Pintor). Sarebbe qui superfluo riaffermare la precisione di questa diagnosi. Osserviamo, piuttosto, che Contini avrebbe potuto citare un altro testo pascoliano in cui la poetica della lingua morta è. come tale, esplicitamente formulata. In un passo dei Pensieri scolastici, polemizzando contro la proposta di abolire l'insegnamento del greco nelle scuole, egli scrive: « .. .la lingua dei poeti è sempre una lingua morta• e aggiunge subito dopo: «curioso a dirsi: lingua morta che si usa a dar maggior vita al pensiero». oi prendiamo le mosse da quest'ultima frase per proseguire la riflessione sul rapporto fra lingua morta e poesia. per interrogare, cioè, la poesia di Pascoli in una dimensione in cui non è più, semplicemente, in questione la sua poetica, ma il suo dettato: il dettato della poesia, se indichiamo con questo termine (che riprendiamo qui al vocabolario poetico medievale, ma che non ha mai cessato di esser familiare alla nostra tradizione poetica) l'esperienza dello stesso avvento originario della parola. La poesia - dice Pascoli - parla in una lingua morta, ma la lingua morta è ciò che dà vita al pensiero. li pensiero vive della morte delle parole. Pensare, poetare significherebbero, in questa prospettiva, far esperienza della morte della parola, proferire (e resuscitare) le morte parole. Contini osserva che il problema della morte delle parole angosciava Pascoli quanto quello della morte delle creature. Ma in che modo e in che senso una lingua morta può dar vita al pensiero? In che modo la poesia compie questa esperienza delle parole morte? E che cos'è - poiché di questo si tratta - una parola morta? IL In un passo del De Trinitate (X, I, 2) - che costituisce uno dei primi luoghi in cui si presenta, nella cultura occidentale, l'idea, che ci è oggi familiare, di una parola morta - Agostino compie una meditazione su una parola morta, un vocabulum emor111um. Supponiamo - egli dice- chequalcuno oda un segno sconosciuto, il suono di una parola di cui ignora il significato, per esempio la parola temetum (un termine desueto per vinum ). Certamente, ignorando che cosa esso voglia dire, desidererà saperlo. Ma, per questo, è necessario che egli già sappia che il suono che ha udito non è una vuota voce (inanem vocem ), il mero suono te-me-lllm, ma un suono significante. Altrimenti quel suono trisillabico sarebbe già conosciuto pienamente nel momento in cui è percepito dall'udito: «Che altro ci sarebbe da cercare in esso per meglio conoscerlo, dal momento che tutte le sue lettere e la durata di ciascun suono sono conosciute, se non si sapesse nello stesso tempo che è un segno e non lo muovesse il desiderio di sapere che cosa significhi? Quanto più, dunque, la parola è nota, ma senza esserlo pienamente, tanto più l'animo desidera sapere quel residuo di conoscenza. Se, infatti, conoscesse solo l'esistere di questa voce e non sapesse che essa significa qualcosa, non cercherebbe più nulla, una volta percepito con la sensazione, per quanto era possibile, il sensibile suono. Ma poiché sa già che non solo vi è una voce, ma anche un segno, vuole averne perfetta conoscenza. Ora non si conosce perfettamente alcun segno se non si sa di che cosa sia segno. Colui che con ardente zelo cerca di sapere e, acceso dallo studio, persevera, si può dire che sia senza amore? Che ama dunque? Certamente non è possibile amare qualcosa che non è conosciuto. Né ama queste tre sillabe, che già conosce. Si dirà allora che ama in esse il sapere che significano qualcosa? ...». In questo passo, l'esperien'za della parola morta si presenta come esperienza di una parola proferita (di una vox) in quanto non è più mero suono (istas tres syllabas ), ma non è ancora significato: esperienza, cioè, di un segno come puro voler-dire e intenzione di significare, prima e al di là di ogni concreto avvento di significato. Questa esperienza di un verbo sconosciuto (verbum incognitum) nella terra di nessuno fra il suono e il significato è, per Agostino, l'esperienza amorosa come volontà di sapere: all'intenzione di significare senzasignificato corrisponde, infatti, non la comprensione logica, ma il desiderio di sapere (qui scire amat incognita, 11011 ipsa incognita, sed ipsum scire amat: l'amore è, cioè, sempre desiderio di sapere). Importante è, però, rilevare che il luogo di questa esperienza d'amore, che mostra la vox nella_sua purezza originale, è una parola morta, un vocabulum emor111um:temetum. (Notiamo qui, di passaggio, che non è possibile comprendere la teoria provenzale e stilnovista dell'amore se non come un revocare in questione proprio questo passo di Agostino: L'amor de Lonh è, appunto, la scommessa che sia possibile un amore che non trapassi mai in sapere, un amare ipsa incognita, cioè un'esperienza della parola - anche qui, non a caso, parola oscura e rara;cars, br1111estenhz motz -che non si traduca mai in esperienza logica di significato). Ili. Nel sec.XI, ahcor prima della poesia, la logica medievale riprese l'esperienza agostiniana della voce ignota quella voce e cerca di rappresentarsi il significato della voce percepita». Non più mero suono e non ancora significato logico, questo «pensiero della voce sola» (cogitatio secundum vocem svla111) apre al pensiero una dimensione inaudita, che si sostiene sul puro fiato della voce, sulla sola vox come insignificante volontà di significare. IV. In Cor. I, XIV, l-25, Paolo espone la su_apuntigliosa critica della pratica linguistica della comunità cristiana di Corinto: «Colui che parla in glossa (o lal8n gl8sse, qui loquitur lingua, fraintende S. Girolamo) non parla agli .~~ ~ .. -• . ·, 1;· : ,, -I ., -~• K[/11/1111: .,.. t;,l'iJNII~ ,.._v_.....,,lllf.1!> _ l,(,,,,ii,~r• ... ,.,,1 IEATCEIEUffll per fondare su di essa la dimcnsiom: di significato più universale e originaria: quella dell'essere. Nella sua obiezione all'argomento ontologico di Anselmo, Gaunilone afferma la possibilità di un'esperienza di pensiero che non significa ancora né rimanda a una res, ma dimora nella «sola voce». Riformulando l'esperimento agostiniano, egli propone, infatti, un pensiero che pensi «non tanto la voce stessa, che è una cosa in qualche modo vera, cioè il suono delle sillabe e delle lettere, quanto il significato della voce udita; non, però, come viene pensato da chi conosce che cosa si è soliti significare con quella voce, ma, piuttosto, come viene pensato da chi non ne conosce il significato e pensa solo secondo il movimento dell'animo nell'udire uomini, ma a Dio; nessuno infatti intende, ma in spirito parla misteri ...chi parla in glossa edifica se stesso, chi profetizza edifica la chiesa ...ora, fratelli, se io vengo a voi parlando in glosse, in che vi gioverò, se non vi parlerò in rivelazione o in conoscenza o in profezia o in dottrina? ...Cosi anche voi se attraverso. le glosse non darete un discorso ben significante, come si conoscerà ciò che viene detto? Sarà come se parlaste in aria ... Se non conoscerò il valore semantico della voce, sarò a colui che parla un barbaro e colui che parla in me sarà un barbaro ...per questo chi parla in glossa preghi di poter interpretare, perché se prego in glossa ilmio spirito prega, ma ilmio intelletto è senza frutto ...Fratclli, non diventate fanciulli rispetto al giudizio ...». In che modo dobbiamo intendere il lalein glosse del testo? Glossa - come è ormai acquisito anche dall'ermeneutica neo-testamentaria - significa «parola estranea alla lingua d'uso, termine oscuro, di cui non s'intende il significato». Questo è il significato che la parola ha già in Aristotele; ma ancora Quintiliano parla di·glossemata come voces mi11ususitatae, che appartengono alla lingua secretior, quam Graeci gl8ssas vocant~ La glossolalia non è, dunque, un puro proferimento di suoni inarticolati, ma un «parlare in glose», cioè in parole di cui non si conosce il senso, esattamente come il temetum di Agostino. ·se io non conosco la dy11amis (anche questo è un termine grammaticale, che significa: valore semantico) della parola - dice Paolo - sarò, rispetto a chi parla, un barbaro e colui che parla in mc sarà un barbaro. L'espressione «colui che parla in mc» (o /a/8n en emof) pone un problema, che la Vulgata ha aggirato intcrpretando en emof con mihi, per me. Ma l'en emof del testo non può significare che «in me» e ciò che Paolo intende è perfettamente chiaro: se io pronuncio parole di cui non intendo il significato, colui che parla in me, la voce che le proferisce, il principio stesso della parola in me sarà qualcosa di barbaro, che non sa parlare, non sa quel che dice. Parlare-in-glossa significa, cioè, far l'esperienza, in se stessi, di una parola barbara, che non si sa; esperienza di un parlare «infantile» («fratelli, non diventate fanciulli rispetto al giudizio ...»), in cui l'intelletto resta «senza frutto». V. Che cos'è , per Pascoli, l'esperienza della lingua morta come «lingua dei poeti»? È possibile ritrovare anche nella sua poesia uria dimensione di linguaggio che, presentandosi con i caratteri che abbiamo appena schizzato per il «pensiero della voce sola» e per la glossolalia, abbia il suo luogo fra il togliersi del mero suono e l'avvento del significato? E, se cosl fosse, sarebbe possibile interpretare in modo nuovo e, insieme, ricondurre a unità tanto la poetica della lingua morta éhe l'onomatopea e il fonosimbolismo pascoliano? Continuamente noi siamo davanti al testo di Pascoli come il «barbaro» che non conosce la dynamis delle parole. «Ci sono parolette che mal s'intendono» e che - malgrado il glossario che chiude (non apre) i Canti di Caste/vecchio - non vogliono, in realtà, essere interpretate, uscire dal puro voler-dire del parlare in glossa. Già Contini ha notato il valore puramente fonosimbolico di «zillano» in L'amorosa giornata; ma l'osservazione si potrebbe estendere a schilletta, sericcia, accia, gronchio, grasce, stiglie, astile, palestrita, stiampa, sprillo, tarmolo, strino, legoro, cuccolo, guaime e altre innumerevoli glosse, come anche alle xenoglossie di Italy e di The hammerless gun (disseminate, quest'ultime, fra le onomatopee ornitologiche). Pascoli conta su un lettore che non conosca tutte le parole che egli usa; come dice il «poeta di lingua morta» dell'omonimo testo pascoliano, la poesia, come la religione, ha bisogno «delle parole che velano e perciò incupiscono il loro significato, delle parole, intendo, estranee all'uso presente» (e che, tuttavia, si usano «a dar maggior vita al pensiero»). Glossolalia e xenoglossia sono la cifra della morte della lingua: esse rappresentano l'uscita del linguaggio dalla sua dimensione semantica e il suo far ritorno nella sfera originale del puro voler-dire (non mero suono, però, bcnsi linguaggio e pensiero della voce sola). Pensiero e linguaggio, diremmo oggi, d_eipuri fonemi: perché che cosa può significare avvertire un'intenzione di significato distinta dal mero suono e, tuttavia, non ancora significante, se non riconoscere i fonemi di una lingua, q\lesti enti negativi e puramente differenziali, che - ci dice la linguistica moderna - sono privi di significato e, tuttavia, rendono possibile la significazione? Non, quindi, propriamente di fonosimbolismo si tratta, ma di una sfera, per cosi dire, al di qua o al di là del suono, che non simbolizza nulla, ma, semplicemente, indica un'intenzione di significato, cioè la voce nella sua

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