Alfabeta - anno III - n. 20 - gennaio 1981

guardia, che prende spunto, senza dire chi ne fosse l'autore, da un testo del '64 di Guglielmi. Pasolini vedeva nella tendenza «a escludere la metaforicità della lingua in favore della sua metonimicità» il tratto retorico maggiormente responsabile del passaggio a una poesia con figure «senza ombre, senza ambiguità e senza dramma, come dei formulari impersonali o dei testi accademici». Al di là della ben nota avversione di Pasolini per tutto questo tipo di poesia, l'indicazione è segnaletica di un certo successivo ricambio appartenente alla poesia degli anni settanta: il privilegio della metafora rispetto alla metonimia, l'attraversamento del linguaggio senza alcuna preoccupazione metalinguistica. Ques'to recupero del «pieno» della lingua della poesia - attraverso una linea che a ritroso va soprattutto da Pasolini a Penna a Saba - è evidente nei testi di D'Elia, dove la lingua, lo stile, i modi e i temi cercano nelle intenzioni morali del proprio ruolo un'immagine credibile, e la giustificazione dell'arte in un doloroso confronto con la realtà non privo di confessioni personali e di appunti diaristici. I moti e i ritmi di una versificazione confortata da moduli tradizionali costituiscono una sorta di grande ventre materno cui affidare il proprio concepimento poetiçQ: un rifugio e una protezione confortanti, fra presenze diverse di fantasmi delusi e assenze di realtà immaginate nelle sfaldature del tessuto lirico continuamente ricattato dalla brutalità del reale (si vedano ad esempio «Passaggi»,« on soltanto di lui.... », o certe poesie della sezione «Tu» di disarmante tenerezza, come quella che comincia: «Dopo è caduta la neve»; o quell'altra che dice: «Soli dal mare essere arrivati in un paese / sperso con tutto l'orgoglio di chi arriva / dal solo mondo che conosce e si stupisce / che accettare lì si possa anche di vivere/ fuori dal mondo nostro oltre la sete»). Q uella di D'Elia è una poesia che fa continuamente appello alla vita, e cerca di darsene motivo in una lettera a Roversi qui pubblicata a mo' di autopresentazione: so quanto possano essere discutibili talune affermazioni a proposito di quella poesia che lui definisce «neoclassica», come so pure che «la poesia come senso della vita perduta» non ha per tutti i poeti lo stesso grado di transazione, il che vuol dire che esclude ogni univocità di linguaggio. Però il sogno di una poesia come vita del sogno della vita (è una delle affermazioni centrali di D'Elia: si veda la terza parte di «Appendice di maggio per versi senza resa») è tutto da dimostrare - come è ovvio - nel suo luogo istituzionale: il testo poetico. Ogni altro riferimento è il sogno di un sogno ulteriore. C'è in questa predisposizione a far della vita il mondo in cui si svela la sostanza della poesia, l'istanza della «comunicazione», che è il tema più dibattutto - forse - da quel pubblico «incompetente» di cui parlava Majorino. Ed è l'istanza della comunicazione il luogo in cui si polarizza il rapporto tra domanda di poesia e offerta di senso: il bivio di cui parla ancora Majorino a proposito della poesia di Lumelli, negli «Interventi» a Trauatello incostante, collocabile «tra il lavoro di quasi tutti i nuovi poeti (il campo della scrittura non è quello della realtà; la poesia non ha origine dal mondo ma origina un mondo) e la domanda spesso ancora inespressa e malformulata di giovani sempre più numerosi (la scrittura deve comunicare; la poesia viene dal mondo e torna nel mondo) .... • Ma «una poesia - dice Lumelli; e questo è un ottimo modo per parlare anche della sua - può cominciare a parlare per una decisione eccessiva, una responsabilità totale rispetto alla lingua che si muove nei fatti. Non potrà più controllare le risposte, riprendere tempo in sé. Anche diminuendo il distacco, accostandosi, lasciandosi invadere o invadendo il tempo che la circonda, si accorgerà che non è qui, nella maggiore o minore compagnia con le cose, la sua salvaguardia e la sua giustizia. È costretta a essere sempre un po' più in là del linguaggio consumato». E le conseguenze sono pressanti: una poesia, in fondo, non comincia mai; deve fare i conti col «tempo» (l'altro tempo della storia) sottraendovisi ma riproducendolo dentro di sé non come imitazione ma come mutamento; «la poesia invece di espellere verso il visibile le cose, mediatrice tra il silenzio e il parlato dei fatti, è diventata un terzo punto di scomparsa. Si scompare nella sua forma». Alla tentazione di equiparare i fatti, le cose, le persone al dramma delle parole, la poesia risponde di parlare per una verità che nei fatti «non ha potuto consumarsi né essere pensata ( ...) perché i fatti narravano mentre avvenivano, ma la loro storia soltanto, non ciò che nasce davanti alla loro porta». Bisognerà verificare, da lettori, questi assunti nel corpo del Tra/late/lo incostante? Verificare è una parola che la poesia non accetta perché essa è vertigine e alterazione. Allora basterà «incontrarsi» nei punti di maggiore tensione espressiva, là dove -come nel testo che dà il titolo al libro - la poesia di Lumelli organizza lo stare in attesa di ciò che nella lingua deve solo accadere. Nell'attesa dell'evento è del resto tessuto tutto il libro (dalla splendida «prosa» dell'«Autopresentazione» a tutti gli altri testi di poesia) che, per chi ha conosciuto il Lumelli di Cosa bella cosa, così vàrio e tuttavia essenziale (per esempio nei temi della campagna: quando uscì quel libro mi fece pensare a un Esenin tutto nostro, un poeta contadino precipitato per dispetto in una città terrifica, ma mai surreale), può indurre l'impressione di un lavoro interlocutorio, un capitolo di un libro più vasto e più composito che si va scrivendo. Ed è questa «interlocuzione» - simbolicamente - il carattere dominante, come io credo, di tutta la poesia di Lumelli: tutta scritta fra intermittenze e incostanze, salti e balzi, col piede sempre levato a battere il percorso «autonomo» delle parole. Davvero, ogni poesia nuova costringe a leggere la precedente in modo differente. ' E soprattutto questione di poetica. Qualcuno dirà lo stesso, fra qualche anno, della poesia attuale, quando sarà stato trovato un altro legame col tempo delle parole della poesia. Allora, al di là delle dichiarazioni che possono essere sbagliate o dimostrarsi insufficienti, ci accorgiamo che certi autori il tempo li avvalora e li restituisce nuovi. È il caso di Di Ruscio. Sulla cui poesia ha pesato per diver~o tempo in modo riduttivo la definizione neorealistica, per circoscriverlo e dimenticarlo in un campo tutto rosso e proletario. «La poesia può anche esprimere la rabbia di dover esprimere tutto», dice un verso della composizione LV contenuta nelle sue Istruzioni per l'uso della repressione. E si può assumere questa dichiarazione come quella che interessa il tono dominante del libro insieme con un'altra che riguarda la situazione particolare della scrittura di Di Ruscio: per lui, emigrato dal '57 in orvegia dove vive facendo l'operaio metalmeccanico, l'essere deterritorializzato rispetto alla propria nazionalità linguistica è una condizione poeticamente formalizzata: «come se solo questa spatriazione ed estraniazione fosse l'unica terra possibile» (LVII). Il suo quindi è un territorio linguistico percorribile solo col privilegio di una scrittura comune, quotidiana, perché l'italiano in cui Di Ruscio scrive non è il norvegese che egli stesso parla: «non c'è nessuna frattura - egli dice - tra l'italiano che adopero per scrivere le lettere e l'italiano che adopero per le mie poesie». Questa sarebbe una condizione adatta a consentire il massimo della «co~unicabilità». Eppure nesun lettore di poesia prenderebbe sul scrio come fatto comunicativo l'enorme massa di informazioni, le considerazioni politiche, sociologiche, scientifiche, occasionali, paraculturali, marginali, banali, più o meno «insignificanti» che costituiscono il materiale bruto, si direbbe di scarico, che poi si addensa in tutta la poesia di questo libro. Precisamente come nessuno prenderebbe come un fatto espressamente comunicativo i lunghissimi elenchi rabelai iani dei giochi di Gargantua. L'eccesso di comunicazione è il sintomo di una indicibilità profonda che riesce a coagularsi in rabbia, in esplosione di messaggi continuamc111e in cortocircuito, continuamente insidiati dal silenzio. Eppure c·è nella poesia di Di Ruscio la magia crudele degli incantesimi maligni: versi scaturiti da un inferno visto e toccato («la fantasia infernale non ha un estremo anche se scorre verso gli estremi», CX) e dal quale il poeta abbia omesso di ritrarsi per forza di cose o di circostanze, dannato a scrivere per affermare la gratuità di quell'atto: «non avendo veramente nulla da perdere potrei scrivere tutto», egli dice; o ancora: «scrivere poesie è facilissimo basta avere il coraggio di ingoiare tutto»; ma la poesia è qualcosa che si libera espellendo: «se non riuscirai a vomitare sarai strozzato» (LX); ed è anche l'unica sua ricchezza: «io sono riuscito( .... )/ ad essere proprietario di questo linguaggio che potrei continuare/ sino alla distruzione della macchina da scrivere» (LXIII). Macchina che, emblematicamente, diventa lo strumento di lavoro dell'attività poetica, una macchina in moto perpetuo e in perpetua azione, ma centrifuga, come a liberare il nucleo incandescente delle proprie parole dalle ceneri dell'occultamento (censura e repressione): «immagino quello che non è stato ancora espresso il perso il non accumulato/ tutto quello che non hanno avuto il coraggio di rileggere due volte/ le storie non scritte i deliri non verbalizzati la parte di me stesso oppressa / la parte che opprimo e mi minaccia ....» (LXXV). È dunque sul progetto della comunicazione (la poesia deve comunicare o n_o?è per sua natura comunicativa o anticomunicativa? interessata o indifferente alla comunicazione?) che sembra destinato a svilupparsi ancora - si direbbe a oltranza - il dibattito tra poeti e pubblico della poesia. Ma se una nuova poesia postula un pubblico nuovo, sull'orizzonte di un'assoluta novità di lettura di poesia è destinata anche a profilarsi l'aggregazione dei consensi che un testo suscita in rapporto alla pluralità dei sensi che contiene. Il che non può non modificare in qualche modo l'atteggiamento dei poeti rispetto alla propria materia, così come non può non modificare ulteriormente l'atteggiamento dei lettori. Si tratta di una sfida sempre aperta. Che la collana di poesia di Majorino e Roversi si ponga in questo spazio critico è certo un'avventura culturale interessante. LospaziQ.. "fl magico J. Michelet La. Strega Torino, Einaudi, 1980 pp. 256, lire 5.000 G. Roheim Origine e funzione della cultura Milano, Feltrinelli, 1972 pp. 120, lire l.500 G. Roheim Magia e Schizofrenia Milano. Il Saggiatore. 1973 pp. 222, lire 5.000 . O. Brown Corpo d'amore Milano, Il Saggiatore. 1966 (esaurito) S enza seguire in dettaglio la ricerca di Foucault entro quei «gesti confusi» della storia per reperire l'«evento di rottura», la cesura originaria che pone una distanza fra ragione e sragione, il vuoto costitutivo che s'instaura fra la ragione e ciò che non lo è, affermeremo con lui che l'uomo europeo, fin dal profondo Medioevo. è in rapporto con qualcosa che egli chiama confusamente Follia, Demenza, Sragione. Esistono cioè nella storia della cultura europea - al di là del divenire orizzontale, sintagmatico, della ragione - la traccia di una .:ostante verticale e, insieme, una vicenda di limiti: movimenti oscuri ma decisivi con i quali una cultura respinge qualcosa che sarà, da quel momento in poi, uno spazio bianco, un vuoto su cui si edificano i valori. le ideologie. Queste cspericnze-limite della storia occidentale ci rendono conto della sua stessa nascita, della sua lacerazione costitutiva: cesura del tragico, dell'Oriente, della sessualità, della follia, della magia ... Si pensi per esempio, come riferimento culturale, alla commistione di follia, di magia, di alchimia, di ragionata insensatezza reperibile come traccia nella Narre11Sciff di Scbastian Brandi (1497), o nella Cura della follia, nella Nave dei folli, nelle varie Tentazioni di Bosch, o nelle criptiche, inquietanti figurazioni di Bruegel: tutte testimonianze di un sapere che si pone come capovolgimento e che ann·uncia l'avvento di una notte in cui si consumerebbe interamente la rar.io occidentale. È in questo contesto e in questa prospettiva che va considerato il fcnomcno della stregoneria, di cui lo storico Jules Michelet ci ha dato, nel 1862, un ritratto, un'analisi di una sorprendente modernità: La Strega, - ora negli «Struzzi» einaudiani con una mirabile prefazione di Roland Barthes. . Si tratta, per Michelet, di ricostruire «la storia di chi 'l0n ha mai avuto storia», e di opporre, in modo profondo, al sesso maschile il sesso femminile- la -,-11111111■ soggettività soggetta. L'interesse eccezionale di questo studio consiste principalmente nel fatto che Michelet concepisce la storia come una serie di sostituzioni, di sovvertimenti: il riflusso del Bene nel Male, della luce nella notte, dei farmaci nei veleni: contraddizioni necessarie - come scrive Barthcs - per «quelle rotture decisive che introducono a vere e proprie teofanie storiche: Giovanna ò' Arco (sublimazione della Strega), la Rivoluzione». E poi, questa sorta di a111istoria è una storia di funzioni- sia pure di funzioni personificate (secondo un procedimento che precorre certi modi del pensiero etnologico, di Mauss in parti- , colare). La giovane moglie del servo comincia a prestare ascolto a quelle manifestazioni soprannaturali (di origine pagana) che la Chiesa ha espulso; poi, quando il rapporto Legge/Sfrutta-

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