Alfabeta - anno II - n. 19 - nov.-dic. 1980

Comando Supremo dell'Esercito Italiano. Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il servizio fo. tografico e cinematografico Roma, 1917 cLa guerra rappresentata,., in Rivista di storia e critica della fotografia, I, l, 1980 11 punto di partenza, ma anche la causa occasionale, di queste brevi riflessioni è costituito da due oggetti molto parziali: un insieme di fotografie censurate durante la Grande Guerra e il fascicolo Norme per i corrispondenti di Guerra. Prescrizioni per il servizio fotografico e cinematografico, stampato nel 1917 dal Comando Supremo dell'Esercito Italiano. Entrambi questi oggetti sono stati proposti nella mostra La guerra rappresentata, tenutasi recentemente ad Asti, e nell'omonimo fascicolo della Rivista di storia e critica della fotografia che lo accompagnava, diretta da Angelo Schwan. Una immediata osservazione. Nel caso che ho preso in esame, la censura si svolge secondo modalità rigidamente regolate, e suddivise in due movimenti. Primo movimento: 11n sistema di norme che prescrive quantità e qualità delle fotografie consentite, prevedendo i modi di produzione ammessi e quelli vietati, i messaggi ammessi e quelli vietati, il materiale pro-filmico (cioè gli oggetti reali) ammesso e vietato. Secondo movimento: le fotografie, una volta prodotte, vengono proibite o accettate apponendo nel primo caso un tratto di penna o una motivazione scritta su di esse, e nel secondo caso un timbro di permesso sul retro. Fra le norme più curiose, potremmo citare quella che prescrive di girare ogni mille metri di pellicola almeno duecento metri con soggetti forniti dal Comando (e cioè ogni tipo di alti ufficiali); oppure quella che non si limita a descrivere oggetti proibiti (armi strategiche, postazioni difensive), ma anche sentimenti proibiti (immagini che possono abbassare il morale dei soldati e della popolazione). Riassumendo: la censura esercitata da un'istituzione (in questo caso l'esercito in nome dello Stato) si svolge secondo una legge esplicita e secondo una pratica esplicita, che alla prima rinvia. ln altre parole, si svolge secondo un sistema che ha tutte le caratteristiche di un sistema semiotico: un tipo prefissato, e delle occorrenze individuali; una grammatica e delle frasi grammaticali. In entrambi i casi, l'istituzione si firrna,e dice cio,.. E la censura avviene materialmente secondo la modalità che etimologicamente è espressa dalla parola la cui radice è la stessa di «censimento,., misurazione, e non «censura,. = taglio come nell'uso corrente, e dunque attraverso una «censura,., una classificazione, un principio dichiarato e attivo, non implicito e passivo. In sostanza, la censura è un'azione, non la negazione di un'azione. Non è un «non far sapere,., ma un cfar sapere,. diverso dal «far sapere,. comune, nonché una produzione di sapere. La questione è meno banale di quel che sembra, e vediamo perché. Noi sappiamo che esistono numerosi modi della censura, di cui il vero e proprio taglio, che conosciamo oggi, cioè un'operazione attiva e impersonata da qualcuno (il carceriere che cancella frasi delle lettere dei detenuti, il pretore che taglia scene di un film, il prelato del Sant'Uffizio che mette all'indice le pagine di un libro) è soltanto quella più evidente, quella che agisce direttamente sul corpo sociale o su un suo rappresentante. Ma altre forme di censura possono essere perfino più forti. Non è questa la sede per esaminarle; basterà qui solo accennare per esempio alla censura collettiva, frutto della pressione sociale, che funziona - per cosi dire - per «astensione,., cioè attraverso la consegna implicita del silenzio; o alla cosiddetta «censura del mercato,., che funziona per mancanza di alimentazione economica di un prodotto culturale; o alle varie censure LaGrandeCensura operate dai mezzi di informazione, che funzionano attraverso strategie sintattiche (giustapposizione, confronto, inversione d'ordine delle notizie) o addirittura per «addizione», cioè aggiungendo qualcosa in più a una notizia, col risultato di produrre non già una somma A + B, ma un diverso oggetto AB. Q uel che voglio proporre in questa sede è che la censura, nel suo senso etimologico di «censimento,., sia la forma propria deUa censura istituzionale, e che nel suo assetto di sistema sia produttrice di senso. Di più: che sia addirittura l'unica forma di censura attuabile e conveniente per l'istituzione. La ragione risiede nel fatto che la censura, lungi dall'essere una pura sottrazione o detrazione di un oggetto o di un evento dalla sua circolazione pubblica, è anche un atto linguistico, una costruzione di discorso. Come ho già detto, essa comporta infatti non solo un'azione, ma anche una enunciazione con una firma, e il cui soggetto è sempre un «io». In termini di teoria dell'enunciazione, questa è appunto la caratteristica del discorso, contrapposto alla «storia», il cui soggetto viene sempre nascosto, (de)negato per mezzo di terza persona, tempo al passato, eliminazione del equi e ora». Se questo è vero, l'atto del censurare consta allora di due diversi momenti funzionali: uno diretto negativamente contro l'oggetto della censura, ed uno diretto ad affermare l'identità del censurante. E poiché il fatto che qualcuno censuri qualcun altro è la manifestazione di un potere, questa affermazione di identità diventa l'affermazione dell'identità del potere. Anzi: la sua riconferma e la sua legittimazione mediante un atto linguistico. Il potere costruisce un diritto di prendere la parola, cioè rende concreta la propria sovranità, e poi prende la parola secondo diritto, cioè attua una disciplina. Portando il discorso alle estreme conseguenze, potremmo forse spingerci ancora più in là, e sostenere addirittura che è proprio questa seconda funzione a divenire assolutamente predominante. In certi casi, insomma, è più importante censurare per autolegittimarsi che non censurare per reprimere e prevenire. Questa priorità - la storia ci dimostra - diventa imprescindibile laddove una crisi istituzionale sia forte, o laddove una situazione di emergenza renda necessaria una coesione del potere. Lo stato di guerra, ad esempio, è per definizione il momento della massima emergenza, e conseguentemente della massima censura. Il paradosso di tutto ciò è che al limite si può dare una fortissima censura senza che vi sia nulla da censurare. Un esempio di quanto sto affermando è offerto per l'appunto dalle foto censurate dal Comando Supremo dell'Esercito Italiano, e dalle regole prescritte dal libretto citato in apertura. Come nota Ando Gilardi ne cl tabù Omar Calabrese impossibili della censura fotografica militare», appartenente al suddetto fascicolo della Rivista di storia e critica della fotografia, in realtà queste famose Norme non sono poi nulla di speciale. Quasi dispiace, anzi, che esse non siano rigide. È un furto al nostro sempre disponibile senso dell'indignazione. Non sono, ad esempio, più rigide delle regole che presiedono all'opera della censura cinematografica odierna negli Stati Uniti. E si risolvono in elenchi di immagini da non riprendersi perché oggetto di spionaggio, o di rappresentazioni proibite per non danneggiare il morale dell'Italia combattente. Le fotografie, poi, sono spessissimo oggetti anonimi, e la loro censura ci risulta incomprensibile, se non motivata appunto dalla fondamentale ragione che l'atto del censurare sia necessario assai più che non la scomparsa del censurato. Perché mai, ad esempio, cassare l'immagine di una chiesetta bombardata dagli austriaci, quando questa anzi potrebbe provocare un aumento dell'indignazione popolare? O perché eliminare l'immagine della distruzione di un negozio di pollivendolo? li Forse per via della possibile metafora «ci uccidono come polli»? O, al limite, quale stranezza e perversione risiede mai nella foto di un cannone scoppiato, un piccolissimo cannone che è perdita altamente prevedibile per un esercito in guerra, e che potrebbe essere confrontato con cannoni nemici parimenti scoppiati ma molto più grossi? A mio parere non è utile cercare ragioni puntuali e specifiche di ogni singolo atto censorio, chiedersi perché quella immagine individuale sia stata censurata. In molte occasioni, probabilmente, si tratta solo di varianti la cui esatta decifrazione è meno pertinente che non l'analisi del dato comune, dell'invariante dell'atto censorio, che è il modello di cui esse sono occorrenze concrete. In molti, troppi, casi infatti l'unica spiegazione di buon senso sarebbe che il censore era completamente stupido. A nche la questione della stupidità, come diceva Musi!, non è però priva di rilievo. Domanda: il censore stupido è utile o disutile all'istituzione che lo impiega? La logica che regge questo intervento risponderebbe: indifferente. La stupidità del singolo censore è in effetti ampiamente prevista dall'istituzione. Ho già detto che a mio parere il fondamento della censura istituzionale è l'atto censorio autolegittimante, non l'oggetto da censurare. E che pertanto la censura deve essere firmata, prodotta da qualcuno che dice «io». Ma dice «io» a chi? Ecco il nuovo problema.· L'atto censorio, per essere veramente efficace, deve non cancellare l'oggetto censurato, ma quasi-censurarlo. Se l'atto censorio non diventa palese, se resta segreto, il suo valore di autolegittimazione cala sensibilmente. In questo senso, dunque, l'istituzione vuole, anzi deve far sapere il proprio operato. Molte sono le forme in cui ciò può accadere. L'editto, per esempio: si annuncia con clamore che c'è la censura, si fa divenire il sistema delle regole di cui abbiamo parlato esso stesso un atto linguistico. O l'indiscrezione: si fa sapere che c'è un segreto pt:r far sapere che c'è la segretezza. E cosi via, in una casistica minuziosa, che può comprendere la stessa stupidità: lo stupido è ridicolo e clamoroso; ma il ridicolo, proprio perché è ridicolo, si diffonde rapidamente; e non solo in quanto ridicolo; esso porta infatti con sé anche una traccia, un indizio del superiore e serissimo ordine o sistema di cui esso è soltanto un incidente. In tal senso, la censura stupida diventa subito anch'essa una qua~i censura, o una rappresentazione della censura. Come le sbarre nere sui capezzoli delle attrici nude nei manifesti dei film cochons. Nuova domanda. Se è vero, però, che ogni repressione ed ogni autolegittimazione producono, anzi quasi gemmano, la rivolta, qual è l'utilità vera della censura per l'istituzione? Abbiamo visto che l'oggetto censurato ha una importanza relativa. Se adesso cominciamo a limitare quella dell'autolegittimazione, dove sta più il fine? Innanzitutto, diciamo che nel caso della censura siamo di fronte ad una forma particolare di autolegittimazione. È l'autolegittimazione in virtù di una morale, di un principio di ordine «superiore». Il bene comune. Il benessere dei cittadini. La difesa della patria. L'integrità dei giovani. La salvezza dei costumi. Attraverso la censura, dunque, si ristabilisce o si riconferma il principio di uno Stato Etico, non già di quello del contrasto sociale. Perfino negli Stati moderni - democratico-liberali - avviene una eticizzazione: la censura assume la forma di un debito da pagare in cambio della difesa del contratto sociale, divenuto esso stesso da convenzionale a etico. Proprio attraverso l'analisi della censura, anzi osservando la censura operata sulle immagini nella storia, vien fatto di notare che il principio dello Stato Etico (o meglio dell'eticità dello Stato così come la stiamo qui sommariamente definendo) non è solo un frutto del pensiero giuridico-filosofico-politico. Non esiste, insomma, solo in Platone o, modernamente, in Fichte. Esiste, invece, per l'appunto nella pratica quotidiana dell'esercizio del potere istituzionale. Durante la controriforma, ad esempio, lo stato pontificio riusci ad emanare una serie di regole censorie di impressionante attualità nel campo dell'immagine visiva. Nel I 582 un cardinale, peraltro neppure molto colto, né precedentemente dedito ad opere di storia e filosofia, il cardinal Paleotti, vescovo di Bologna, ebbe a scrivere un trattatello, rimasto incompiuto, Sulle immagini sacre e profane, dove si dava un canone minuzioso di come i pittori dovessero comporre i loro soggetti artistici, pena l'esclusione dalla «storia» (vale a dire dal mercato della committenza religiosa) in nome dell'eticità del committente istituzionale, e dell'eticità dell'arte stessa che veniva, con un atto politico di grande rilevanza per la storia futura, legata strettamente all'istituzione. C'è un secondo ovvio principio di utilità, comunque, nell'introdurre questa forma di autolegittimazione che è la censura istituzionale. Esso consiste nella trasformazione dell'autolegittimazione anche io una forma di controllo sociale. L'autolegittimazione censoria infatti, ricorrendo allo stato di necessità, introduce - implicitamente - l'asserzione che tale stato di necessità sia contro qualcuno. Si evoca, insomma, sempre il fantasma di un nemico, e con ciò si introduce ilmodello della società all'interno di un modelli di guerra. Detto altrimenti: la censura istituzionale presuppone un modello statuale bellico, sia nei casi di guerra effettiva, sia nei casi di guerra potenziale. Con le conseguenze sul piano della successiva legittimazione di un ordine poliziesco che tutti conosciamo. Ma il prodotto di questa concezione bellica e non pacifica dello Stato (peraltro va notato che non conosco stati senza polizia, e forse non ne possono esistere) non è soltanto una promozione del controllo diretto sul corpo sociale. Per il solo fatto di «sapere» che c'è censura, si produce infatti anche l'autocensura, che è la forma più perfezionata del controllo sociale, perché assolutamente non costosa e addirittura sfruttabile sul piano propagandistico con la assimilazione al cosiddetto «consenso». Il ciclo si chiude. Un «non far sapere», la censura, è in realtà un «far sapere» particolare, diverso dal «far sapere» comune, ma produce, in ultima istanza, un «non far sapere individuale», cioè una frantumazione del corpo sociale e una sua ricomposizione - la sola possibile, anche se falsa o per lo meno non vera - sotto il segno del consenso all'ordine vigente. Certo, si potr.à subito dire che la censura produce non solo consenso implicito, ma anche dissenso esplicito. Il meccanismo, tuttavia, non cambia di molto: il dissenso tende a strutturarsi specularmente nei confronti dell'ordine vigente, a «censurarlo» a sua volta. In qualunque ottica la si voglia esaminare, dunque, la censura si materializza non tanto come una forma di «eliminazione» dell'avversario sotto veste comunicativa, quanto piuttosto come produzione di un sapere classificato, e come riproduzione in tutti i suoi elementi del modello del conflitto, nel quale però l'antagonista è sempre già prefigurato nel suo ruolo di perdente. La censura, in altre parole, è una rappresentazione fedele del conflitto sociale, ma proiettata in un esito ideale: l'atto del censurare risulta cosi solamente un passaggio, fra i due termini conflittuali, del tutto necessario logicamente.

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