Alfabeta - anno II - n. 19 - nov.-dic. 1980

r AA.VV. Gli anni deUe riviste (1955-1969), Oasse, n. 17 Bari, Dedalo, 1980 pp. 280, lire 5.000 Attilio Mangano . Origini del.la nuova sinistra: le riviste degli anni settanta Firenze-Messina, D'Anna, 1979 «Per un nuovo marxismo della crisi», in Unità proletaria 1-3, 1980 pp. 164, lire 4.200 Gianni Sassi «Il signor Carlo Marx, suppongo» in Alfabeta, n. 14, giugno 1980 AA.VV. «La cultura dell'estremismo•, in· Alfabeta, numeri 10 {febbraio), 11 (marw), 14 (giugno), 15-16 (agosto) O signor Giuseppe Stalin, suppongo (R. Luperini) S u un punto, fondamentale, Sassi ha ragione (Alfabeto, 14): quando la crisi economica ha cominciato a farsi sentire, invece di denunciare i limiti del capitale, la sinistra (quella ufficiale - attraverso la teoria dei «sacrifici» - non meno dell'estremi~mo) ha sposato la cultura della miseria, rivelandosi mero prodotto ideologico della. crisi capitalistica. Aggiungerei un altro argomento, non meno rilevante. Una delle conseguenze più evidenti della crisi è stata la disintegrazione del tessuto sociale, con l'emarginazione di strati consistenti della popolazione e con effetti devastanti anche sul piano psicologico individuale. Vi ha corrisposto, all'interno della sinistra, la cultura della crisi del soggetto. Il fenomeno sta dilagando in ogni settore: dalla sociologia alla politica alla psicoanalisi sino, addirittura, alla poesia. La centralità del soggetto sociale (nel nostro caso: la classe operaia) è messa in discussione in modo radicale, insieme con quella del partito operaio; nel frattempo si possono leggere elogi della schizofrenia e, in letteratura, teorizzazioni di poetiche in cui lo stato di emarginazione diviene quasi condizione privilegiata - e unica autentica - dell'atto poetico. . Anche qui un prodotto della crisi viene ideologicamente assunto come un dato «neutrale» e oggettivo, se non addiri~tura positivo. li tentativo capi- • talistico di disgregare le formazioni sociali preesisten~i secondo la logica del decentramento produttivo, riducendo anzitutto la consistenza materiale e il peso politico della classe operaia, non ,.,iene contrastato ma avallato. Mentre Nietzsche e Heidegger hanno sostituito rapidamente Marx in settori della «vecchiaitsinistra, in altri della «nuova» la teoria dei bisogni è stata ridotta nei termini di un soggettivismo e di un empirismo frantumanti qualsiasi possibilità di ricostituzione di un soggetto sociale e politico. La stessa crisi del Pci e dei partitini alla sua sinistra è stata considerata come crisi della «forma-partito» tout court, proprio mentre si andavano riorganizzando le forze politiche borghesi, a partire dalla Dc, e il Psi si apprestava a raggiungere livelli di presa elettorale e organizzativa mai raggiunti negli ultimi vent'anni. Sotto la copertura di tanti discorsi sulla crisi del soggetto, sta marciando una vera e propria restaurazione del soggetto {dal grande capitale a Wojtyla sino al fenomeno minimo del «giovane» poeta scimmiottante, magari nella rinnovata veste di cantautore, ruolo e funzioni del passato). Anche all'interno della sinistra, insomma, si è diffusa un'ideologia che costituisce, nelle sue varianti, un 'apologia indiretta della fase attuale del capitalismo. Beninteso, il problema della scomposizmne •del soggetto esiste materialmente tanto sul piano sociale e politico {basta pensare alla fratt1,1Tafra classe operaia «forte• e classe operaia «debole», fra settori «garantiti» e disoccupati, e cosi via) quanto su quello individuale (come non possiamo non sapere, a partire da Freud); ma è anche vero che, se si rinuncia a impostare teoricamente e politicamente la questione della ricostituzione del soggeuo, e dunque del futuro dell'uomo, ci si consegna passivamente al tipo di sviluppo - e di presente - capitalistico, e si finisce per giustificarlo idealmente. li mio non è un elogio dell'utopia. È piuttosto un invito a progettare una cultura della trasformazione sociale e politica, e dunque della ricostituzione del soggetto, che parta materialisticamente dalle contraddizioni reali (le scissioni della soggettività esistono effettivamente) e tenda a superarle, mantenendo aperto un attrito fra conflittualità e ricomposizione, ma ponendosi anche l'obiettivo di un maggior equilibrio fra le varie parti del soggetto (sia esso un corpo sociale o un individuo). L'elogio della conflittualità fatto da Craxi (a cui si accoda un settore «garantista• della nuova sini- _stra),cosi come l'interesse alla schizofrenia di certi teorici francesi, mi lasciano piuttosto perplesso . Una cultura materialistica della trasformazione non può ovviamente prescindere dal pensiero di Marx, dalla capacità di conoscenza, di negazione e di progettazione (anche nel senso della ricomposizione del soggetto) che in esso è implicita. Ma non può basarsi dogmaticamente su un presupposto «marxismo coerente», concepito come teoria immobile e inverificabile. È qui, mi pare, che Sassi comincia ad avere torto. Egli scrive che la cultura «di sinistra» itpliana «assistequietamente alle esequie del marxismo solo perché sono crollati pateticamente i miti che i marxisti coerenti hanno sempre combattuto e che nessun proletario intelligente ha mai preso sul serio•. Fra questi miti che nessun marxista coerente e nessun proletario intelligent:: avrebbero mai preso sul se-. rio Sassi annovera il modello cinese, il movimento studentesco,· la guerriglia guevarista, la predicazioné operaista. A parte il pregiudizio eurocentrico (in un miliardo di lavoratori cinesi non vi sarà neppure un proletario intelligente?), Sassi sbaglia per difetto: Perché non dice anche che sono caduti il modello dell'Urss e quello vietnamita? Sia intenzionale o casuale questa dimenticanza,ilnodo-comevedremosta proprio qui. Per Sassi tutto sembra ridursi, alla fine, a una questione di purezza teorica edi «battaglia delle idee». Una volta impostata cosi la questione, non resta che dare di frego su buona parte della storia recente del movimento operaio internazionale e delle lotte nel nostro paese e ritornare indietro, sempre più indietro, alla ricerca delle fonti originarie e magari di qualche octodossia. Cosi non si capisce che la «crisi del marxismo» è reale. In altri termini: essa non è solo il frutto diabolico della manovra dell'avversario subita passivamente: è nelle cose, nei fatti materiali. E non dipende, ovviamente, da una pretesa debolezza scientifica del pensiero di Marx. Dipende dalla crisi, che è effettiva, del movimento operaio intero azionale e della prospettiva rivoluzionaria a livello mondiale. È in crisi la teoria perché è in crisi il soggetto al reale che produce teoria: la classe operaia internazionale. on è una situazione nuoya: anche all'inizio del secolo si ebbe un'a «crisi del marxismo» (e Benedetto Croce non esitò a decretarne la morte, suppergiù come Glucksmann); ma l'involuzione positivistica della teoria non era che la conseguenza di un'involuzione del movimentJ:>"operaiosu posizioni riformiste e gradualiste ohe lo collocavano a rimorchio dei gruppi dominanti borghesi. Lenin e la Luxemburg e poi, in Italia, Gramsci non negarono affatto che esistesse una «crisi del marxismo», e le dettero una risposta che non fu solo teorica (e si trattò, allora, di una vera rifondazione del marxismo) ma anche pratica e comunque alla prassi strettamente e direi organicamente collegata. Oggi, purtroppo, i punti più elevati di riflessione marxista nel mondo sono probabilmente da individuarsi nella Germania Occidentale e negli Usa: e ciò basterebbe a denunciare una dissociazione fra teoria e prassi che da sola serve a documentare la crisi del marxismo. La frattura del 1955-56 Non è possibile, oggi, la rifondazione di una teoria materialistica della rivoluzione riducendo la storia degli ultimi venticinque anni a un «catalogo. demenziale», come fa Sassi. Anche perché, al di là di quest'ultimo quarto di secolo, non s'incontra il signor Carlo Marx, ma il signor Giuseppe Stalin: non la purezza teorica del marxismo, ma l'ideologia del terzinternazionalismo. on si può, voglio dire, ignorare la frattura del 1955-56. Fu allora che si registrarono le prime grandi crepe nell'edificio del mondo comunista e le prime avvisaglie della «crisi del marxismo». Che, in realtà, è la crisi di un marxismo storicamente determinato, quello consolidato negli anni venti e trenta in Urss e diffuso poi, attraverso le guerre di liberazione nazionale, in Cina, in Vietnam ecc. Se si vanno a studiare, come hanno fatto gli autori del fascicolo speciale di Classe curatQ da Stefano Merli e ·dedicato alle riviste politico-culturali fra il 1955 e il 1969, i periodici che esprimevano il dissenso di sinistra nella seconda metà degli anni cinquanta, o se si rilegge l'introduzione {datata inverno 1956-57) che Fortini scrisse a Dieci inverni, si hà netta l'impressione che vennero allora poste le questioni nodali che oggi stanno tutte sul tappeto. Quello che stava·crollando non era soltanto un mito (il modello dell'Urss), ma un intero sistema ideologico. Suona oggi del tutto attuale l'alternativa posta allora da Fortini: «O il pensiero marxista italiano giudica se stesso non già soltanto ponendo•si come indipendente e autonomo dalle formazioniufficialimaoperandoquella radicale critica delle proprie premesse, sempre rinviata, o ·saremo destinati a recitare ancora la parte di un generico moralismo o di prospettive tanto remote da essere valide per ogni fine». Si-cominciòa cercare, in quegli anni, una diversa via, al di là dello stalinismo .e della socialdemocrazia. Lo stesso '68 è tutto dentro questa ricerca. egli anni sessanta, per I~ prima volta, si cominciò - lo ricorda molto· bene Mangano - a porre in modo diverso la questione della presa del potere: con l'analisi delle forme del processo produttivo avviata da Panzieri e dai Quaderni rossi venne rovesciato il nesso tra politica e produzione e il potere venne individuato non solo nel Palazzo ma dentro l'intera articolazione del rapporto di produzione; alla lettura catastroficistica, tipica del terzinternazionalismo, del capitalismo come stagnazione, putrefazione e assenza di sviluppo, se ne contrappose un'altra che, partendo da un esame del capitalismo di stato, coglieva il nesso piano-sviluppo. Ciò rendeva possibile, fra l'altro, una prima critica del socialismo realizzato: «l'identificazione fra socialismo e piano, vero e proprio asse portante della cultura politica terzinternazionalista» (Mangano) veniva posta sotto accusa e con essa veniva denunciata una concezione economicista della costruzione del socialismo: nella misura in cui il rapporto di produzione è inteso come rapporto sociale, intersoggettivo, i temi della soggettività possono essere rivalutati e «critica dell'economia politica e costituzione della coscienza di ·classe possono e sere affrontati insieme» (ancora Mangano). Si tratta d'acquisizioni, mi pare, da cui è difficile prescindere oggi. Ciò non significa, beninteso, che nel neomarxismo degli anni sessanta ci sia una risposta positiva alle questioni poste dalla «crisi del marxismo». 11 '68 approfondisce la rottura del 'S6 e getta il germe di qualche indicazione feconda; ma è ancora in buona misura interno alla crisi del pensiero terzinternazionalistico. «Vecchio» e «nuovo» vi si confondono: non solo in Italia, ma nella rivoluzione culturale cinese e nello stesso pensiero di Mao-Tze-tung e di Ho-Chi-minh: i quali (il primo soprattutto) presero sì atto, su alcuni punti importanti, di quella crisi, ma cercarono d'innestare il «nuovo» sul «vec·- chio» piuttosto che di fare decisamente i conti con quest'ultimo (cosicché esso, alla loro morte, si è preso decisamente la rivincita, con le conseguenze che ognuno può vedere). In Italia il «nuovo» di Panzieri fu vulgato nella versione distorta di Tronti, che forzò l'analisi panzieriana sino a ridurre tutta l'articolazione sociale ai rapporti di produzione e a far scomparire in essi la stessa società civile; ne vennero gli esiti economicisti ed estremisti dapprima di Classe Operaria, poi di Potere Operaio, infine· di Autonomia Operaia.Tutto unfiloneidealistico, soggettivistico, insurrezionalista - irrimediabilmente «vecchio» e giacobino - della cultura del '68 trova qui le sue radici, come ben mostra, nel già citato fascicolo di Classe, il saggio di Raffaele Sbardella dedicato a Classe operaia. Ancora: l'operaismo successivo alla .esperienza di Quaderni rossi ha finito per non distinguersi da quello di matrice dogmatica e terzinternazionalistica. a esso accomunato da una tradizionale concezione della centralità operaia. incapace di fare i conti coi •nuovi protagonisti sociali (se non relegandoli" di nuovo in secondo piano oppure promuovendoli sul campo al ~ rango di classe operaia). E anche per quanto riguarda l'analisi d<;:Icapitalismo e dell'imperialismo le interpretazioni in chiave superimperialistica diffuse a partire da Quaderni rossi {benché le posizioni di Panzieri fossero assai più ricche e complesse di quelle dei suoiepigoni)appaioriooggi il rovescio speculare di quelle catastroficistiche di marca «m-1». Eppure è da qui. da questa ricerca marxista avviata principalmente, in Italia. dalla nuova sinistra. che non si può non partire se si vuole rifondare una cultura materialistica. Ci sono dei se- °' gni oggi dai quali si può forse dedurre ..... s:: che il punto più basso di cadu1oa è stato raggiunto ed è in atto una ripresa. Dal ~ mese di lotte· in Svezia alla rivolta di ~ Danzica la classe operaia ricompare '.si t.

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