Alfabeta - anno II - n. 15/16 - lug.-ago. 1980

G.W.F. Hegel Jenaer Realphilosophie. Vorlesungsmanuskripte zur Philosophie der Natur und des Geistes von 18051806 hg. von Johannes Hoffmeister Hamburg 1969 (Erste Auflage 1931). Filosoria dello spirito jenese a cura di G. Cantello Bari. Laterza, I 971 D. Campana Opere e contributi a cura di E. Falqui Firenze, Vallecchi, 1973 pp. 642, lire 3.000 Q uesto testo ha per oggetto I'esposizione di una mitologia filosofica. Anche la filosofia - come la poesia e come la psicoanalisi - ha la sua mitologia, e anche la filosofia ha, come vedremo, la sua musa. La mitologia -di cui cercherò qui di ricostruire un capitolo - fa parte, in un certo senso, del mitologema originale della metafisica occidentale, di quel pensiero, cioè, che vuole render conto dell'uomo in quanto è un animale parlante. animai rationa/e. Come tale, essa è stata narrata più volte nel corso della storia della metafisica, anche se di rado è stata fatta oggetto di un'analisi tematica. La versione, che qui prenderò in esame. si trova nel manoscritto delle lezioni che il giovane Hegel tenne a Jena nel 1803-1804, pubblicato per la prima volta nel 1931-32 da Hoffmeister col titolo Jenenser Realphilosophie. Si tratta di un mito di fondazione, il cui oggetto è l'origine della memoria e del linguaggio. Accanto a questi, compare. nel mito, una terza figura, la voce. Ma, fin dall'inizio, dietro queste tre figure se ne nasconde una quarta. che è, anzi, il vero respiro che le anima e che tutte le raccoglie nel proprio fiato. Questa quarta figura è la morte. Nel primo passo che prenderò in esame Hegel, che, nella parte precedente aveva seguito il progressivo svolgimento dello spirito nascosto nella natura, descrive ora il suo primo emergere alla luce della coscienza, cioè il suo darsi realtà attraverso la memoria e il linguaggio. Nella sensazione e nell'immaginazione la coscienza non è ancora uscita alla luce, è ancora immersa nella sua notte, è «un sognare a occhi aperti» - dice Hegel - «vuoto e privo di verità». In un altro passo. questa notte è descritta in termini terrificanti: «L'uomo è questa notte, questo puro nulla, che tutto contiene nella sua semplicità, un'infinita ricchezza di rappresentazioni ed immagini delle quali nessuna gli sta di fronte... In fantasmagoriche rappresentazioni tutt'intorno è notte: improvvisamente balza fuori qui una testa insanguinata, là un'altra figura bianca e altrettanto improvvisamente scompaiono. Questa notte si vede, quando si fissa negli occhi un uomo -si penetra in una notte, che diviene spaventosa; qui ad ognuno sta sospesa di contro la notte del mondo». Con la memoria e il suo prodotto, il linguaggio, questa notte emerge alla luce. si fa giorno. «La memoria, la Mnemosyne degli _antichi> - scrive Hegel - «nel suo vero significato non consiste in un semplice richiamare fuori del suo elemento ciò che si è intuito con una semplice operazione formale» (non è, cioè, un semplice «tirar fuori dalla notte le immagini o lasciarle sprofondare in essa»}, bensì - dice Hegel - in ciò che essa fa diventare un fatto della memoria, un che di ricordato (er-innerung) ciò che abbiamo definito intuizione sensibile, che essa toglie nel tempo le forme dello spazio e del tempo, in cui essi hanno il loro altro fuori di sé e li pone in se stessa come l'altro di loro stessi - ~io mi ricordo - dice Hegel in un altro punto - significa: penetro nel mio interno, ricordo me, traggo me fuori dalla semplice immagine e pongo me in me»). la voce,lamol'te Così la coscienza acquista per la prima volta una realtà, a condizione che nell'oggetto ideale solo nello spazio e nel tempo, cioè avente l'esser-altro fuori di sé, questa relazione verso l'esterno venga negata ed esso venga posto idealmente per se stesso, così che diventa un nome. «Nel nome è tolto il suo essere empirico, cioè che esso è un concreto ... un vivente e un essente, ed è trasformato in un ideale puramente semplice in sé. Il primo atto mediante il quale Adamo ha costituito la sua signoria sugli animali e che diede loro un nome, cioè che li negò come esseri indipendenti e li rese per sé ideali». V ediamo che qui, innanzitutto, Hegel pone in stretta connessione memoria e linguaggio. «L'idea di questa esistenza della coscienVivia,1Lamarque za» egli dice «è la memoria, e la sua esistenza vera e propria è il linguaggio». Linguaggio e memoria sono inseparabili. Con ciò egli abbandona l'idea di una memoria naturale, distinta dal linguaggio, e mostra così - cosa a cui oggi la psicoanalisi ci ha abituato - che la memoria appartiene al simbolico. Il nome è negazione e, insieme, memoria e conservazione del nominato. Ma in che modo memoria e linguaggio sono esistenza e realtà della coscienza, sono coscienza? Qui vediamo comparire la terza figura, la voce, e, con essa, entriamo nel centro della nostra mitologia. «La voce vuota dell'animale» - scrive Hegel- «acquista un significato in sé determinato. Il puro suono della voce, la vocale, si differenzia, giacché l'orgario della voce presenta la sua articolazione come una tale articolazione nelle sue differenze. Questo puro suono viene interrotto mediante le consonanti mute, il vero e proprio arresto del mero risuonare, attraverso il quale principalmente ogni suono ha un significato per sé, giacché le differenze del mero suono nel canto non sono differenze per sé determinate, bensì determinano solo attraverso il suono precedente e quello seguente. Il linguaggio in quanto sonoro e articolato è voce della coscienza per il fatto che ogni suono ha significato, cioè che in esso esiste un nome, l'idealità di una cosa esistente, l'immediato non-esistere di questa». Il linguaggio umano-dice Hegel-è voce dellacoscienza, in essa la coscienza esiste e si dà realtà, perché il linguaggio è voce articolata. In questo Giorgio Agamben articolarsi della vuota voce animale, ogni suono acquista un significato, esiste com.e nome, come immediato non esistere della cosa nominata. Ma inche cosa consiste questa articolazione? Che cosa viene qui articolato? Hegel risponde: il puro suono della voce animale. la vocale, che viene interrotto e differenziato attraverso le consonanti mute. L'articolazione appare, cioè, come un processo di differenziazione, di negazione e di conservazione (di Aufhebung, per usare la terminologia della dialettica hegeliana) della voce animale. Ma perché questa articolazione della voce animale la trasforma in voce della coscienza, in memoria e linguaggio? Che cosa era già contenuto nel «puro suono> della voce animale, perché il semplice articolarsi, negarsi e conservarsi di essa. possa dar luogo al linguaggio umano come voce della coscienza? Solo se interroghiamo la voce animale potremo dar risposta a questa domanda. li segreto del linguaggio umano è nascosto nella voce animale. In un passo precedente delle lezioni jenesi, Hegel si pone, infatti, il problema della voce animale. eLa voce» - egli scrive - «è udito attivo, puro sé che si pone come universale; esprimendo dolore, desiderio, gioia, allegria, essa è Aujhebung, abolizione e conservazione del singolo sé... Ogni animale ha nella morte violenta una voce, esprime sé come abolito e conservato». Nella voce animale, dunque, l'animale esprime sé come abolito, conserva sé come morto. «Ogni animale ha nella morte violenta una voce, esprime sé come abolito e conservato». Se questo è vero, possiamo ora capire perché l'articolarsi della voce animale possa dar vita alla memoria e al linguaggio umano. diventare voce della coscienza. La voce - come morte e memoria dell'animale - contiene già in sé il potere del negativo e della memoria. L'animale, morendo, esala l'anima nella voce, si conserva in qflesta in quanto morto. La voce animale è, cioè, memoria della morte. Qui il genitivo della va inteso in senso soggettivo oltre che oggettivo. Memoria della morte significa: la voce è morte che conserva il vivente in quanto morto, morte che ricorda. Solo perché la voce è morte e memoria dell'animale, il linguaggio umano - che articola e nega il puro suono di questa voce, che articola, dunque, questa morte che ricorda - può diventare voce della coscienza, linguaggio significante. «La natura» -aveva scritto Hegel - «non poteva pervenire ad alcun prodotto durevole, essa non perviene mai ad alcuna esiste11za vera ... solo nell'animale essa perviene al senso della voce e dell'udito come alla traccia immediatamente dileguante del proeesso divenuto». 11 linguaggio umano - potremmo dire - è abolizione e conservazione di questa traccia dileguante, esso è, in una parola, la tomba della voce. Così. in esso, questa traccia immediatamente dileguante diventa nome. La morte dell'animale -che si conservava nella voce - diventa ora la possibilità del suo nome. «Alla domanda: che cosa è questo?» scrive Hegel «rispondiamo: è un leone, è un asino, eccetera; è, cioè, non un che di giallo, un qualcosa che ha zampa, e cosi via - un singolo indipendente, bensì è un nome, un suono della mia voce ... Lo spirito è in rapporto con se stesso; dice all'asino: tu sei un che di interno, questo interno è l'io, e il tuo essere è un suono ... Asino è un suono, che è qualcosa di affatto altro dall'essere sensibile. Fin tanto che vediamo l'asino, e anche lo tocchiamo e udiamo, siamo la stessa cosa, siamo immediatamente tutt'uno con lui e ne siamo riempiti. Ma venendo indietro come nome, esso è un che di spirituale, qualcosa di completamente altro>. Ma questo abolirsi del sensibile nell'elemento «spirituale» del nome, (nella parola «spirito», Geist, noi dobbiamo sempre sentire la sua connessione col soffio della voce, col jlarusvocis }, questo carattere di logos del linguaggio per cui esso è - dice Hegel - «essenza della cosa e discorso, cosa e parola. categoria», è possibile solo perché esso è tomba, morte e memoria della voce, solo perché, cioè, già nella voce stessa l'animale aveva espresso sé come abolito e conservato. li linguaggio - per il fatto di iscriversi nel luogo tolto della voce, in quanto è, cioè, voce articolata, foné énarthros, - è doppiamente memoria della morte: morte che ricorda e conserva la morte, grammatica e scrittura della morte. L'arthros, l'articolazione memoriale originale, è la morte. E questo è il mitologema della filosofia hegeliana, alla cui esposizione era rivolto il mio intervento. Mnemosyne, il principio originale della memoria, che già nella voce animale fa la sua prima apparizione e che, nel linguaggio umano giunge alla sua pienezza memoriale, è la morte. M a, allora, se questa è il nucleo della mitologia filosofica di cui ho parlato all'inizio, allora forse veramente, come ebbe a dire una volta Schopenhauer, la morte è la musa della filosofia. Mnemosyne, la madre delle Muse, delle dee che danno la parola ai mortali, è la morte. -La filosofia - cioè il discorso umano che (secondo il suo progetto originario, chiaramente formulato in Platone) risale al di là delle Muse che danno la parola ai poeti, per rivendicare come propria e unica musa Mnemosyne stessa, è allora veramente, secondo l'espressione platonica, eia musica suprema>. Per questo, ancora in Hegel, la filosofia si presenta come compimento e superamento della poesia. Essa assume infatti più a fondo e più rndicalmente della poesia il compito memoriale della parola umana - che è, nella sua essenza, parola che ricorda - e riporta questa parola alla sua origine ultima. a ciò che anima ogni parola e ogni voce: a Mnemosyne come figura della negazione e della morte. La filosofia di Hegel è il punto in cui la filosofia scopre la sua musa e fissa senza timore il proprio sguardo sulle sue mute labbra: sulle labbra della morteche-ricorda. Ma, col ritrovamento della sua musa, la filosofia -cioè il pensiero che vuole render conto dell'uomo come animale che ha il linguaggio - giunge: al suo termine. Ciò che tiene insieme il vivente e il linguaggio, essa dice, ciò che dà all'uomo la parola, è la morte come negazione memorante. L'uomo, in quìlnto parla, è il mortale, l'essere negativo, che mentre è, non è, e mentre non è. è. Il pensiero è memoria della morte. Ma se la filosofia è così risalita oltre le muse dei poeti fino alla Musa più originale, essa conosce, però, qui il suo limite estremo. Di questa morte che le dà la parola, essa non può che tacere. Oltre la morte che ricorda, oltre la scrittura della morte. essa non può risalire. Qui è a casa la filosofia e qui termina la sua parola. Con l'identificazione della musa della filosofia, anche la nostra esposizione è giunta al suo termine. Se, tuttavia, qualcuno chiedesse ora (e; credo, sarebbe una domanda strettamente pertinente al problema freudiano della pulsione di morte) se un'altra parola non sia per caso possibile al di là di quella dettata dalla musa della poesia e dalla musa della filosofia, se chiedessimo, cioè, se esiste per la parola un luogo più originario di Mnemosyne come morte che ricorda, allora questa domanda dovrebbe certamente avere questa forma: è possibile un linguaggio che non sia più memoria e morte della voce e una memoria che non sia più memoria della morte? Cioè, ancora: è possibile una morte che, sciolta dal linguaggio, non ricordi più nulla? È possibile far dimenticare il linguaggio e la morte? Una limpida annotazione di Campana può qui servire di indicazione e di conclusione: «Questo ricordo che non ricorda nulla> scrive Campana«~ così forte in me». Un tale ricordo - per sempre liberato dalla scrittura della morte - sarebbe, se ci fosse, la parola unica dell'uomo, che nessuna musa potrebbe né donargli né togliergli. Questo articolo riproduce il testo di un intervento pronunciato a Milano il 20 aprile 1980 neJ/'ambiro di un convef!nosu «11notes magico>organizzato dalla «Pralica Freudiana».

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