Alfabeta - anno II - n. 15/16 - lug.-ago. 1980

del Leviatano e del Capitale, ma è naturalmente restia ad ammettere un'inattualità trascendentale, derivata dall'inapplicabilità della filosofia postmetafisica alla riflessione politica. Al discorso del potere e del suo inverso l'affermatività aveva già opposto un'analitica del discorso secca e non finalizzata alla ricostruzione di un programma politico. Un lavoro decostruttivo che costituiva di per sé un'alternativa all'ormai vuoto gran parlare politico-filosofico. Ma, lo si è detto, una seconda strada prosegue la via aperta dall'affermatività, e cioè la teoria della minorità elaborata da Dele\12e e Lyotard. Che cos'è la minorità'? Essa è anzitutto un dato. e non una scelta; è l'esito del benefico divorzio tra filosofia e politica. e dello stato di vacuità in cui quest'ultima è precipitata dopo essere stata lasciata a se stessa. La minorità non è infatti la «minoranza» (etnica. culturale. politica ...): la minoranza così concepita è ancora un effetto della maggioranza; è la frammentazione astratta delle singole etnie accordata da una maggioranza politica. rappresentativa. parlamentare. e vive solo in grazia di quest'ultima. La minorità non è. poi. il «rizoma» come scelta politica. l'emancipazione spontaneistico-umanistica che. riconvertendo la singolarità ad una progettualità politica a lungo termine. ha prestato facilmente il fianco alle accuse di irrazionalismo (per cui la minorità perfetta sarebbe l'Unico di Stirner). La minorità non è né un beneficio concesso dalla maggioranza politica né l'esito di una volontà minoritaria ancora politica. Essa è invece l'esito del disfarsi del tessuto rappresentativo del politico che poneva una maggioranza astratta al di sopra di infinite minoranze. Lyotard è molto esplicito a questo riguardo. Nel suo intervento del 1976 Piccola messa in prospe11ivadella decadenza ed i alcune lolle minoritarie da condurre, _eglidimostra come la minorità sorga dall'affievolirsi della rappresentazione maggioritaria. dal decadere della funzione del vero (politico e scientifico) che per molto tempo aveva trattenuto le plurafità del minore nella generalità della rappresentazione veridica. La minorità discende dunque dallo sfacelo del discorso imperiale politico e scientifico. cioè da quanto Lyotard definisce. in La condition postmoderne. la diffidenza nei confronti dei metadiscorsi. Quando la rappresentazione perde credibilità, ed il suo discorso si rivela come sempre più legato ad una corriva pedagogia pragmatica, si produce (senza alcuna progettualità) la minorità. li tessuto connettivo si sgretola. si perde la nozione (o almeno la credibilità) della maggioranza. e tutto diviene minore (i parlamentari italiani sarebbero, in questa prospettiva, una minoranza paragonabile alle minoranze etniche albanesi. ad esempio). O ra. questo declino della rappresentazione non va inteso in un senso puramente sovrastrutturale, nei termini di una crisi delle istituzioni. Insieme alla rappresentazione declinano tutte quelle strutture «forti» la cui centralità era garantita dalla rappresentazione stessa. Dice Lyotard che. paradossalmente «anche in una società centrata principalmente sulla produzione e il consumo. lavorare può diventare un'auività minoritaria, nel senso che essa non è più correlata con il centro, né creata né controllata da quest'ultimo». La minorità è dunque la conseguenza. impoliticamente politica. dell'affermatività in quanto frantumazione del tessuto rappresentativo del politico realizzatasi senza il concorso delle figure maggioritarie della Critica. della Sovversione, dell'Emancipazione. La minorità si presenta allora come una figura di linguaggio basso e di pensiero puramente teorico. contrapposto alle figure del Logos e della Praxis. È una figura di linguaggio: come sostiene Lyotard in Aujuste, il legame sociale non è costituito da un unico tipo di enunciati. ma è invece caratterizzato da una pluralità di discorsi tale per cui ogni soggetto è incluso in più pragmatiche eterogenee (statuto lavorativo, tipo di inclinazioni affettive, propensioni culturali, ecc.) le quali non possono ricondursi ad una totalità esteriore (lavoro, affetti, cultura non hanno più un reticolo rappresentativo che li definisca e li strutturi), ma neppure ad una totalità interiore (il soggetto). La pluralità delle pragmatiche discorsive non ha nulla da spartire con il «pluralismo dei linguaggi», che procede da una visione maggioritaria: pluralismo inscritto in un discorso politico; pluralità di dialetti inscritti nell'Io). E la minorità è anche una figura di pensiero. Essa è, dice Deleuze in Philosophie et minorité, il destino ultimo della filosofia. che esce vincente dal divorzio con la politica; è il destino della filosofia sottrattasi alla progettualità del dominio politico. Sullaculturadell'estremismo (IV) Vittorio Dini e Luigi Manconi: Estremismo degenerato E stremismo è, fra tutte Lecategorie messe in discussione dalla crisi teorica e pratica del marxismo, una delle più deteriorate. Il suo uso è ampio e dispiegato: da Lenin, che vi ricorre come richiamo imperioso a tenere i piedi saldamente per terranella costruzione del socialismo, a Gian Maria Bravo che Lo manovra in difesa e su mandato dell'ideologia del compromesso storico, ai vari Ronchey e ReichLinche - in odio ad esso - esorcizzano ogni comportamento sovversivo. Dietro tutti questi usi - Lafenomenologia naturalmente è assai più ampia - c'è sempre e comunque il riferimento, positivo, a un'idea di moderazione quando non di veraepropria conservazione. E allora viene proprio voglia di affermare a tutte lettere: siamo estremisti. Tanto più che di cose da sovvertire continuano ad essercene - se possibile - sempre più, e che i compiaciuti esibitori di moderatismo oramai pullulano. La tentazione è dunque forte: diritto di resistenza, dirillo di disubbidienza anche su questo terreno. Eppure, a questa tentazione bisogna assolutamente sottrarsi. A ricordarcelo c'è l'estremismo in carne e ossa, ovvero in costituzione politica e militare: il terrorismo. Stando però bene allenti anche qui, perché L'equazione estremismo-terrorismo è troppo angusta e rischia di fare di quello che è un percorso possibile - dall'estremismo alla scelta della Lotta armata - un sicuro nesso causale. Mentre non è detto affa110che dall'ideologia e dai comportamenti configurabili come estremisti si debba approdare al partilo armato; del resto, questo - molto semplicemente -,_nonè avvenuto, nonostante gli sforzi ideologico-giudiziari di provare il contrario, per chi scrive (e, Loconfessiamo, siamo stati estremisti non poco) e per un grandissimo numero di loro simili. Anche da questo punto di vista,emerge dunque la difficoltà ad usare in modo determinato un concetto come quello di estremismo. E per una ragione fondamentale: perché il riferimefllo a un «estremo», rinvia a un centro, a un punto in qualche modo stabile, identificabile e misurabile. Ha pienamente ragione Pier Aldo Rovatti nell'avvertire, a conclusione del suo intervento («La cultura de/l'estremismo, li», in Alfabeta n. Il, marzo 1980), dell'esistenza di un rischio: «non possiamo, credo, Limitarci ancora una volta a contrapporre, alla deformazione, L'ortodossia».Tanto più che proprio l'ortodossia, irrigidita ed esasperata, ha determinato, in un passato anche recente, scelte e comportamenti definibili in modo assolutamente chiaro come estremist~ nel senso esplicitamente deteriore del termine. E qui già incontriamo una contraddizione che è inevitabile attraversare: da un lato la volontà di non bloccare in nessun modo Laricerca di nuovi strumenti per LaLetturadella realtà; dall'altro, la necessità di agire, affondandovi il bisturi inprofondità, sulle piaghe della nostra storia recente. Porre l'accento sul primo aspetto, vuol dire sfuggire al secondo, rifiutarsi a un bilancio critico, ricorrere a una sorta di silenzioso chiamarsi fuori. All'apposto, accentuare l'esigenza critica e autocritica può voler dire non solo assumere una qualche ortodossia a proprio riferimento, ma anche insediarsi come giudice imparziale e di nuovo «neutrale». E dunque, in relazione al primo versante, ci pare di poter condividere ancora una indicazione di Rovatti: «Per quanto possa essere dura da accettare, la precisa impressione che ho è che per comprendere il fenomeno del .terrorismo di oggi e insieme ad esso molti altri fenomeni che ci riguardano, non ab- . biamo altra via che quella di cercare di produrrre nuovi strumenti di descrizione. 11marxismo è uno strumento che non basta:essopuò continuare agarantirci una 'purezza' teorica, ma in fin dei conti è una 'purezza' eticapiù che teorica, un meccanismo di rassicurazione. Messa alla prova del presente, la ragione marxista (posto che ne possiamo identificare una che valga come koiné per tutti) riesceaspiegare i trattigeneralissimi della macchina economico-politica mondiale, ma ogni giorno leggiamo sui giornali di 'fenomeni' anche non microfisici che eludono il modello. «Riusciamo a comprendere poco della macchina politica; il sociale, poi, ci si presenta come un 'continente nero' di cui non sappiamo quasi nulla; per non parlare del 'soggetto antagonistico', che non si salva moltiplicando e dislocando i soggetti, perché in Marx quell"antagonistico' voleva dire una cosa ben precisa, e cioè che esso conteneva 'oggettivamente' le ragioni di una trasformazione dell'intera società». Di conseguenza, il terreno di un effettivo sforzo autocritico risulta piuttosto ampio, e proprio sul piano specifico della cultura, cioè delle ideologie e dei modi di pensare che a partire dal '68, e nei confronti dell'area che ad esso faceva riferimento, hanno esercitata un'ef fettiva egemonia. E nessu11dubbio ci sembra possa esservisul rilievo di quella cultura in relazione a quella stagione e a quell'area: «da un lato (il '68) si presenta come la critica radicale dello spellacolo sociale e della cultura, dall'altro porta al parossismo la derealizzazione e la cultura/izzazione della società. Ma proprio ciò dà la misura della derealizzazione e della culturalizzazione socia/et il Sessantotto non fu una rivoluzione; ciononostante esso non è stato nemmeno un sogno, o un'illusione collettiva, bensì un fatto storico d'importanza primaria, il primo fatto storico d'importanza primaria che non può essere definito come 'reale', nel vecchio senso della parola». (M. Pernio/a, La società dei simulacr~ Bologna, Cappelli /980). • E allora, con queste avvertenze, proviamo a entrare nel merito di alcuni nuclei essenziali della cultura del '68 che possono, in modo relmivamente tranquillo, mettersi in relazione con l'estremismo. I. La cultura dell'estremismo è stata in larga misura una cultura della dicotomia e dello _schieramento. Proprio qui si realizza uno dei punti di maggior contatto con la tradizione, la più negativa peraltro, del marxismo storico. In base a questa cultura, dallo schema dicotomico nell'analisì della società (borghesia-proletariato), si deduce in modo del tutto immediato - sen·zacioè leggerne tutti i passaggi e le articolazioni, niente affatto lineari: anzi, acutamente contraddit1orii-il nesso tra lotta di classe e manifestazioni ideologiche, culturali, comportamentali, spesso anche psicologico-personali. In fondo, tale e tanta è la richiesta volontaristica di scelta e di schieramento, che la stessa immanenza della base economico-sociale viene in realtàsostituita da uno schema chepiù direttamente coinvolge scelta e schieramento, uno schema immediatamente politico quale è quello amico-nemico. Non c'è dubbio -crediamo -che alla base del primato della politica rivendicato da quel particolare estremismo che è il partito armato vi sia proprio una talemodellistica. E poco importa se l'ascendenza teorica di essa (C. Schmitt) è estranea alla teoria politica del partito armato, almeno consapevolmente. D'altra parte, l'applicazione dello schema e della deduzione è stata nella nuova sinistra tanto sviluppata da determinare o rompere identità e alleanze, contiguità e mutamenti. Dunque, progressivo annullamento della mediazione: ogni atteggiamento, ogni comportamento, ogni idea sono riconducibili solo ed esclusivamente alla collocazione di individui e gruppi dentro la lotta di classe. Questo tipo di cultura ha attecchito particolarmente - fino a stratificarsi nella mentalità dominante ancora oggi in larghi strati di compagni - applicato al rapporto movimento-istituzioni. In questo campo, ha presto assunto la forza di un codice morale: è buono tutto quello che sta dalla parte del movimento, è cattivo tutto quello che attiene alle istituzioni. Naturalmente, si è trattato di un codice dotato di una valenza anche estremamente positiva, per laforte caricapropulsiva che conteneva e per la sua capacità di produrre una notevole ricchezza ed articolazione di esperienze «di base». . Ma i limiti di una tale impostazione sono emersi ben presto: prima, quando si è trattatodi dare rappresentanza legittimata al movimento e poi, ancora di più, quando è venuto meno il movimento, con le sue caratteristiche di generalità e di forza sulle quali il modello ed il codice erano appunto fondati. Si è svelato così il retroterrapovero ed arretrato di un'analisi delle istituzioni e dello Stato tutta in termini di sovranità e di centralità: un'analisi che finiva con l'essere l'esatto speculare ribaltamento della tesi socialdemocratica.dello Stato come luogo «neutro» della lotta fra le classi. 2. La cultura estremistica ha perseguito e valorizzato le forme di lotta più dure. come di per sé antagonistiche. C'è stato, si può dire, un vero e proprio feticismo della forma di lotta. In molte e significative formulazioni (per es., l'operaismo degli anni '60), la forma di lotta più dura («più avanzata», si diceva) è servita ad identificare il massimo livello di manifestazione dell'antagonismo e de/l'autonomia di un soggetto sociale. Quando al sagge/lo sociale si è sostituito quello politico - e non è questione di soli aggettivi - allora, questa posizione era già diventata propria del partito armato. La stessa pratica dell'obiettivo, senza base di massa e senza un'articolazione strategica ed organizzativa che a quella base di massa si rapportasse, ha finito col diventare pratica dell'illegalità allo stato puro (si può dire, esistenziale): quindi,forma priva di contenuto materiale allo stesso modo di quella legalità che intende contestare e abbattere. Anche qui occorre distinguere: negativa non è la pratica dell'obiettivo in sé, né la forma di lotta dura o una prassi comunque illegale, ma piuttosto quel- /' auività che non rechi al proprio interno i contenuti de/l'autonomia del soggetto sociale che lapromuove, la volontà di trasformazione dello stato di cose presente e l'intenzione di porre in consapevole relazione questione dei mezzi e questione dei fini. E siamo così giunti alla questione della violenza, vero nodo cruciale del- /' estremismo. Qui naturalmente nessuno, tantomeno noi, può sentirsela di semplificare troppo i termini; qui, più ancora che in tutti gli altri campi percorsi dalla crisi del marxismo, la ricerca è aperta. E tuttavia qualche cosa, almeno in negativo, la si può già dire. Innanzitutto - e ciò rimanda immediatamente a quanto si diceva sulle forme di lotta -il discorso sulla violenza è stato spesso ridotto a quello sull'uso della violenza. Esso è stato al centro di un dibattito vivace a/l'interno della nuova sinistra negli anni recenti provocando scelte anche estremamente diverse, ma sempre è stato assunto con un'attenzione prevalente alproblema dei mezzi; quasi mai in relazione a quello dei fini o comunque, come si diceva, a quello del rapporto mezzi-fini. Ciò spiegaperché, ad esempio, nessuna attenzione sia stata prestata alla riflessione che, quasi da soli, Norberto Bobbio e Giuliano Pantara andavano conducendo su «marxismo e nonviolenza» (cfr. gli atti del convegno intitolato appunto Marxismo e nonviolenza, editrice Lanterna, Genova /977). La teoria marxista, in variabili così diverse dal punto di vistapolitico come quelle rappresentate da Mario Tronti e Toni Negri, ragiona innanzitutto nei termini di una necessità della violenza dedotta dal fatto che esiste la violenza borghese. («La violenza è», questo il grido metafisico e metastorico apparso, anni fa, sulla copertina di un numero di Potere operaio). Mentre pensatori francamente ed esplicitamente reazionari come E. Severino e l'allievo di C. Schmitt, Julien Freund, esprimono specularmente il concetto che, dal momento che la violenza è, allora il problema è uno solo: definire chi ha più forza per amministrar/a egovernarla. La riflessione su cosa sia violenza, distinguendo attentamente quella da forza e da aggressività, e sul rapporto storicamente determinaco tra forza diritto e morale; e, d'altraparte, la ricerca su cosapossa essereuna pratica di massa extralegale e antiistituzionale che si svincoli da~'equazione illegalità = lotta armata, questi sono oggi igrossi temi di dibattito che possono superare una visione grellamente strumentale della violenza. 3. La cultura estremista individua nella presa del potere la condizione prioritaria del processo di liberazione dell'uomo. Ad essamira l'iniziativa del rivoluzionario e su di essa quel processo è fondato, quasi come leva, come base per qualsiasi prospettiva di trasformazione. Viene così q determinarsi, quasi di necessità, la consueta sequenza dei due tempi del processo rivoluzionario: prima la presa del pote,re, poi L'avvio di un percorso di liberazione anche individuale. Questo schema è stato talmente scosso dal costituirsi di movimenti come quello femminista da apparire ora quasi récro. Tuttavia esso ha sicuramente avuto grande spazio nella cultura di sinistra e continua ancora ad averne, seppure in forme che ne occultano /'«estremismo». Ed è interessante notare come a quello schema sia collegata l'intera visione dellaspecularità Stato-antistato, e quindi la concezione giacobina del processo rivoluzionario e la stessa forma-partito allo scopo apprestata. Anche in questo caso troviamo all'opera un'analisi della forma-stato ancora primitiva, legata all'idea dello Statomacchina e dello Stato centro del potere. Questo, mentre iniziamo a comprendere che, se anche il potere non si è dissolto e non è morto né gravemente debilitato, la sua morfologia è enormemente mutata e si caratterizza, innanzitutto, per essere diffusa ed articolata, in grado di attraversare e confondere sociale e politico. E dunque una cosa sappiamo: che la liberazione di individui e soggetti sociali dalle attuali condizioni di alienazione e di sfruttamento, non può che essere -insieme - processo di disarticolazione dei poteri diffusi nel sociale e auività di contestazione di quanto del potere accentrato e sovrano (in termini di istituti, funzioni, procedure; e in termini di monopolio della forza) rimane e si riproduce. E allora, le domande cruciali ci appaiono indubbiamente le seguenti: le differenze e lepluralità, i molti linguaggi e i molti percorsi della trasformazione, le diverse «.rivoluzioni» richiedono (o comunque sono compatibili), prevedono (o comunque consentono) il momento della rottura'? La.presa del potere? Il passaggio di mano nella direzione della società'? E qual è il signific,110 attuale di tali concetti?

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