Alfabeta - anno II - n. 15/16 - lug.-ago. 1980

Critique n. ·392 (gennaio 1980), fr. 23 Jean-François Lyotard «Piccola messa in prospettiva della decadenza e di alcune lotte minoritarie da condurre», in AA.VV., Politiche della mosofw Palermo. Sellerio, 1979 pp. 144, lire 6.000 J. F. Lyotard - Jean-Loup Thébaud Au juste Paris, Christian Bourgois Editeur s.i.p., 1979 Gilles Deleuze «Philosophieet minorité». in Critique. n. 369 (febbraio 1978) pp. 154-155, fr. 25 D erogando dall'aplomb nazionalistico. poco incline all'autocritica. e dalle consuetudini redazionali. poco propense alla stroncatura, la rivista francese Critique dedica un suo recente fascicolo (gennaio '80) alla letteratura politico-filosofica locale raccogliendola sotto il titolo severo e significativo di « li colmo del vuoto». Una rapida scorsa del sommario rende peraltro immediatamente visibili le ragioni di tanta durezza. Le opere recensite sono infatti una silloge impietosa del peggio politologico e politico-filosofico francese. ell'articolo di apertura Vincent Descombes riporta, con imbarazzo e ilarità, le nostalgie delle sinistre che celebrano il crepuscolo delle speranze sessantottesche (si va da De la France di M. A. Macciocchi. romantico diario di viaggio nella provincia francese alla vigilia delle elezioni del '74, con una postilla sulla situazione politica nel '78; a Une certaine idée du communisme di J. Elleintesin. dove l'autore mescola inopinatamente il fallimento elettorale del Pcf con il fallimento del marxismo in generale; all'Appel aux vivants di R. Garaudy, il quale riconduce la crisi fiscale, politica, monetaria. energetica alla categoria - ben altrimenti concisa e pregnante - della crisi degli ideali). François Roustang recensisce L'ordre cannibale. Vie et mori de la médicine di J. Attali, un giornalista che, impossessatosi dei concetti eterni di Dolore, Potere, Medicina, Denaro, ne ricava un sommario apocrifo foucaultiano (ricevendosi da Roustang l'epiteto di anti-La Boétie da sala d'attesa). A Yves Michaud tocca il compito di riportare le ardimentose ipotesi della «nuova destra» (Renaissance de l'Occident del gruppo Maiastra e Les idées à I' endroit di A. de Benoist): uno spiacevole potpourri di arianesimo, elogio delle virtù della stirpe celtica. progettualità manageriale tutta occidentale e frenetica volontà di divulgazione delle «eterne leggi del successo». Jacques Bouveresse riferisce sulla migliore prova del versante euforico-giscardiano della «nouvelle philosphie», Chronique de la décomposition du P.c.f di J. M. Benoist; Pierre Legendre si occupa invece del versante mistico-apocalittico dei «nouveaux» (L'apocalypse du désir di P. Boutang, La suite appartiem à d'autres di M. Clavel e il madornale Le testamem de Dieu di B. H. Lévy). Chiude la rassegna una recensione di Clement Rosset della più recente prova letteraria di un notabile dell'«establishment» giscardiano, L'avenir n'est écrit nulle pari di M. Poniatowski; il titolo della recensione. molto da Canard enchafné, è eloquente nella sua parossistica referenzialità: «Un ministro vi parla». Come si vede, si tratta di una produzione quantitativamente vasta ma teoricamente inane. Osservano infatti Vincent Descombes e Jacques Bouveressc, i volenterosi redattori di Critique che hanno collazionato questo insuperabile Bouvard et Pécuchet politico-filosofico: «La letteratura politico-filosofica offre una presa di posiIlcolmodelvuoto zione politica proprio su ciò che dovrebbe risultare dall'analisi. Un simile procedimento la condanna evidentemente al vuoto ... L'inanità è più visibile proprio là dove l'evanescenza di qualsiasi contenuto degno di discussione caratterizza scritti che. per titolo, capitoli e ambizioni confessate, si annunciano come imponenti costruzioni 'filosofiche'». Ma d'altra parte non è certo da oggi che la vuotezza dei «nouveaux philosophes» e un certo lamentoso romanticismo gauchiste sono di pubblico dominio; così come è da gran tempo nota la naturale pochezza della «cultura della restaurazione». E, in fondo. è vano gareggiare con i recensori di Critique nella deprecazione di tanta vacuità. li fascicolo di Critique ha però un'altra importanza. e si presta a riflessioni d'altro genere. Non si tratta tanto di Franco Lof • domandarsi per quale motivo i «nouveaux philosophes» siano talmente lievi e vani, né di chiedersi per quale motivo il discorso della restaurazione sia per lo piò improntato a un'invincibile banalità. Occorre piuttosto trattare questo fascicolo come un sintomo in senso strettamente clinico: e cioè come la rappresentazione mistificante, enfatica e allucinata di una mancanza facilmente registrabile, quella di una letteratura politico-filosofica che non sia sconfortantemente consegnata al «colmo del vuoto». G li interrogativi a cui rispondere sarebbero allora: perché la letteratura politico-filosofica di un paese, la Francia, tradizionalmente abituata a congiungere filosofia e politica in sintesi sempre un po' superficiali, ma mai talmente corrive, è caduta così in basso? Si tratta forse di un dato accidentale derivante da contingenze politiche note (la crisi delle sinistre, il fallimento del progetto rivoluzionario, il consenso giscardiano )? Oppure questo vuoto è una conseguenza dello statuto attuale della filosofia e della politica. di un modo d'essere dell'una e dell'altra che condanna la filosofia all'impoliticità e la politica alla vacuità? La risposta a questi interrogativi, almeno per quel che riguarda il «caso francese», non va ricercata tanto in un'analisi politologica o sociologica: il carattere manifestamente consensuale dei testi recensiti da Critique renderebbe infatti tautologico un approccio di questo genere. Più fruttuosa sembra Maurizio Ferraris invece un'analisi propriamente culturale: perché la vacuità della letteratura «politico-filosofica» non costituisce la partie homeuse di una filosofia politica certa e vera, ma è viceversa tutto ciò che in campo dichiaratamente politico-filosofico ha prodotto la recente intelligenza francese. Al gran parlare dei «nouveaux» e simili non fa riscontro una risposta della cultura francese «alta» (Deleuze, Foucault, Lyotard ...), ma un ostinato silenzio. Si tratta di uno scacco, di stanchezza, di ricambio generazionale? La nostra ipotesi è piuttosto un'altra: che si tratti di una coerenza sotterranea e non interrotta. L'attuale silenzio di quella letteratura che. a cavallo degli anni '70. lanciò proposte politiche che annunciavano la fine del politico, attesta, con il suo attuale silenzio, una manifesta e fraintesa verità. Una verità manifesta, perché quando si sia esorcizzata la politica mostrandone il carattere esclusivamente metafisico-rappresentativo, e quando si sia definito uno spazio, ad essa eterogeneo, ove le «vere lotte» hanno luogo (il desiderio in Deleuze e Lyotard. la «microfisica del potere» in Foucault ). risulta certamente vano recuperare la rappresentazione politica ad una filosofia che da gran tempoalmeno da quando Nietzsche annunciò la fine della rappresentazione metafisica - ha relegato nel campo dell'inattualità le speranze antropologiche e le progettualità soggettive. Se dunque la letteratura politico-filosofica francese è il colmo del vu6to, e se d'altra parte l'intelligenza francese non offre alternative in positivo, è vano domandarsi il perché di tanta logorrea o di tale ostinato silenzio. Occorre invece ricercare, in quanto Deleuze, Foucault, Lyotard ed altri con loro dissero a suo tempo, e rapsodicamente dicono ancora, un significato diverso da quello che spesso gli si è erroneamente attribuito (si pensi alle «trasversalità» bolognesi del '77. al verdiglionismo, alle letture umanistico-marcusiane dell'Ami-<Edipe). Occorre quindi cercare di capire che testi come L'Anli-<Edipe oSurveilleret punir rivolgono un unico invito: quello di lasciar perdere la politica istituzionale (e il suo rovescio altrettanto istituzionale) perché essa è lo spazio.filosoficamente tramontato, della generalità metafisica, della critica soggettiva e del negativo recuperato dialetticamente; e di dedicarsi invece a spazi, quelli della singolarità, della minorità e dell'affermatività che, proprio perché politicamente imponibili, sono i soli che possano preservare il pensiero filosofico dalla malafede della teoria applicata o della prassi politica elevata, appunto, a sistema. Comprendere il valore politico delle teorie «desideranti> e della «microfisica del potere> significa allora afferrarne la radicale impoliticità. Q uesta impoliticità si effettua, presso Deleuze, Foucault e Lyotard, mediante due serie cronologicamente successive: la prima (che culmina con L'anli-<Edipe, 1972, di Deleuze e Guattari) punta sull'affermatività della «produzione desiderante» contrapponendola alla negatività critica del politico tradizionale; la seconda (che ha inizio con il Kafka, 1975 di Deleuze e Guattari, e che viene sviluppata da Lyotard nei suoi recenti lavori La condilion postmoderne e Au juste, 1979) tende a fornire prescrizioni pragmatiche di azione «desiderante> nel contesto anche politico attuale. L'affermatività costituisce, in questa sommaria schematizzazione, il punto di rottura della filosofia con la politica. Una rottura teorica a partire dalla quale non risulta più proponibile il discorso politico-filosofico; e, di passaggio, 'una rottura storica con la tradizione dell'engagement francese per cui la ragion pura filosofica doveva trovare un immediato riscontro nella ragion pratica politica (si pensi a Sartre, ma anche, andando indietro nel tempo, a Merleau-Ponty, a Brunschwigc, sino a Victor Cusin). L'affermatività, e cioè la considerazione del desiderio come dato autonomo, ulteriore al soggetto e anteriore alle censure che lo susciterebbero, comporta un duplice rigetto delle istanze dominanti della filosofia e della politica. Infatti, escludendo la centralità del soggetto nelle pratiche sociali. l'affermatività vanifica in primo luogo la finzione teorica della rappresentazione politica_la quale si basa sul presupposto che la soggettività sia essenziale. e che la sua rappresentazione generalizzante sia la garanzia del buon governo (quando non avviene il contrario, e cioè l'imporsi di una soggettività o di un'idea come principio del reggimento politico: che è lo stesso). In secondo luogo, l'affennatività non rompe soltanto con la politica in quanto rappresentazione, ma esclude anche il medium tradizionale per cui la filosofia si congiunge alla politica, e cioè la riflessione: il soggetto destituito di centralità deve rassegnarsi (politicamente) alla •fallacia della rappresentazione (Stati penerali, Parlamenti, Conventions, Ordalie e Politburo ); ma l'illusione trascendentale della rappresentazione, ineludibile in politica e quindi pragmaticamente legittimata, non-. è altrettanto legittima, stando all'ipotesi dell'affermatività, nella teoria: la qu~e. per essere teoria, non potrà essere politica, e dovrà revocare le riflessioni storiche e proget- - tuali che il soggetto suole indebitamente effettuare sull'esistente. L'affermatività significa allora non la fine della politica. ma la fine della riflessione filosofica sul politico. Ciò comporta_ operativamente. la cessazione di ogni «critica dell'economia politica>. ivi compresi i passepartout per i quali il politico tenta di reinserirsi nel circuito del discorso filosofico (si pensi alla «critica dell'economia politica del segno> di Baudrillard). Una seconda conseguenza è quella per cui l'afferrnatività esclude ogni forma di progettualità politica. È cioè finito il tempo di contrapporre un discorso minoritario, ma dalle pretese totalizzanti. ad un discorso maggioritario e per ciò stesso repressivo. È vano opporre alla costitutiva «ottusità> del potere (ottusità più che dubbia, quando Foucault mostra come essa si associ alla produzione di verità), una teoria d'assieme. un manifesto o un programma costituzionale che ne raddrizzi le inclinazioni repressive con le promesse congiunte dell'umanismo (che ogni uomo possa crearsi un programma di contropotere) e della teologia (che anche i perplessi possano un giorno trovare la loro verità nei discorsi del contropotere filosofico oppostosi all'ideologia che li rendeva ciechi). L'affermatività, escludendo teoreticamente il soggetto e la critica, vanifica nella pratica le finzioni politiche della maggioranza (un soggetto che, per iniziativa spontanea o illuminato dalla filosofia, diviene principio di legislazione universale) e del programma (questa stessa legislazione universale ridistribuita nella vita quotidiana di improbabili soggetti, noi stessi, per nulla naturali e da sempre contaminati dalla pratica politica). D ovrebbe allora risultare evidente la ragione del silenzio politico di Deleuze. Foucault, Lyotard: è una strategia coerente che ha l'unico svantaggio di lasciare libero il campo alle teorizzazioni, peraltro caduche, consensuali e derivate, della «letteratura politico-filosofica>. Alla luce dell'affermatività (desiderante o microfisica) il discorso politologico o politicofilosofico dice sempre troppo o troppo poco: o svaluta i discorsi avversi screditandoli e togliendo in tal modo la possibilità di difendersene con l'analisi (analisi da gran tempo inaugurata da Foucault); oppure li omologa al proprio discorso, ponendosi in una dialettica per cui, anche vincendo, esso non potrebbe che perdere (di qui le proposte deleuziane dei «rizomi>, delle linee di fuga non discorsive). In definitiva, la letteratura politico-filosofica vivrebbe, anche se presentasse prodotti più soddisfacenti. nel duplice statuto della presunzione e dell'inattualità. Da una parte, infatti, essa reclama un mutamento delle ideologie in nome di una razionalità che fonda il suo non essere ideologica su dati alquanto congetturali (scientificità_ storicità, maggiore razionalità ...)_cioè per lo più su • petizioni di principio. D'altra parte, essa è sempre disposta a dichiarare chiusa l'epoca della Repubblica, del Trattato teologico-politico, del De cive,

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