Alfabeta - anno II - n. 13 - maggio 1980

Caprer,ospi,1~gurid, elfin.i.. Virginia Woolf O volo della mente Torino, Einaudi, 1980 pp. 672, lire 24000 tlusb Milano, La Tartaruga, 1979 pp. 201, lire 4000 Henry James La panchina della desolazione Milano, Bompiani, 1980 pp. 233, lire 5000 Scrivere, quando è fatto a dovere - e potete essersicuri che tale reputo il mio -non è che un altro nome per conversare. Lawrence· Sterne Tristram Shandy e ompaiono molti animali nel primo volume delle lettere di Virginia Woolf: capre, rospi, canguri, rettili, passerotti, delfini, orsi, scimmie... Sono i nomignoli con cui, adolescente, chiamava se stessa e le donne amate. Questi vezzeggiativi sono la sola «natura» che appaia in un mondo di visite e incontri, di appuntamenti e progetti. A quale intima, ironica animalità rimanda questo bestiario? Perché se sono la sola «natura», questi animali sono anche il solo «altrove» che abbia luogo nelle lettere. Il 4 aprile 1904 (Virginia ha 22 anni, il padre è mort.Qin febbraio, i fratelli compiono insieme un viaggio in Italia) Virginia Woolf scrive a Violet Dickinson una lettera da Venezia, che vede per la prima volta. Parla della fastidiosa ricerca di stanze d'albergo, dell'irritazione di Gerald, del tempo; qua e là una notazione: «sotto di noi c'è l'ormeggio delle gondole, e i gondolieri fanno un tale chiasso che non riesco a formulare un pensiero coerente». «Se soltanto sapessimo l'italiano. È brutto essere costretti a esprimersi in un inglese e in un francese sommario, e poi, come dico io, ci facciamo imbrogliare ovunque». Un tentativo di descrizione: «I palazzi parevano tagliati nel marmo, e ci è passata accanto una grande gondola ornata di lampade colorate». E finalmente l'ammissione: «Ma ancora non riesco a trovare le parole». Venezia è muta e opaca, i suoi colori e rumori, voci e luci, non diventano parole. Solo nelle parole Venezia si può manifestare. Al di qua di esse, la sensazione più forte è quella di una serie di suoni che non danno, ma anzi tolgono significato. La lettera successiva è da Firenze: «In tutto il mondo», scrive sconfitta, «non c'è posto più grazioso di Canterbury, lo dico con una mano sul cuore, proprio qui, a Firenze, e ho visto anche Venezia ... ». Quasi trent'anni dopo, a ripercorrere gioiosamente quelle strade per lei sarà un cane, Flush, il cocker di Elizabeth Barrett Browning. «Il sole parev_ilquasi ronzare nel cielo». «C'era quel perpetuo brusio e ronzio di voci umane che riusciva tanto grato all'orecchio di Flush». Anche ai sensi di Flush la città si esprime nel rumore, ma quel rumore che è opaco per la donna, è parlante per il cane. La scherzosa identificazione di Virginia con un animale che sembrerebbe alludere a un'impotenza della parola, appare invece alludere al contrario: l'animale è colui per cui tutto è parola; per lui un suono, una voce, un rumore, un silenzio, tutto è oggetto d'interpretazione allo stesso modo, tutto parla allo stesso modo. Non vi è differenza tra parola e silenzio, tra voce e rumore. Questa è la parola immediata, quella in cui ilmondo parla tutto, subito, quasi spontaneamente. Questa parola manca all'uomo. Egli, se non vuole che il mondo per lui taccia totalmente, la deve lentamente riconquistare. La lingua è la lenta riconquista di quel mondo che tace all'uomo ma parla immediatamente all'animale. Alla parola animale di cui è privo per sempre, lo scrittore contrapporrà'la parola mediata dell'uomo. Cullato dal dolce rumore delle cose, Flush si addormenta e sogna. Ma ecco che si sveglia all'improvviso «in preda a vero terrore. Se la svignò come se fuggisse in cerca di salvezza, come ansioso di trovar rifugio. Le mercantine ridevano, bersagliandolo di uva fradicia e richiamandolo indietro. Ma Flush non dava retta a nessuno. Per poco non andava travolto sotto le ruote dei carri mentre galoppava per le strade - e gli uomini che guidavano ritti in piedi sacravano toccandolo con la frusta. Fanciulli seminudi gli gettavano ciottoli gridandogli 'Matto! Matto!' mentre passava di corsa». e he cos'è successo?Che Flush, a un tratto, si è accorto di dover morire, ed è diventato dunque mortale, come l'uomo. Dal momento in cui prende coscienza della sua morte, egli fugge correndo dal mondo animale del rumore pieno di significato, a rifugiarsi nel salotto dove Elizabeth Barrett gli recita una poesia scritta per lui. Mentre lei parla, lui muore, come un uomo: non guarda più; tace. Di un animale si E dolorosamente si lamenta del suo esilio a Cambridge: «non si rendono conto che Londra significa per me casa mia, libri, quadri, musica, tutte cose da cui ormai sono lontana da febbraio>. La stanza in cui vorrebbe rifugiarsi è assai simile a quella in cui muore Flush, colma di libri, quadri, musica, e in cui parla solo la poesia; una stanza in cui non sono menzionati né mobili né finestre: vi è solo arte, riprodotta dentro a un luogo chiuso, intimo e pro• tetto. È nella stanza che è contenuta Venezia. e non viceversa. Come Flush, abbandonata l'animalità per la mortale ansia umana, Virginia Woolf deve ricostruire il mondo dentro di sé, nominandolo quietamente, scongiurandolo perché cominci a parlare. Ma un'altra cosa manca, curiosamente. nella stanza- e nelle lettere- la presenza viva di esseri umani. A Nelly Ceci!, Virginia scrive: «sono certa che Sestina2 Jean Pi rre Faye io racconto a tutti i punti del cerchio del giorno racconti che mi sono portati per martellarmi e punti torturanti benché da lontano siano riferiti e martellamenti che mi sono vicini fino al loro pericolo fino al punto del rapporto col ferro che non è più sopportato quando il loro quadrilatero si fa rompere agli angoli e io non cesserò di guardare mentre vengono spezzati gli angoli né di sentire mentre accanto e altrove viene coperto il giorno e io tenterò di portare il rapporto su ciò che non è sopporlato io non coprirò l'ascolto mentre sento martellare io ascolterò tutto ciò che subisce dominazione e pericolo e che mi viene dai punti rimbombanti attraverso ciò che mi è riferito dai punti opposti sul cerchio per ciò che si è riferito sentirò il messaggero spezzato di là dove sono rotti gli angoli dove sono dispersi e gettati alla mercé e in pericolo dove è abolita la notte dopo tutti i punti del giorno e non si può più sentire su di essa martellare non si vuole più dunque sapere nulla di ciò che non è più sopportato noi attenderemo qui il racconto di ciò che non è più sopportato e sentiremo e subiremo ciò che ci è riferito noi ci lasceremo da ciò crivellare e martellare io tenderò le dita verso la dolcezza illividita degli angoli la testa nella noue e avanzando tuttavia sul giorno là dove essi sono sotto il potere e nel pericolo e se essi sono alla mercé e in potenziale pericolo pure crivellati di racconto al punto che non si può sopportare si rimane a sentirlo crepitare attraverso la notte e il giorno sostenendo l'insostenibile assalto di ciò che è riferito e tendendo la mano nella ferita de~'angolo dove la lividura è tornata a lacerare e martellare io sentirò il racconto e andrò a martellarlo quello che si solleva davanti alla signoria del pericolo la mano in fondo alla ferita ne/l'angolo e gli occhi in faccia a ciò che si può sopportare sentendo venire da tulli i punti torturati e riferiti dei corpi che sono sorgenti e risorse per il giorno Nota Sestina: questa forma che avanza e ritorna. come con la marea. Essa attraversa le frontiere tra le lingue. Venuta dalla lingua occitana. nella lingua italiana: da Arnaut Daniel a Guido Cavalcanti e a Dante nelle Petrose. E ritrovata dalla lingua inglese, con il grande poeta americano, da poco scomparso. Louis Zukofsky: la sua Mamis. Essa è attraversata qui dalla marea delle narrazioni e dei rapporti: da tutte le parti che portano e rapportano il martellamento della simultaneità torturante: li martello della signoria. Della dominazione. (J.P.F.) sarebbe detto: non si muove più. Flush, divenuto mortale, corre a morire come un poeta romantico ascoltando una poesia in sua lode; ma durante la corsa i suoni perdono significato, non gli dicono più nulla. Ormai a parlargli è la poesia. Anche Virginia, ovunque si trovi fuori del suo mondo, viene assalita da un'ansia mortale (la sua seconda crisi di pazzia avverrà dopo questo viaggio in Italia) e corre a rifugiarsi nella sua stanza. «Desidero tanto una grande stanza tutta per me, piena di libri e nient'altro, in cui possa chiudermi, senza vedere nessuno e leggere fino a calmarmi completamente», scrive, sempre a Violet Dickinson, il 30 ottobre di quello stesso anno, emergendo dalla crisi. hai in te la sensazione delle persone viventi, e del modo in cui agiscono e reagiscono; la riconosco perché ne sono totalmente priva>. Delle centinaia di nomi che appaiono nelle lettere - o come destinatari, o semplicemente nominati-~ nessuno s'incarna, nessuno diventa personaggio, nessuno impariamo a conoscere, più che non conobbero Leonard Woolf gli amici cui Virginia descrisse prima di sposarsi il futuro marito: «un ebreo squattrinato ... grande amico di Thoby ... ha .anche scritto un romanzo ...>. Le lettere non sono veicolo d'informazione né d'intimità, nessuno vi si rivela, nessuno vi è mai nemmeno colto di sorpresa. Le lettere sono un continuo fluire di parole, ma queste parole non dicono nulla. Quel che avviene in esse è semplice-!( mente la conversazione. Ma che cosa contiene questa conversazione? A nche nei racconti di Henry James (di cui ci è dato un magnifico scampolo nella Panchina della desolazione, nella traduzione di C. lzzo, e con la presentazione di A. Lombardo) avviene essenzialmente la conversazione; i gesti sono ridotti al minimo: i personaggi sono seduti o in piedi, e c'è sempre una sedia o una panchina pronte a riceverli quando cominciano a parlare, e cioè ad agire: e nessun personaggio si alza e cammina sino alla finestra o al parapetto, ma solo per voltare le spalle all'interlocutore. La conversazione in James svolge la parte delle arie nell'opera; il tenore si alza (il personaggio si siede) e canta: alla fine dell'aria l'azione ha proceduto di tutta la conoscenza che l'aria con- (Traduzione di Nanni Balestrini) teneva e che ha insieme espresso e rivelato. Ma il suo modo di procedere, della conversazione, è invece quello di certe canzoni popolari: di strofa in strofa, la strofa nuova iniziando con l'ultimo verso della strofa precedente e proseguendo di un passo. La conversazione in James procede con cautela, come se i personaggi camminassero sulle uova, per arrivare a scoprire, con Edipo, come sono stati giocati dal destino. In James parola e destino procedono parallelamente: si fronteggiano come i duellanti di Conrad per tutto l'arco della vita alla fine della quale si incontrano, si guardano in faccia e la parola rinuncia a battersi (perché in essa il destino si è rivelato). La conversazione in James è un itinerario, dall'oscurità a una sconfitta chiarezza. In Virginia Woolf no. Né nelle lettere né nei romanzi. La parola in Virginia Woolf non è in rapporto diretto né con il mondo né con la conoscenza: se lo fosse, sarebbe una parola animale e non umana, come abbiamo visto. Essa perciò non produce mai un effetto commisurato alle cose: o rimane sospesa, senza riscontro, o produce un effetto smisurato, come il dottore che sale le scale di Septimus (in Mrs. Dalloway ), o il padre che annuncia che il tempo non sarà mai abbastanza buono per andare al faro. Le parole del dottore che inducono Septimus a lanciarsi nel vuoto sono: «Cara Signora, permettetemi ...>. L'intero romanzo Gita al Faro è contenuto in queste parole del padre: «ma il tempo non sarà bello>. Né il padre né il dottore sono consapevoli di produrre alcun effetto, di contenere nel cavo della parola la vita di un uomo. In James invece i personaggi trattengono nelle parola una consapevolezza eccessiva, come Tiresia interrogato da Edipo: «Non sapere, quando non è necessario>, ella esortò misericordiosamente. «Non è necessario - perché noi non dobbiamo>. «Non dobbiamo?>. Avesse soltanto potuto sapere quel che ella intendeva! «No, è troppo!> «Troppo?> ... «Ma, tu dunque muori di questo?> (La Belva nella giungla). Tra un atto e l'altro, l'ultimo romanzo di V. Woolf, finisce cosi: «Poi si levò il sipario. Parlarono>. La parola comincia quando finisce il romanzo e inizia la vera rappresentazione, che è la vita. Ogni parola che verrà pronunciata fra i due protagonisti da questo momento, è stata contenuta dal romanzo, ma non detta. Il romanzo l'ha custodita per loro. Come la tragedia classica custodiva la morte che poi avveniva fuori scena. Cosi il personaggio di James si compie nel racconto, perché il suo destino si rivela nella parola. Ma il personaggio della Woolf è un testimone, assiste al rito che allude alla parola: quella parola animale - l'immediata, viva parola di Flush-che il romanzo custodisce come uno scrigno. V i sono quadri di Madonna e Santi, o di Angeli e Santi, in vesti gli uni angeliche e gli altri terreneche si chiamano sacre conversazioni. Queste conversazioni mettono in relazione il mondo sacro col mondo umano, creano una specie di spazio privilegiato in cui il sacro e l'umano possono «trovarsi insieme>, che è l'etimologia della parola conversare. La conversazione delimita uno spazio comune, uno spazio in cui s'intrecciano parola e silenzio. Di questo spazio essi, i personaggi, portano i lembi; come quei portatori della Deposizione di Raffaello che reggono i lembi del sudario di Cristo deposto dalla Croce, - cosi i santi, gli angeli, la Madonna, le creature umane e celesti, reggono i lembi di quello spazio celeste su cui è deposto il corpo muto del dio. I personaggi della Woolf, come i suoi corrispondenti epistolari, tengono Jeso il telo del mondo in cui è deposto il corpo muto del linguaggio. Quel corpo che tace all'uomo finché non è toccato dalla parola. L'avvento delle «caprette, rospi, canguri> da cui il personaggio trae origine - rimane per sempre sospeso. Nessuna «belva nella giungla> viene a interrompere la loro conversazione e a compiere il loro destino. La conversazione, (attività direttamente trasmessa dai filosofi alle donne, e viceversa) disegna uno spazio, lo recinge: una conversazione, eminentemente femminile, di custodi, Sibille, Muse, officianti del rito: che non dicono, ma custodiscono silenziosamente o piuttosto in un sommesso brusio la parola. Lo spazio evocato dalle lettere e dai romanzi di Virginia Woolf, è quello in cui le donne custodiscono il mondo silenzioso nella conversazione.

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