Alfabeta - anno II - n. 12 - aprile 1980

nuova convenzione». A un certo punto, di colpo, avete annunciato, che «uscivate dal teatro». Che vuol dire? «Nel 1969 abbiamo cominciato la nostra avvelllura parateatrale. L 'obiettivo era quello di rompere la recitazione, la divisione fra attore e spettatore, abbandonare il teatro come edificio, perché era un ultimo residuo dello spazio teatrale. Abbiamo scoperto che bisogna saper starenellasalase è evidente la sala, ma bisogna anche stare sulla strada se è presellle la strada (non fare una scenografia con la strada, ma essere sulla strada, muoversi sulla strada), stare in un prato, in una foresta, se è presente un prato, una foresta. Quel che accadedeve succedere veramente in quel momento. Per noi la nozione di spettacolo come struttura chiusa è stata superata in questo modo. Bisognava trovare una struttura aperta. Se ciò che accade deve svilupparsi secondo le regole dello spazio evidente, della sua ecologia, del contatto umano con i partecipanti, questo significa che non può mai ripetersi allo stesso identico modo. Quindi bisognava superare la forma chiusa dello spettacolo. E anche la nozione di attore come qualcuno che si presenta e dello spettatore come colui che osserva doveva essere superata. Bisognava trovare una sorta di continuità e di flusso che passa attraverso • esseri umani. Ci sono delle persone che vegliano sul/'azione (gli «attori» nel senso di animatori o piuttosto di catalizzatori) e ci sono quelli che arrivano per partecipare, ma con la loro presenza e con la loro qualità umana cambiano le condizioni di partenza preparate: tutto ciò insomma è qualcosa che in certa misura può ripetersi, ma per lo più cambia di volta in volta. Così è nato il periodo parateatrale». Che rapporto ha tutto ciò col teatro? «Quando abbiamo passato questo confine, dieci anni fa, la nozione di teatro era estremamente limitata, e allora era necessario dire che non si trattava più di teatro, non c'erano più attori né spella/ori, non c'erano più spettacoli. Ma al di là di quelle che erano le nostre intenzioni nel senso dei valori e delle relazioni umane, noi abbiamo partecipato in certa misura a un allargamento del confine del teatro. li fatto che oggi tu/lo l'edificio teatralepuò diventare il luogo di uno spettacolo o che si possono fare spettacoli anche fuori dal teatro, è una cosa chiara. Oggi è evidente che la differenza fra attore e spettatore non è assolutamente fissa. Ci sono fenomeni teatrali dove appare la partecipazione, come i baratti che ha introdotto Eugenio Barba, e poi molti altri esempi di partecipazione diretta. Ci può essere oggi una drammaturgia che non è scritta, una drammaturgia degli avvenimenti della vita. Tutto ciò in fondo è molto. vecchio. E nel nostro secolo già Mejerchold ha fatto i primi tentativi in questo senso. E quando dico che abbiamo partecipato a questo movimento non voglio dire che ne siamo stati la causa. Però vi abbiamo partecipato ed è stata la messa in evidenza di qualcosa. Oggi dunque i confini del teatro si pongono in modo diverso, e ciò che chiamiamo parateatrale è semplicemellle, se vogliamo, teatro non-teatro. Comunque, per noi, quello che conta in tutto questo lavoro alla frontiera del teatro, è il fenomeno umano». Che cosa intendete con ciò? «L'aspetto umano del nostro lavoro è molto legato alle situazioni -umano e storiche dei vari periodi. Noi abbiamo cercatonel corso della nostra attività, in maniera più o meno inconscia, ma fondamentalmente coerente, il modo di non essere nel 'trend', nelle tendenze culturali in voga. in una certl1maniera abbiamo cercato di andare come in un'omeostasi, verso la complementarità. lo trovo che in fondo la cultura come totalità è complementare rispetto alla vitaabituale o materiale dellasocietà. Non è per caso che un fenomeno come il Romanticismo è nato nel periodo della prima rivoluzione industriale. in quel momento in cui si sarebbe detto che c'era bisogno di qualcosa come I' illuminismo,proprioinquelmomento è venuto fuori invece il Romanticismo. C'è come un equilibrio dei fenomeni, io penso, o così dovrebbe essere. «Non si può dunque parlare di questo aspetto fuori da un contesto. Per esempio, il periodo che in Polonia si chiama la 'piccola stabilizzazione' (che è un'espressione inventata da un poeta, Rozewicz, e che è stata adottata da tutti, gli storici, i sociologi, gli scrittori aproposito della fine degli anni Cinquanta fino alla metà degli anni Sessallla). In . . questa stessa espressione c'è qualcosa di ironico che dice che non si tratta di un periodo eroico, ma che comunque dà l'impressione che tutto sia molto stabile e che si sia minacciati da una sorta di quiete sospetta. Bene, in questo periodo abbiamo fatto degli spettacoli che in un certo modo erano blasfemi: abbiamo preso dei testi drammatii:i che appartenevano a una grande tradizione, che per la nazione polacca erano in qualche modo sacri,·e abbiamo reagito a questi testi, in prima persona. È stato come l'incolllro di noi vivi e allora giovani con le voci dei secoli e dei morti. Ne è uscita come una rottura dell'immagine del Romanticismo, una rispoVladimiro Mi/eui, Autoritratto scultoreo sta di disturbo alla 'piccola stabilizzazione'. « Poi è cominciato quel fenomeno che nella vostra parte del mondo è conosciuto sollo il nome di movimento della controcultura. Esso ha portato allo stesso tempo una sorta di valore di rinnovamento e molto caos, molta confusione: qualcosa di profondamente nobile, ma irresponsabile. Si tratta di un movimento che ha rivendicato i rapporti fra gli uomini, ma con grandi imprese di massa. Woodstock è stata la più grande 'messa' di massa della controcultura. Propio in questo periodo abbiamo trovato come momento fondamemale delle relazioni umane la situazione dell'individuo di fronte all'individuo, al di fuori della recitazione e delle manipolazioni che ne derivano, al Arturo Bragaglia, Il miope (/930) di fuori del gioco delle maschere. Abbiamo cercato queste comunità nel modopiù individua/epossibile, person to person. Lavoravamo con pochissima gente, del tutto fuori della tendenza dominallle di fare cose grandiose, in piccolissimi gruppi, in sottogruppi, co_n le persone, con gli individui. « Poi è arrivato il periodo che si può osservare • dappertutto, in differellli maniere, anche fra voi, l'epoca della 'riprivatizzazione della vita': ci si chiude nei luoghi di lavoro, nella famiglia, nella cerchia degli amici; c'è molta diffidenza verso tutto ciò che ha un'apparenza gratuita o altruista. In questo periodo riappare una spece di pragmatismo. Quel che non ha utilizzazione immediata, che non porta un profitto immediato, è molto sospetto per lagente, sembra che ci sia un trucco, del ciarlatanismo, falso misticismo, o cose del genere. In questo periodo, dunque, abbiamo incominciato ad aprire le nostre esperienze via via a un numero sempre maggiore di persone, andando anche in questo caso controcorrente. Ma evidememente facendo così se ne paga il prezzo, a molti livelli. Ecco come. « Da un lato v{è una sorta di estrema intensità dell'esperienza quando è in Fosco Maraini, Pericolo di morte! ( 1930) germe; e in questo caso ciò che accade, il processo vivente, implica profondamente le persone che vi agiscono come kamikaze. Niente è allora impossibile. Così è stato per me, personalmente. lo ho lavorato nella prima fase, nel momento in cui non si parlava ancora di cultura attiva o di parateatro. È un'esperienza molto intensa, che dà continuamente delle sorprese, perché si è sempre in una situazione nuova, ma in questo caso è assai ristretto il numero delle persone coinvolte. Non è un fatto di elitarismo o altro del genere, ma c'è questo limite alla quantità delle persone: è un'esperienza che va molto lontano, le cui conseguenze sono davvero difficili da prevedersi, per un lungo periodo. « Poi, quando abbiamo incominciato ad aprire, è stata necessaria una trasformazione profonda delle circostanze del lavoro,ma questo ci davanuovi stimoli e nuove avventure e nuove scoperte. E però si paga questo prezzo, che tutto il tempo bisogna lottare contro una sorta di svalorizzazione del lavoro, in noi stessi. Il fatto di aprire, di ammettere più persone, di fare agire questo lavoro in una largadimensione sociale, comporta che si cade facilmente nella routine, nell'usura, e dunque bisogna continuamente lottare contro laperdita di intensità, contro il vuoto. «E poi abbiamo dovuto aprire ancoradi più, e ciò ha portato a una specie di lotta drammatica intorno a questo problema. Da questo punto di vista vi è una specie di mistero del lavoro fra persone umane: non è un mistero nel senso che è ineffabile, ma di qualcosa che è molto difficile diffondere. Quando incomincia a essere diffuso, quindi, bisogna subito mettersi a lottare contro la perdita del mistero di ogni individuo: questo è il rischio e ilprezzo che bisogna pagare se non si vuol rimanere completamente chiusi. «D'altro canto, anche la chiusura completa è pericolosa perché allora si diviene come un lago che si secca: comunque lo stadio de~'apertura è ineHaro/d E. Edgerton, Studio stroboscopico di uno schermidore vitabile. L'attività che svolgiamo con un numero di persone limitate ha il suo senso nello stadio, diciamo, di laboratorio; ma poi abbiamo/' obbligo di portare tutto ciò di fronte all'altra gente. Perché la gente ci nutre: e non solo nel senso morale, proprio in quello materiale: ci danno da mangiare . .E noi abbiamo degli obblighi nei loro confronti. «L'apertura, poi, ha fallo sì che tutte le disposizioni personali dei miei compagni hanno incominciato a rivelarsi: i differenti lavori hanno preso differenti forme, perché ciascuno ha diverse disposizioni, diverse possibilità, diversi bisogni, mentre all'inizio erano in fondo i miei bisogni che avevano deciso, perché io avevo lavorato con piccolissimi gruppi. Si sono sviluppati dunque questi diversi orientamenti del lavoro, ed è solo quando poi siamo arrivati alla nozione di opera-fiume, che si svolge conlapartecipaziondeigentee.,stranea, che di nuovo si è riunito il gruppo dei miei compagni. «Quando si parla dell'esperienza umana, non bisogna dimenticare che non è la stessa cosa del movimento Human Potential, per esempio, o certi orientamenti terapeutici. E non è neanche quelle che si chiamano tecniche del- /' espressione, la coscienza del/'espressione. Beninteso, io non voglio dire che in queste altre tendenze non vi siano dei germi umani, io parlo solo di quello che è il lavoro interumano nel nostro contesto: sono altre cose. Dove c'è I' espressione c'è la coscienza della recitazione. Direi invece che quando abbiamo attaccato il confine del teatro da un lato, questo confine l'ha a11acca10dall'altra parte il Terzo Teatro, dove si fa uso di una nozione di recitazione, dell'istinto della recitazione. Quest'a/lacco è possibile da tutte e due le parti, si può fare un buco da un lato o da~altro, e in fondo ci si riincontrerà, tutti noi che facciamo i buchi sotto il teatro accademico o ufficiale. «D'altra parte è difficile dirlo in un ambito parateatrale o di partecipazione attiva, ma bisogna parlarne: l'essere umano non esiste senza un contesto, senza il contai/o col suo ambiente; e se si cerca davvero di rompere quel muro che sta fra un uomo e l'altro, e che è il muro di cene convenzioni o proiezioni di pensiero e di giudizio, bisogna af fronrare il problema costituito dal fa110 che si è immersi nel grande mondo, dove si trovano alcuni fenomeni meritevoli d'attenzione, come le stelle e come il sole, come l'erba, come il bosco, come il vento, e che in qualche modo bisogna ritrovare una specie di stato di familiarità con tutto ciò, una parentela. Se no, di nuovo l'uomo si secca, anche nelle sue relazioni, incomincia a girare in tondo». Ma non c'è una forma di solitudine negli atelier parateatrali? «Si, è vero. /I momento in cui si cerca una specie di contatto quando ci si sforza di lasciare cadere la maschera sociale, i ruoli, i personaggi, rende estremamente soli. Solo due persone sole possono davvero incontrarsi. C'è una specie di omeostasi, di equilibrio, fra la solitudine e il contai/o. Di solito non ce ne accorgiamo perché normalmente ci troviamo in uno stato intermedio, a una temperatura tiepida, né fredda né ca/-. da; ma se si arriva a un punto chiaro, allora questo stato esplode. Se vogliamo essere continuamente in rapporto e in contatto con gli altri, finiamo col succhiarli, col vampirizzarli, colmartirizzar/i, diventa una cosa terribile. Deve esistere una dialetticafra contatto e solitudine. Io penso che non possiamo dire mai di aver rotto completamente gli ostacoli che impediscono la comunicazione fra gli uomini. È lo stesso problema dell'abbandono delle maschere sociali. Nel momento in cui si superano, se ne è liberi; nel momento in cui il contatto avviene, c'è. Ma subito dopo diventa qualcosa di falso, e bisogna di nuovo superarsi, come in una specie di sforzo permanente. «Se dunque si hanno troppe illusioni, si pensa che un lavoro con noi possa essere come un bagno che cambia la vita, questo diventa un problema. Così arriviamo a una questione reale. Per le persone che partecipano ai lavori o alle creazioni o alle opere parateatrali, al teatro-non-teatro,al processo della cultura auiva, o comunque si voglia dire, per questa gente il nostro lavoro può diventare in qualche modo una specie di droga, se non sanno continuarlo a modo loro, senza imilazioni, nello stesso campo di lavoro. Come dicevano i nostri genitori, nella vita pratica. Se questa esperienza resta un'esperienza, se non si sa fare uno sforzo per trovare una propria risposta a essa, per prendere da essa solo il coraggio e continuare con gli altri, diventa qualcosa di nostalgico, un'evasione. Poi si ricorda, si fanno gli incontri degli ex-combattenti, che si dicono com'era bello... « Ma nessuno può fare niente alposto di un altro. Il vero frutto di questo lavoro, come di ogni altro tipo di lavoro, può essere colto solo da quelli che arrivano a farlo. Bisogna scoprire da se stessi di cosa si tratta. I conduuori delle opere parateatrali, quelli che creano lo spazio per questo tipo di esperienza, danno solo un'occasione, che può incoraggiare. Ma la vera esperienza si può fare solo in maniera assolutamente personale nella vitapratica, non solo la vita di tutti i giorni, ma nel terreno proprio della persona, ognuno al suo modo. li nostro campo di lavoro in questo secondo periodo della nostra auivitàpuò esseresolamenteun pas• saggio. Dopo il passaggio c'è il grande spazio, quella che in altri tempi si chiamava la strada regale, ma essa non appartiene a noi, appartiene solo ai partecipanti. Bisogna fare qualcosa con questa esperienza, non imitarla ma fare qualcosa». Da dove nasce il vostro interesse per le cosiddette culture primitive? «Non si può parlare di culture primitive, in defini(iva. Per molti aspetti è la nostm cultura a esseremolto più primi-

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