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Paolo Milano

Andrea Caffi, l'eremita socievole

L'Espresso, 14 agosto 1966

A chi l'ha conosciuto o sapeva di lui, la comparsa, a undici anni dalla morte, di una raccolta di scritti di Andrea Caffi dà un senso di sollievo e gratitudine. Si era temuto senza riuscire a crederlo che, morti prima o poi tutti quelli che hanno avvicinato Caffi, il ricordo di quest'uomo straordinario potesse spegnersi. Ora si è riconoscenti alla sorte, e a chi se n'è fatto generoso strumento, di aver salvato dalla dispersione almeno alcune poche delle innumerevoli carte, da Caffi stese nella sua tranquilla scrittura, accumulate e smarrite lungo tutta una vita fitta di peripezie; (Alberto Moravia, il più giovane allora degli amici di Caffi, ricorda di averne, quarantanni fa, caricato un gran numero su una carrozza di piazza, per trasportarle in luogo sicuro).
Grazie alle cure, dunque, del più fedele e profondo dei suoi amici-discepoli, Nicola Chiaromonte, trecento pagine di scritti di Andrea Caffi, storici morali filosofici, si leggono in un volume bene intitolato "Critica della violenza". Un'altra raccolta, di saggi politici, seguirà tra breve; e l'interesse che è sperabile divampi intorno a questa figura senza rivali, porterà forse al recupero di altre zone di quel chiaro paesaggio di rilievi e di idee che egli giornalmente affidava a quaderni, schede o lettere.
Quel che Caffi pubblicò durante la sua vita è ben poco. Ma i suoi stessi manoscritti, se anche si potessero ritrovar tutti, e perfino questi quindici luminosi saggi (o frammenti di saggi) ora stampati, lo rappresentano soltanto, per così dire, obliquamente. Storico per formazione con speciale interesse al mondo bizantino, ma nemico di ogni sapere accademico, Caffi pensava infatti socraticamente, con gli altri e per gli altri, contro ogni preconcetto e fuori d'ogni schema. Comporre libri e dimostrar tesi, non era affar suo.
Il suo modo naturale di riflettere era lo scambio di idee, e perché presuppone l'amicizia, e perché è legato a un contesto di vita. Sebbene l'ampiezza della sua cultura fosse sconfinata, "quanto" Caffi sapeva colpiva meno di "come" egli sapeva le cose, in primo luogo i fatti storici. Scrive Nicola Chiarornonte, nella sua prefazione a questi saggi, nella quale, leggendo della vita e delle idee, a momenti si coglie come la presenza del maestro-amico: «II dono che si riceveva continuamente da Caffi era la visione del fenomeno "salvo" dai rigori della presunzione intellettuale e del dogmatismo. ...L'originalità profonda del suo pensiero ...era di concepire l'essenza, la verità vìva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come una idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale».
Era nato a Pietroburgo nel 1887, e morì nel 1955 a Parigi, dove era vissuto per decenni; le sue radici intellettuali e affettive erano russe e francesi altrettanto che italiane. Socialista attivo fin dall'adolescenza, a diciotto anni ebbe parte in Russia nella rivoluzione del 1905, per cui scontò due anni di carcere. Della sua biografia così ricca e ancora malnota, in questo cenno si può ricordare soltanto che tutti gli eventi del secolo l'ebbero partecipe coscientissimo e audace: la prima guerra mondiale, la rivoluzione bolscevica, l'antifascismo italiano, la Resistenza, il primo decennio del dopoguerra.
Ma quanto attiva fu la vicinanza di Caffi ai moti ideali e politici del nostro tempo, altrettanto recisa fu la sua noncuranza d'ogni carriera, anzi rifiuto di qualunque "sistemazione". «Era evidente», scrive Chiaromonte, «che non si trattava tanto di riluttanza al compromesso, quanto della volontà di non "inserirsi" in alcun modo in una società che gli dispiaceva profondamente». "Eremita socievole", visse una vita di prodiga povertà, ricchissima di amicizie.
E' naturale che al centro del pensiero di Caffi, come degli scritti di questo volume, sia l'idea di "socievolezza", la "philìa" di Aristotele. Alla dottrina marxistica delle "classi" sociali, Caffi preferisce una tripartizione cara agli storici russi, quella di Governo-Società-Popolo. Governo è chi comanda e in genere opprime; Popolo è la moltitudine, come diceva Proudhon, «che paga e prega»; mentre per Società, peculiarmente ma molto fecondamente, Caffi intende «l'insieme di quei rapporti umani che si possono definire spontanei e in certo modo gratuiti, nel senso che hanno almeno l'apparenza della libertà».
Della "società" così intesa, (quella, suggerisce Chiaromonte, che Leopardi chiamava "l'umana compagnia"), Caffi non si stancava d'inseguire «l'alterna e sempre tragica vicenda ...attraverso le tormente della storia». Il tessuto delle sue osservazioni storiche, in questi saggi, è di una dovizia, una concretezza e una vivacità stupefacenti. Per Caffi, la storia è semplicemente «il ricordo del passato», nel quale non si danno eventi privilegiati, e del quale la facoltà mitopoietica è l'humus primevo e ricorrente,
La "società" nel senso caffiano esclude radicalmente la violenza: «Vi è contrasto irriducibile fra la aspirazione alla socievolezza e la volontà di potenza. Ogni violenza è, per definizione, antisociale». Nello splendido saggio da cui il volume prende il titolo, Caffi mostra per quali innati motivi il Socialismo, (un movimento che abbia per scopo l'instaurazione della giustizia), «deve rinunciare a considerare utili, o anche possibili, i mezzi della violenza organizzata», siano l'insurrezione armata o la guerra civile, la guerra internazionale o «il regime di dittatura e terrore per consolidare l'ordine nuovo». L'ampio saggio "Intorno a Marx e al marxismo", con esattezza innovatrice e continuamente penetrante, si ispira a tutte le idee che ho accennato.
Vi sono poi, in queste pagine, altre ricchezze incidentali ma non meno preziose. Ad esempio, le descrizioni: come quella della "scuola riformata" (o Liceo internazionale) di Pietroburgo, dove l'autore godè «per nove anni di- una infanzia straordinariamente felice», o quella dell'irrefrenabile gaiezza di certi irriverenti redattori di un bollettino bolscevico, (e Caffi tra loro), alla vigilia dell'arresto. E ci sono gli "excursus", ognuno dei quali mette in moto un piccolo universo di idee: l'analisi della "Repubblica" di Piatone e delle "utopie" parenti; il raffronto fra i "circenses" antichi e gli odierni; la lunga nota su "The Last Enemy" di Richard Hillary; le riflessioni sul "patriottismo" e sul "pacifismo" nelle loro vicende secolari, ed altri non pochi.
La comparsa di Andrea Caffi nella cultura italiana cade in un momento giusto. Lo smarrimento intellettuale è ormai diffuso quanto profondo. C'è da un lato la revulsiva fuga da ideologie in fallimento, ma dall'altro la tentazione di aggrapparsi a una qualche nuova "scienza", purché dia la falsa sicurezza di un "sistema" ben catafratto.
Contro questi veleni, il pensiero di Andrea Caffi è un antidoto potente e, la sua frequentazione, un esercìzio salutare. Anche perché le idee di lui ci riportano senza posa al problema dei problemi, quello del "come vivere". «Nella ricerca del vero», come egli visse a ricordo di Chiaromonte, ma convinti che essa «diventa un affare equivoco non appena vi si mescolino preoccupazioni dì successo». Alla luce di tutto questo, si trova semplicemente naturale la citazione celeberrima su cui si apre la prefazione di Chiaromonte: «Parlo di Andrea Caffi come dell' "uomo migliore, e inoltre il più savio e il più giusto" che nel mio tempo io abbia conosciuto».
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