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Gino Bianco

Prefazione a "Sul corporativismo e su una certa tecnica"

Tratto da Miscellanea Storica Ligure, anno V, n. 1
1969

Il socialismo di Andrea Caffi di cui vi è testimonianza anche in questo suo scritto del 1935 sul corporativismo e qui per la prima volta pubblicato -un socialismo certo non riducibile ad una definizione e neppure ad una dottrina o sistema di pensiero, e dovendo indicare un motivo centrale si potrebbe piuttosto parlare di una riscoperta del socialismo attraverso una certa idea della «società»- esprime un'esigenza di rigenerazione totale che investe da cima a fondo la società tutta quanta: «Si vorrà pure ammettere che nell'idea di socialismo c'è l'idea di società. Fin dai suoi primordi, nelle concezioni dei grandi pensatori come nel sentimento delle comunità oppresse, socialismo ha significato anzitutto annettere un'importanza preminente all'uomo che vive in una trama di rapporti sociali spontanei, egualitari, «civili»; solo per un tale uomo, infatti, i problemi della giustizia e della felicità hanno un senso. Le istituzioni, le attività governative, le lotte di frazione che costringono e spesso soffocano la società, sono sempre apparse ai veri socialisti o come escrescenze maligne da eliminare, oppure come un male necessario da limitare e circoscrivere al massimo»(1).
Il socialismo di Andrea Caffi è una diretta filiazione dell’intellighentia rivoluzionaria russa del secolo scorso e di quella tradizione il pensiero e la vita di Caffi hanno il tratto inconfondibile. Anche nel carattere volutamente frammentario, non concluso dei suoi scritti così come nell'insistente ritorno al momento autobiografico e gli anni giovanili come esperienze decisive, vi è un segno distintivo della tradizione rivoluzionaria russa. Nato a Pietroburgo nel 1887, a 14 anni Caffi era già socialista. A 16 anni fu tra gli organizzatori del primo sindacato dei tipografi di Pietroburgo e poco tempo dopo, per aver preso parte alla rivoluzione del 1905 nelle file dei menscevichi fu arrestato e condannato a tre anni. Il problema della Russia, le vicende e il destino della rivoluzione bolscevica resteranno un punto di riferimento costante dell'esperienza intellettuale e politica di Caffi. Nonostante si rendesse conto molto bene delle ragioni che stavano dalla parte dei bolscevichi -come del resto egli stesso le aveva esposte nel saggio del 1919 «La Rivoluzione russa e l'Europa» pubblicato nella Voce dei Popoli (e sia detto qui tra parentesi, il più importante e serio scritto -secondo Piero Gobetti- che fosse fino a quel momento apparso sulla rivoluzione russa), nel trionfo dei bolscevichi egli vide «con un accoramento simile a quello provato alla scoppio della guerra, la sconfitta di quanto c'era stato di più schiettamente libertario e socialista, e anche di più europeo, nella tradizione rivoluzionaria russa quale si era iniziata nel dicembre 1825»(2).
Tornato a Mosca nel 1920 si schierò dalla parte della rivoluzione e aderì alle posizioni politiche della sinistra menscevica di Martov, fautrice di un governo rivoluzionario dì coalizione dei tre partiti sovietici (social-rivoluzionari, menscevichi e bolscevichi). Non tardò ad accorgersi che la gestione del potere da parte dei soli bolscevichi portava in sé il germe dell'involuzione autoritaria del sistema sovietico e che perseguitando e costringendo all'esilio i socialisti rivoluzionari, i menscevichi e i libertari, la «dittatura proletaria» avrebbe messo capo ad un'autocrazia che era l'esatto contrario di quella società di «liberi ed eguali» in nome della quale la rivoluzione era stata compiuta.
Accusato di essere in contatto con elementi dell'opposizione menscevica e di aver dissuaso i socialisti italiani venuti a Mosca con G. M. Serrati dall'aderire alla Terza Internazionale, fu arrestato e rischiò la condanna a morte. Fu liberato grazie all'intervento di Angelica Balabanov che molto tempo dopo, rievocando quegli anni moscoviti, ha scritto di Caffi con grande calore di simpatia e ammirazione.
Più tardi, negli anni trenta, consolidatosi il potere personale e assolutistico di Stalin con quei tratti di fosca e torbida barbarie che l'uccisione di Kirov e l'ondata di terrore indiscriminato che ne seguì preannunciavano (come Caffi in una nota del settimanale Giustizia e Libertà(3) fu tra i primissimi a rilevare), dell'esperienza cui era approdata la rivoluzione sovietica e il comunismo della terza internazionale, Caffi insistentemente ripeteva che si trattava della via opposta a quella che conduce alla democrazia e al socialismo, perché «nessun raggiro dialettico può nella realtà dei fatti condurre alla libertà attraverso il dispotismo totalitario e alla comunità sociale fondata sull'uguaglianza attraverso complicate gerarchie tecnocratiche».
Vi è una continuità nel pensiero e negli scritti di Caffi (dalle collaborazioni alla «Voce dei Popoli», a Quarto Stato, ai quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà e poi nelle file dei socialisti italiani durante gli anni della lotta al fascismo e della Resistenza europea): nonché ad una certa idea del socialismo Caffi ritorna sempre nei suoi scritti al tema della grande crisi della società contemporanea. Nell'immediato dopoguerra aderisce alla Giovane Europa, il movimento nato soprattutto per iniziativa di Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Stuparich, Borgese e condivide quei generosi progetti che animarono il movimento, fondati sull'idea che dalla devastazione e dalla crisi prodotta dalla guerra sarebbero maturate le condizioni per la creazione di una nuova società internazionale, profondamente rinnovata sulla base della libertà, dell'uguaglianza, dell'autodecisione dei popoli. Il presupposto, naturalmente, era che vi fossero ancora in Europa -malgrado tutto- uomini e forze politiche capaci di «lavorare pazientemente a correggere gli errori di Versailles e ad avviare i popoli verso quella pace che non s'era ottenuta nel 1919». Ma insieme a questo vi è anche negli scritti di Caffi sulla Voce dei Popoli o in Quarto Stato, di Pietro Nenni e Carlo Rosselli, il sentimento che un mondo intero di credenze e di valori stava andando alla deriva. La crisi era quella apertasi con la prima guerra mondiale, accresciuta dalla consapevolezza che da quel momento in poi una «civiltà» era andata perduta. Gli anni a venire, col dilagare del totalitarismo in Europa e poi la violenza di una nuova guerra senza precedenti, non ne avrebbero che confermato la profondità e vastità. E nel 1925, sulla Vita delle Nazioni, una rivista di politica estera ch'egli aveva fondato-, in un editoriale dal titolo significativo «Sul tramonto della civiltà europea», scriveva: «La guerra e il dopoguerra, dopo averlo accelerato in modo fittizio, hanno interrotto e disorganizzato quel processo di ravvicinamento reciproco, che a tappe prolungate avrebbe forse condotto a una nuova produttiva coesione fra classe politica, élite intellettuale ed il popolo delle democrazie moderne. In questo consiste probabilmente almeno uno dei momenti essenziali di quel che noi risentiamo come crisi della nostra civiltà».
Legato d'amicizia con Umberto Zanotti Bianco, Salvemini, Amendola, Vincenzo Torraca, Francesco Fancello, Emilio Lussu e molti altri intellettuali antifascisti, si battè contro il regime mussoliniano prima e dopo il delitto Matteotti. Nel lungo articolo «Cronache di dieci giornate» pubblicato su Volontà di Vincenzo Torraca (la rivista che secondo Leo Valiani rappresentò «un incunabolo del partito d'azione nell'altro dopoguerra»), Caffi documentava con estremo rigore la diretta responsabilità di Mussolini nell'assassinio di Giacomo Matteotti.
In pericolo di essere arrestato per propaganda sovversiva lasciò l'Italia nel 1926 e si trasferì a Parigi. Nell'emigrazione antifascista riannodò i contatti con vecchi e nuovi compagni e particolarmente, dopo l'arrivo di Carlo Rosselli a Parigi, con il gruppo di Giustizia e Libertà.
Nel pensiero di Caffi vi è un modo originale di intendere la politica e la «società» che coinvolge i temi sulla funzione e il ruolo degli intellettuali, del rapporto tra élites e rivoluzione, tra minoranze e apparati politici. Nelle sue collaborazioni ai Quaderni e al settimanale di Giustizia e Libertà, Caffi sviluppa l'analisi sulla società moderna, sulla natura del totalitarismo (e in una serie di articoli che ebbero molta influenza su Rosselli, del distacco tra le generazioni democratiche e le giovani generazioni totalitarie), sulla struttura e le funzioni dello Stato. Caffi spinge la critica oltre ogni superficialità e riconduce l'analisi del totalitarismo fascista a fenomeni più complessi e in primo luogo alla disgregazione sociale, morale, politica ed economica dell'Europa. Fu Caffi -ha potuto scrivere Aldo Garosci- «che primo indusse Rosselli ad andare oltre quello che di troppo superficialmente entusiastico, di eredità mazziniana nel senso meno buono c'era in «socialismo liberale», ad accentuare la polemica contro i vecchi partiti non limitandola alla loro inerzia solo rispetto al fascismo, ma estendendola al carattere antiquato, fisso e accademico delle loro dottrine»(4). Nello scritto «In margine a due lettere dall'Italia»(5), Caffi sottolineava un'antitesi irriducibile tra rivoluzione e «società» (realtà infinitamente più ricca della politica). Tale antitesi tra rivoluzione e «società» era esemplificata negli eventi della rivoluzione francese e di quella russa: né gli agenti del Comitato di salute Pubblica appartenevano all'elite impersonata precedentemente dai D'Alembert, Diderot, Voltaire, né i commissari dell'esercito rosso o della GPU possono confondersi con la élite intellettuale russa. Nei due casi l'elite ha creato le idee, rovesciato «scale di valori», suscitato un modo nuovo di sentire e di comprendere i nuovi doveri verso l'umanità. Residui volgarizzati ed irrigiditi di questi ordinamenti intellettuali e morali sono penetrati nelle «teste quadre» dove un unico pensiero si trasfonde in volontà indomabile. Ma tra gli uomini dei circoli degli Enciclopedisti e quelli dei clubs dei giacobini, come tra quelli della società russa dell'Ottocento e i «rivoluzionari di professione» bolscevichi, rimaneva, nella filiazione, «l'abisso scavato dal modo diverso di intendere e valutare l'insieme di esperienze intime e di tradizioni accettate e amate che noi chiamiamo «cultura» o al modo latino «umanità». Per il politico, anche quando sta sistemando le conquiste immediate di una rivoluzione, la cultura è qualcosa che serve la vita, per la élite essa è qualcosa che fa la vita». E tuttavia, la considerazione dell'elemento inumano della rivoluzione, dell'enorme distanza che sempre separa il mondo dei generosi e nobili progetti di sovversione radicale dalla «nuda realtà» che si è pur contribuito a creare, e addirittura la considerazione della sorte stessa riservata alle élites culturali che avevano preparato la rivoluzione dai loro successori ed esecutori pratici («mancherebbe una suprema consacrazione alla élite se non fosse suo destino di essere divorata dagli elementi che pure è precipua sua missione di scatenare») non dovrebbe impedire agli intellettuali di « capire la fatalità quasi provvidenziale di siffatti inumani eccessi, finché le rivoluzioni, simili in tutto alle guerre, sono l'unico mezzo per portare rimedio (o solo un giusto compenso?) alle molto più turpi, prolungate, silenziose atrocità che ingenera quotidianamente l'ineguaglianza sociale».
Nonostante culturalmente e politicamente il movimento di Giustizia e Libertà rappresenti quanto di più avanzato abbia espresso l'antifascismo italiano di quell'epoca vi è pure una generica atmosfera volontaristica e idealistica di GL dopotutto abbastanza poco moderna perché scontava negli anni trenta certo banale idealismo dei primi del secolo. Certo, sia i Quaderni che il settimanale di GL volevano essere lo strumento politico e culturale di una battaglia in atto e non intesero rappresentare -come ha scritto Garosci- «lo sviluppo sistematico di un pensiero coerente». E tuttavia non si potrà non riconoscere che su molti problemi fondamentali sia politici che culturali le soluzioni indicate dal «Movimento» non erano abbastanza chiare e approfondite. Era contro una singolare mescolanza di entusiasmo mazziniano e di spregiudicato realismo, di generica atmosfera volontaristica idealistica e di atteggiamenti pragmatistici, di radicalismo rivoluzionario e di tendenze liberali non facilmente mediabili, che Caffi appuntava le sue critiche. Ma quelle critiche che Caffi non risparmiava alle idee e ai criteri ispiratori del Movimento di G.L. erano soprattutto dovute -come ha ricordato Nicola Chiaromonte- «al desiderio che l'antifascismo italiano, almeno nella sua parte più giovane e intellettualmente più avvertita, si sollevasse dal terreno della polemica spicciola e della propaganda antimussoliniana per attingere al livello di movimento europeo e contribuire in modo positivo al rinnovamento della tradizione socialista e libertaria»(6), e furono, per l'essenziale, la povertà di idee dell'antifascismo e il suo rifiuto tenace di «portare la critica alle radici» a determinare la cosiddetta «crisi con i novatori»(7).
Caffi militò nelle file dei socialisti italiani esuli in Francia ed ebbe rapporti di amicizia e collaborazione particolarmente con Saragat, G. E. Modigliani, Tasca e Faravelli (quest'ultimo responsabile del lavoro clandestino in Italia). La collaborazione di Caffi con Tasca e Faravelli costituì anche un'adesione alle posizioni politiche che quel gruppo esprimeva: le riserve nei confronti dell'unità d'azione tra socialisti e comunisti e delle ambiguità dei «fronti popolari», il fermo atteggiamento nei confronti dello stalinismo, il rifiuto delle alleanze di vertice, la lotta per il rinnovamento del movimento socialista(8).
Contrapponendo Proudhon a Marx, Caffi indica una maniera diversa di concepire la società umana e quindi quelle sue funzioni che sono la libertà e la giustizia. Del resto -insisteva Caffi- il socialismo deriva dal suo stesso nome, la sua gloriosa pretesa alla qualifica di neo-umanesimo proprio dal fatto che si è eretto a difesa della società contro gli inumani congegni dell'«ordinamento statale». La costituzione politica, risultato del movimento liberale del secolo XIX, doveva essere portata a compimento mediante la «costituzione sociale» limitando le prerogative e le funzioni dell'apparecchio statale, costringendolo a compenetrarsi esso stesso di «diritto sociale», si potrà giungere al complesso di varie autonomie che costituiranno la «democrazia industriale». I partiti operai invece si rivolgono unicamente al «cittadino», al fittizio «ente giuridico» che è il cittadino in tempi normali, e il sindacato si preoccupa unicamente del materiale, impersonale adattamento della «forza lavoro» nel sistema tecnico economico e quindi in definitiva di una sua integrazione nel sistema.
Al di là dei giudizi acuti, delle intuizioni talvolta geniali sull'evoluzione in corso della politica europea, sull'avvento del totalitarismo, sulla crisi delle società moderne, sui regimi di massa, sulla degenerazione della rivoluzione sovietica e così via, vi sono spunti, idee, e soprattutto un modo di pensare di sostanziale importanza e attualità nel discorso caffiano sul socialismo, di un socialismo cioè che non può accettare la rivoluzione industriale rinunziando alla rivoluzione sociale, come ancora accade nei sistemi, pur contrapposti, americano e sovietico.
Si potrà far rivivere un umanesimo socialista? E' questo in definitiva l'interrogativo nel discorso caffiano. L'avversione nei confronti delle ideologie, l'immensa cultura e la padronanza dei grandi fenomeni storici dell'antichità e del mondo moderno insieme al senso religioso della giustizia e alla capacità di «concepire l'essenza, la verità viva, la sostanza sacra dei fatti umani come una realtà concreta, non come un'idea astratta, un principio ideologico o un precetto morale», spiegano l'originalità del socialismo di Caffi e la profondità della sua analisi. L'esecrato capitale -ripeteva Caffi- che nella tradizione socialista si incolpava di tutte le sciagure, è appena identificabile oggi fra i giganteschi congegni di pressione politica, sociale e psicologica che stritolano gli uomini e li gettano nell'informe magma della «massa». I centri del potere economico e politico dai quali dipende la produzione e la distribuzione, dispongono oggi di tali mezzi ed apparati di repressione, di informazione e di distribuzione ed in pari tempo hanno acquistato una potenza così decisiva e «razionalizzata» da fare sembrare poca cosa il minuzioso ordinamento del vecchio dispotismo napoleonico. La preminenza di questi « apparati » politici, economici, militari, di informazione, ecc. rappresenta -seppure in forme diverse- il tratto saliente (l'Herrschaft des Apparats, secondo la definizione di Jaspers) tanto dei paesi occidentali a capitalismo privato quanto di quelli a capitalismo di Stato, ed è un attributo necessario del «regime delle masse». Ma qual é la qualità più evidente di tali masse? «L'inerzia» -rispondeva Caffi. La giunzione dinamica fra i formidabili mezzi di produzione e la collettività umana che sola può farli funzionare non s'è prodotta: la «massa» dei lavoratori sente istintivamente che, in quanto «collettività massiccia», essa è incapace di «possedere» sia i mezzi materiali di produzione sia gli ingranaggi complicatissimi di un'amministrazione economica. Sentendosi «incapace» la massa subisce. Che fare? Accettare la rigidità spietata di una burocrazia onnipotente? Sottoporsi a quella tecnocrazia che sembra essere nella direzione dello «sviluppo storico»? Per un socialista, una volta rifiutata sia la tirranide tecnocratica nuda che quella ammantata di ideologia del comunismo sovietico, una strada, mi pare, rimane: quella che la «massa» riuscisse ad abolirsi in quanto massa; a sich aufhe-ben, per usare quel linguaggio della dialettica hegeliana che il giovane Marx maneggiava con tanto vigore nei suoi scritti del 1844-1848. E il senso sarebbe che dalla massa bisogna pure che gli individui finiscano per uscire; bisogna pure che in seno alla massa si formino delle comunità autentiche, dei gruppi di «eguali» capaci di pensare e di agire con piena intelligenza dei fini e dei mezzi. Utopia o no, io non vedo altra strada verso un'emancipazione reale(10)».
Del resto -osservava Caffi- la democrazia politica europea con i principi dell'89 non aveva potuto trionfare, ed in modo molto imperfetto e precario, che dopo lotte violente e sanguinose, e dopo sforzi accaniti di parecchie generazioni in tutti i campi della «cultura», dell'organizzazione economica, dell'emancipazione dalle Chiese. Ed anche la rivoluzione sovietica (sebbene arenata in un «ricorso» di tirannide) ha richiesto un secolo di «lavorio sotterraneo». Per la verità, poi, quel lento e faticoso processo di democratizzazione della società europea, fu arrestato dall'emergenza del totalitarismo e di sempre più accentuate tendenze autoritarie non senza che a ciò vi contribuisse il mito dell'efficienza alimentato dall'impetuoso sviluppo tecnologico.
E tuttavia, nonostante la «razionalizzazione totalitaria» e la prospettiva per dirla con Zbigniew Brzezinski -di una «età tecnotronica», vi sono pure resistenze, realtà irriducibili, fenomeni che non si lasciano integrare e che potrebbero anche fare ben augurare per le sorti di una società più civile e ragionevole.
Quanto alla nota sul corporativismo ritrovata tra le carte caffiane e finora inedita, essa fu redatta da Caffi nel 1935 in occasione del numero speciale della rivista francese Esprit dedicata al corporativismo. L'argomentazione principale sviluppatavi da Caffi è che se il processo di accentramento e di crescente intervento dello Stato era già in atto verso la fine del secolo scorso con intensità eccezionale e indipendentemente dai diversi regimi costituzionali e politici, l'avvento dell'economia di guerra, della «mobilitazione industriale» e di tutto quell'insieme di bardature (ivi compresa tutta la gamma di «quelle metamorfosi del diritto civile, nella loro accelerazione e nei loro molteplici significati»)(11) ne rappresentò il culmine. Sicché alle idee di Ugo Spirito e dei suoi amici (i «sanculotti» del fascismo -come li chiamava Bottai) quali erano state formulate soprattutto al Congresso di Ferrara nel maggio 1932 (e per il loro carattere radicale e popolusta quanto al diritto di proprietà, mai attuate nella realtà del regime fascista) Caffi vi vedeva più ancora che una filiazione del socialismo di Stato (Wagner, Schaeffle, Sombart) uno strumento tecnico dello Stato totalitario nelle moderne società industriali di massa.
Di fronte alla crisi delle democrazie parlamentari e all'avvento della società di massa; al carattere sempre più astratto che per il popolo veniva ad assumere la vicenda politica in conseguenza dell'accresciuta complessità dei meccanismi sociali; all'enorme ed informe «crescita» delle funzioni dello Stato, le corporazioni -scrive Caffi- «sono una risorsa tutt'altro che stupida (e non saprei dire se proprio inattuabile) dello Stato trionfante sulle rovine di ogni umana comunità ».

(1) Cfr. Andrea Caffi, Critica della Violenza, Bompiani 1966, pag. 94.
(2) Vedi l'introduzione di Nicola Chiaromonte a Critica della Violenza, op. cit. pag. 13.
(3) Giustizia e Libertà (settimanale) del 4 Gennaio 1935.
(4) Cfr. Aldo Garosci, La vita di Carlo Rosselli, Edizioni U, 1945, pag. 73 (vol. 2°)
(5) In Quaderni di G.L:, n.11, Giugno 1934 (II Serie).
(6) Introduzione di N.C., già cit., pag. 19.
(7) Per questo aspetto di G.L., Cfr. soprattutto L. Salvatorelli e G. Mira, Storia del Fascismo; l'Italia dal 1919 al 1945, Roma 1952, e anco ra, di L. Salvatorelli, L'Opposizione democratica durante il fascismo, II Secondo Risorgimento, Roma 1955. Molto interessante lo studio di Claudio Pavone, Le idee della Resistenza, in Passato e Presente, n. 7, 1959, pag. 884. Per la separazione dal movimento di G.L. di Caffi, Chiaromonte, Levi e Giua, vedi Aldo Garosci, La vita ecc., op. cit. voi. II, pp. 97-102, ed anche G.B., Crisi con i novatori (Un episodio della storia del movimento di G.L.), in Critica Sociale, n. 7, 5 aprile 1963.
(8) Sull'attività svolta dal Centro interno del PSI, Cfr. soprattutto Stefano Merli in Annali Feltrinelli 1963 e le Tesi di Tolosa (I socialisti, la guerra e la pace) redatte da Caffi in Quaderni del Gobetti, Genova, 1958.
(9) Per alcune notizie sulla posizione di Caffi, cfr. anche Lamberto Borghi, Educazione e autorità nell'Italia moderna, Firenze 1951, pagg_ 316-323.
(10) «Borghesia e ordine borghese» in Critica ecc., op. cit., pag. 233-234.
(11) Secondo l'espressione di Rene Salvatier. Per una visione molto ricca e articolata della realtà dei rapporti giuridici contro l'esclusivo sistema del diritto individuale e ancor più contro il preteso «interesse generale» dello Stato, Caffi riprendeva l'analisi e gli spunti di George Gurvitch che in Idèe du Droit Social (Sirey, 1932) rielabora e svolge portandole alle loro ultime conseguenze le teorie di Fichte, Gierke, Krause e soprattutto di Proudhon sul pluralismo giuridico e sull'antitesi società-stato.

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