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Società, "élite" e politica

Andrea Caffi, 1946.
Anche in Tempo Presente, Vol. IV, n. 4, aprile 1959

Già prima di cadere nella bigotteria, Péguy deplorava la degradazione subita dal dreyfusismo nel passare dal piano della "mistica" a quello della politica. Il reverendo professor Toynbee crede che l'autentico apogeo di una società civilizzata, come pure di un uomo rispettabile, consista in una certa — come egli s'esprime — etherialization, ossia rarefazione nelle preoccupazioni d'ordine spirituale, onde la salute dell'anima, la conoscenza del divino e simili problemi dissipano i miasmi del sordido materialismo. Aldous Huxley (scrittore che amo assai più dei due succitati) ritiene che "dove manca la visione [mistica] il popolo perisce" e che "se quelli che sono il sale della terra [sempre i mistici] perdono il loro sapore, non c'è più nulla che preservi la terra dall'infezione e le impedisca di marcire".
Io non mi sento capace di confutare simili asserzioni (di negare, cioè, l'importanza per l'uomo di sollevarsi oltre il livello animale e di ambire alla visione più alta possibile dell'esistenza). Tuttavia, quando cerco di capirle, queste asserzioni, non posso a meno di provare un profondo disagio: mi sembra di scorgervi una mancanza di umanità e di semplicità nella gioia di vivere e nell'amore del prossimo. Se non devo attribuirla a una qualche mia intrinseca indegnità, ci deve pur essere qualche ragione in questa mia diffidenza verso i "valori spirituali" e quel che ne consegue, ossia — inevitabilmente — un egotismo quasi altrettanto spiacevole quanto la "volontà di potenza". Del resto, il mistico, come anche l'intellettuale soddisfatto della propria intellettualità, cade spesso in questa passione che crede di aver superato o annientato.
Da giovane, non credo di aver mancato di fervore per le "cime metafisiche" o le forme sublimi della musica, della pittura, della poesia e del romanzo. Epperò, devo confessare che era con un sentimento di liberazione, e quasi direi di purificazione, che mi accadeva di lasciare un qualche cenacolo di intelletti folgoranti o raffinati dove si erano scrutate le profondità del simbolismo o della durata bergsoniana per andare a raggiungere dei compagni piuttosto rozzi, preparare con loro una qualche ingenua "manifestazione", redigere un appello agli scioperanti imbastito di luoghi comuni marxisti, oppure raccogliere un po' di danaro per dei refrattari in miseria. Dirò di più: ho sempre pensato che se — per assurdo — questa solidarietà avesse comportato che io rinnegassi tutti i capolavori dell'arte, della filosofia, della cultura, non avrei esitato un momento.
Naturalmente, non c'è nessuna incompatibilità fra le "vere" conquiste dello spirito e l'emancipazione (ossia la felicità) di tutti gli esseri umani. Ma in certe circostanze (forse più russe che proletarie) è sembrato che il dilemma esistesse. La mia scelta sarebbe stata, anzi oso dire: è stata, per la negazione rivoluzionaria contro le pompe e le opere della più sublime cultura.
C'è qui implicita un'antinomia non dissimile da quella insita nel grande principio mistico del "perdere la propria anima per ritrovarla". E io non trovo assurdo contrapporre al mistico, come suo eguale nello sforzo di conquistare una piena misura di umanità, il rivoluzionario autentico. Aggiungerò che rivoluzionari autentici, per me, non sono soltanto un Proudhon e un Bakunin, ma anche un Voltaire, un Herzen, un Tolstoi. Per rivoluzionario, intendo un uomo il quale abbia: 1) la passione irresistibile di risvegliare e mettere in agitazione gli uomini che avvicina; 2) una simpatia attiva, fremente, per tutti quelli che soffrono, son vittime d'ingiustizia, han bisogno di un aiuto che non sia soltanto di parole. I fanatici dell'"idea" rivoluzionaria — ossia dello schema astratto — quali Blanqui o Lenin stanno al vero rivoluzionario come la disciplina dei gesuiti sta alla mistica di un Dionigi l'Areopagita.
Evoco questi nomi illustri al solo scopo di esprimere in scorcio le mie idee in proposito. La maggior schiettezza umana dell'atteggiamento rivoluzionario paragonato a quello mistico mi sembra rivelarsi nel fatto che quest'ultimo implica di necessità una gerarchia e non accorda la qualifica di vero iniziato che all'individuo il quale abbia percorso i più alti gradi della visione o della comunione con Dio. Mentre, nel suo fondamentale egualitarismo, il rivoluzionario sosterrà che il "sale della terra" si trova piuttosto nelle viscere della terra stessa, mescolato alla terra, che non sulle cime splendenti dove solo a pochi è dato assurgere. Nell'ordine della mistica, ai visionari o fakiri più prestigiosi io preferisco senz'altro i "cuori semplici" che praticano una vera e propria "abolizione dell'io" rimanendo umili membri di una comunità. Nei fasti del fervore rivoluzionario, i grandi agitatori contano molto meno dei militanti sconosciuti che hanno sacrificato la vita in oscure battaglie per un po' più di libertà e un po' più di giustizia. Noterò in parentesi che, nella parabola di Erodoto, né Tellos né Cleobis e Biton erano dei personaggi illustri della loro città, o degli intellettuali, e che il cultivons notre jardin su cui si chiude Candide (come la parzialità per l'uomo del popolo in Bakunin e in Proudhon) corrispondono a una medesima intenzione d'umiltà "comunitaria".
Si potrà a questo punto obbiettare che "rivoluzionario", nel senso in cui sto impiegando il vocabolo, non corrisponde all'uso che del vocabolo stesso è stato ed è generalmente fatto. Risponderò che mi servo di questa parola in omaggio alle Confessions d'un révolutionnaire di Proudhon, al "giuramento di Annibale" di Herzen, e insomma a tutto il secolo decimonono, come pure al ricordo della mia giovinezza, quando la parola non era un semplice flatus vocis. "Umanitario" o "umanista" indicano forse meglio il contrario di "mistico". Ma queste due parole son state svalutate dall'abuso che se n'è fatto. Quanto a "socialismo", manteniamo pure in onore questa gloriosa parola; ma precisiamone il senso positivo prima d'invocarla invano. "Rivoluzionario", d'altronde, è anche un modo d'accentuare la parte che sembra indispensabile fare alla politica. "Ci amavamo già come ci si ama nei puri e generosi slanci della giovinezza e sotto il fuoco del nemico": questa frase mi sembra riassumere bene l'energia che crea, mantiene e rinnova le comunità rivoluzionarie.
Quanto alla politica, l'esecrazione di Péguy non mi sembra giustificata che quando è volta contro una specie particolare di politica fra le molte forme d'attività che la parola serve a indicare. La politica è infatti un po' come la sciabola di Monsieur Joseph Prudhomme, che doveva servire a "difendere le nostre istituzioni e, all'occorrenza, a combatterle".
Nel suo significato primordiale, la nozione di politica si ricollega alla città greca, dove lo Stato, la società e il popolo erano (press'a poco) una sola e medesima realtà, e cioè una permanenza di rapporti fra persone coscienti di esistere e le quali volevano esistere il meglio possibile nella sicurezza di un determinato ordine.
Aristotele designa tali rapporti col termine di philía. C'è chi pensa che sia un errore tradurre la parola con "amicizia". E tuttavia, i Greci erano soliti pesar bene il senso preciso delle parole, sicché non sembra arbitrario supporre che dei cittadini che glorificavano gli "amici" Armodio e Aristogitone, o quelli del battaglione "sacro" grazie al quale fu salva la libertà tebana, abbiano "idealizzato" la loro unione concependola in un modo non molto diverso da quello in cui potevano concepirla degli operai in sciopero (al tempo in cui ciò comportava dei rischi quasi mortali) o dei soldati in combattimento. Insomma una specie di "fraternità virile", come usava dire Malraux.
Ma questa è storia antica. Il fatto è che tutte le vicissitudini delle nazioni moderne sono determinate: a) dalla dislocazione fra Stato, società e popolo; b) da una manifestazione attiva di quella forma di coesione elementare che è la massa, la quale tende a sommergere la società al tempo stesso che atomizza, meccanizza, sterilizza il popolo. Si potrebbero dunque distinguere delle "politiche" assolutamente eterogenee, a seconda che il loro movente e la loro ragion sufficiente è la nazione, l'industria, il proletariato, il popolo, le élites, eccetera; ed è nell'urto come nella confusione di queste forze o di queste attività, le cui fonti e i cui fini sono antagonistici, che è da cercare la ragione principale delle catastrofi moderne.
Cerchiamo dunque di distinguere: 1) La politica è in primo luogo azione di governo. Lo Stato non conosce altra finalità né altra ragion d'essere all'infuori della sua propria perennità e della sua propria potenza. Che ad incarnarlo siano Richelieu, Bismarck o Stalin, esso non potrà tollerare nulla "fuori dello Stato", né considerare il popolo altro che come un oggetto taillable à merci e la società (ossia il tessuto dei rapporti spontanei e creativi fra individui e gruppi) altro che come un ostacolo inetto e irritante. La volontà di potenza e di possesso non spiega tutto: c'è una devozione contagiosa, un culto talvolta ascetico dell'apparecchio di comando che entusiasma anche i più umili servitori. I gesuiti, i comunisti, gli zelanti servitori di un Napoleone o di un Federico di Prussia ne hanno offerto esempi memorabili. Il sistema di Auguste Comte, essendo, com'è, gratuito, eleva l'idolatria dello Stato alla dignità di una metafisica, ossia la porta all'assurdo. Ci si potrebbe a questo punto domandare se, nella nozione di economia politica, nata press'a poco col capitalismo, l'aggettivo sia motivato dalla cura del pubblico interesse che ispirava numerosi capitoli della nuova scienza o non riveli piuttosto il fatto che la direzione di una grande officina, di una miniera, di un trust comporta, ancor più che delle operazioni economiche (di produzione, di soddisfazione dei bisogni, quali l'amministrazione dell'oikos ne supponeva naturalmente nei tempi antichi), un'attività di governo, ossia di dominio. Sembra, per esempio, che i "re" dell'acciaio, delle ferrovie, del petrolio eccetera, in America, abbian potuto esercitare in questo campo un'autorità illimitata, soddisfare una facoltà di potere e d'arbitrio tale che né il Congresso né la Casa Bianca gliene avrebbero offerto l'eguale.
2) Dopo il secolo decimottavo, esiste in Europa — con curiose analogie in Cina, e nell'epoca ellenistica, romana e bizantina — una politica delle élites. Tutta la costruzione di Vilfredo Parete e di Gaetano Mosca, i quali identificavano le élites con la classe dirigente, e cioè con i detentori dell'apparato governativo quale che sia, costituisce un sintomatico malinteso. Questi sociologi non hanno preso in considerazione che le élites sociali già corrotte dalla loro accessione al potere. Inoltre, essendo essi stessi degli idolatri della potenza, se non dello Stato, Parete e Mosca hanno concepito l'attività di comando come il coronamento naturale e il fine supremo di quelle superiori qualità di coscienza, di spirito critico, di socievolezza ricca e generosa che caratterizzano una vera élite.
Se si vuole essere esatti, bisogna pur dire che, per gl'intellettuali del secolo decimottavo, l'intervento dell'élite negli affari pubblici significa la spinta della società, con i suoi costumi, la sua mitologia, le sue aspirazioni alla felicità umana, contro la grandezza inumana dello Stato e contro la barbarie docile o feroce alla quale vien ridotto il popolo asservito. Dal che consegue, mi pare, che non ci può essere società, e di conseguenza élite, se non nella misura in cui tale formazione (o "comunità" per eccellenza) non governa e anzi per principio rinnega (o ignora, magari con ipocrisia) ogni procedimento di costrizione e di sfruttamento dell'uomo: nella misura cioè in cui, pur riformando lo Stato e educando il popolo, l'élite rimane tuttavia "esterna" sia all'uno che all'altro.
Ciò non s'è mai realizzato integralmente, lo so. E tuttavia, dalle Costituzioni d'America e di Francia, attraverso le assai eterogenee velleità di "regime liberale", fino a una notevole frazione dei deputati alla Duma russa del 1906-1914 e ai rari parti-giani sinceri di una Società delle Nazioni (diciamo: Masaryk e, forse, Briand da vecchio), la tendenza verso una "politica delle élites" si è chiaramente manifestata. Si potrebbe descriverne l'orientamento nel modo seguente:
1) Di fronte allo Stato, sforzo per limitarlo, controllarlo, umanizzarlo imponendogli una probità rigorosa, la pubblicità di tutti i suoi atti, e una specie di "buona educazione" da persona dabbene. Ciò si accompagnava — conviene sottolinearlo — a divergenze importanti che andavano dall'adesione senza riserve a un sistema debitamente "razionalizzato" (e quindi ritenuto per natura esente da ogni possibilità d'arbitrio o di conflitto con la giustizia obbiettiva), quale la burocrazia napoleonica e prussiana, fino all'esigenza del disarmo, del pacifismo assoluto, dell'abolizione effettiva delle frontiere nazionali.
2) Di fronte al popolo, si notano almeno quattro atteggiamenti tipici: a) l'idea, illuminista o "progressista", di un'integrazione graduale del popolo nella società, grazie alla diffusione dei "lumi", del costume "civile" e, beninteso, di un qualche benessere; b) l'idea, rousseauiana o romantica, di una dissoluzione della società in un popolo-nazione in seno al quale preesisterebbe tutto un substrato d'organizzazione secondo la natura e la giustizia immanente (o il "genio della razza"), substrato che si tratterebbe di liberare dalle sovrastrutture corrotte e corruttrici; e) la concezione del semplice buonsenso (nella quale Robert Owen, Proudhon, Kropotkin, e forse anche Lincoln, avrebbero potuto trovarsi d'accordo con Tolstoi) era che, se si riusciva a garantire agli uomini il pane, la pace e la libertà, essi avrebbero attinto alla loro stessa coscienza, di cui allora avrebbero avuto tempo e modo di ascoltare il richiamo, la dignità e i costumi che esige la philía sociale. Ciò comporterebbe, se non l'abolizione, perlomeno la riduzione estrema dello Stato come potere di coercizione incondizionato; ma anche, per la società, una conversione all'estrema modestia: qualcosa di non lontano dall'etherialization del reverendo professor Toynbee e dalle rinunce "mistiche" di Huxley; d) i saint-simoniani, o dei democratici del genere di Stuart Mill, sembrano aver preconizzato — come nella Repubblica di Platone, ma senza i metodi selettivi e la disciplina comunitaria del filosofo ellenico — una tutela benevola del popolo da parte della società, tutela fondata sull'ipotesi che quest'ultima non potrebbe mai sorpassare la cerchia di un piccolo numero d'individui.
Beninteso, le concezioni che ho citato come tipiche non sono né le sole ad aver corso, né dei "piani" elaborati sistematicamente fino alle ultime conseguenze. Fra gli ideali che io ho isolato per pura logica ci fu spesso contaminazione, e più spesso ancora un rapporto che si potrebbe chiamare d'" indeterminazione" fra i vari scopi vagamente intravisti. Siccome però la "politica delle élites"', con i suoi successi parziali sempre ambigui, le sue tragiche delusioni e il suo schiacciamento finale, sembra costituire la trama stessa della civiltà occidentale dalla Rivoluzione americana (e forse anche sin dall'insurrezione dei Paesi Bassi) fino alla Rivoluzione russa, mi vedo costretto a prolungare le mie spiegazioni se non voglio rimanere disarmato di fronte all'obbiezione: "A che prò complicare tanto ciò che da tempo è stato classificato sotto la rubrica 'conquista del potere da parte della borghesia'?"
Io oso sostenere che i limiti della "società" e della sua élite, come dell'orizzonte mitologico, intellettuale e di costume nella quale società e élite si muovono, non coincidono con i limiti della mentalità della borghesia, o della gentry, o dell'aristocrazia, o anche degli intellettuali declassati. Questo anche se di fatto la gran maggioranza dei membri della "società" appartengono a una di queste classi definite in virtù delle loro funzioni economiche e non hanno affatto obliterato o abdicato ai loro caratteri originari, ossia un certo tipo di preoccupazione esistenziale e un certo modo abituale di considerare la trama dei rapporti con gli altri.
Se mi si concede di chiamare "società" gli amici raggruppati intorno a Socrate come le coorti di riformatori mobilitati da Cluny; il cenacolo di zelatori di una "fede pura" (detti anche "vecchi credenti") cui appartenne Avvakum come i salotti dove, dalle chiarezze cartesiane e dalle temerità "libertine", lo spirito di ribellione (e di fondazione) arrivò a toccare il diapason dell'Enciclopedia e degli entusiasmi plutarcheschi dei Girondini; le soffitte da cui si propagò il "nihilismo" rivoluzionario russo, ma anche gli ambienti apparentemente rispettosi delle gerarchie e degl'interessi privilegiati in cui si formarono la "filantropia" di un Marco Aurelio o di un Giuliano; l'umanismo di Erasmo e di Thomas Moore, la massoneria, uomini come Alessandro Herzen o Leone Tolstoi; se mi si concede questo, allora diventa difficile ridurre gli engagements determinati dalla società alle suggestioni di una psicologia collettiva di classe, determinata a sua volta dagli interessi obbiettivi della classe medesima.
Nei tempi moderni, fu precisamente l'incontro con lo spirito borghese, ossia una certa accettazione delle realtà dell'esistenza borghese, a esautorare la società come un male corrosivo. Il compromesso con l'apparato di comando statale-nazionale-capitalistico (dapprima forse ingenuo, poi inficiato d'irrefragabile codardia) colpì la società come una ferita mortale; infine, dopo una serie di maldestri tentativi di ritrovare il popolo, l'ondata ciclonica delle masse le diede il colpo di grazia.
È lecito parlare della società come di un "ambiente": in primo luogo perché un tal modo di vivere in comune si inserisce fra la casta organizzata dei dominatori tutti assorti dalla loro attività di comando, di conquista, di accumulazione di ricchezze o di prestigio da una parte e le folle agglomerate del popolo "che pena e prega", senza riposo né libertà d'orientamento, dall'altra; in secondo luogo, perché questa oasi di libertà intellettuale e materiale è un "ambiente di cultura" nel quale l'uomo ha modo di contemplare la propria vita, quella degli altri, quella del mondo, e d'inventarne il significato.
Aldous Huxley tende ad accordare un valore esclusivo alla contemplazione teocentrica, con l'aggiunta di qualche applicazione filantropica. Io penso che 1"'orrore e la pietà" possono far scaturire un impulso rivoluzionario di sfida al destino, dunque di rivolta atea, al quale mi sembra ingiusto attribuire un carattere puramente negativo, e anche un posto inferiore a quello dell'impulso mistico nella scala dei valori morali. Questo "ambiente" di cultura sociale può favorire la fioritura di forme di coscienza molto alte: l'intuizione di armonie immediate, di forme imperiture e perfette, l'esperienza di una felicità e di una tristezza essenziali, la percezione intensa dell'istantaneo o dell'infinito in atto, possono generare un equilibrio di serenità statica, lontano dal dinamismo mistico come dall'esaltazione rivoluzionaria; indurre a mantenere uno stile di nobiltà e di grazia in tutti i particolari dell'esistenza; dare, con il gusto della conversazione, quello dell'avventura gratuita e generosa (non egocentrica); stimolare, infine, la ricerca di rapporti rari, raffinati e (perché no?) anche "perversi" con i propri simili.
Non c'è civiltà autentica nella quale questi tre ordini di fatti non si manifestino nell'ambiente sociale che ne è il perno e la scaturigine. E mi si permetterà di dire che solo nella società, in mezzo a persone di cui le une hanno rinunziato alle brutali prerogative del comando e le altre (meno numerose, certo) son riuscite per forza di volontà o favore della sorte a sfuggire ai ceppi della servitù, ci si possono aspettare esempi di vero eroismo (e non del suo surrogato, quello che nasce dalla disciplina guerriera); di vera santità (assai diversa dalle esalazioni regolate dalla magia, dai dogmi, dalle superstizioni utilitarie); di vera saggezza (la quale è tutt'altra cosa che l'adattamento a necessità ineluttabili); infine, di vero amore (che non ha nessun rapporto con le delizie prestabilite e protette dalla trama delle convenzioni coniugali o familiari, né con le flaccide abitudini che rendono confortevole una economia casalinga senza peraltro esigere alcun sacrificio).
Che un simile ideale di società comporti in pratica un immenso scarto di frivolezze, di mimetismi ridicoli, di storture, di esistenze guastate, è il prezzo da pagare al paradosso della condizione umana, nella quale non si può mai dire dove finisca l'angelo e dove cominci la bestia e se quello che si sta ammirando come "sale della terra" non sia invece un'escrescenza morbosa, una mostruosità che snatura la specie e mette in pericolo la sua sopravvivenza biologica.
Così pure è evidente che il tessuto di rapporti e d'azioni comuni che forma la società è di una fragilità estrema. Dopo le ecatombi del 1914-'18, non restava molto della società europea del principio del ventesimo secolo; e dopo la seconda devastazione subita da tutti i paesi civili sarebbe difficile ritrovarne persino le vestigia. Onde possiamo, fra l'altro, immaginare con conoscenza di causa quel che poteva rimanere della "vita di società" nella Parigi del 1793-'94 o nella Pietroburgo del 1918-'19. Non si tratta soltanto della rottura dei legami, ma del fatto ancor più decisivo che, in tali frangenti, l'individuo può mantenersi "al disopra della mischia" solo se è dotato di un eroismo, di una saggezza, e anche di una santità, eccezionali. In novantanove casi su cento, egli perde piede e si aggrega al branco dei lupi urlanti, dimenticando il patrimonio della cultura per decadere fino alle reazioni elementari del patriota o del membro di una data classe sociale, accecato da risentimenti più o meno sordidi. La "società" ha senza dubbio minato l'edificio del despotismo di Luigi XIV come quello dell'autocrazia di Pietro il Grande. Ma questi sistemi di coercizione non hanno potuto essere abbattuti che a forza di popolo: ora, il popolo, già nella Parigi del 1789-'92, e ancor più nella Russia del 1917-'18 con i suoi venti milioni di mobilitati strappati ai legami naturali delle loro comunità, stava diventando "massa". L'élite, allora, in primo luogo commise un errore senza perdono, usurpando — o credendo di poter usurpare — la funzione di classe governante e arrogandosi quelle funzioni di comando che sono in contraddizione assoluta con le qualità che giustificano la dignità di élite sociale; in secondo luogo, dopo aver goffamente adulato il popolo, col quale essa non riusciva ad avere un linguaggio (ossia una mitologia) comune, l'élite medesima si lasciò vincere dalla paura delle masse; e, per finire, essa fu inghiottita dalla politica di massa. Lo stesso è avvenuto per quelle frazioni dell'élite sociale che, nel 1914, avevano creduto a una "guerra giusta".
La società e la sua élite possono esser quello che sono solo se accettano rigorosamente il principio di non aver nulla a che fare col mondo della violenza. Un sistema di oppressione violenta e di coercizione metodica impedisce radicalmente la formazione di un'élite, o la distrugge radicalmente ove essa esista. Né la Turchia né la Prussia hanno avuto élites in questo senso di fermento civilizzatore. Il Primo Impero è l'epoca più opaca della società francese. E, se la società potè resistere al regime di Nicola I di Russia, ciò si spiega, come osserva assai acutamente Huxley in The Grey Eminence, con la debolezza delle risorse tecniche di un governo non ancora armato di mezzi rapidi di comunicazione, di carri armati, di aeroplani eccetera.
D'altro canto, l'affermarsi degli interessi di classe in un determinato paese può dar luogo a una ripartizione dei poteri di comando e dei "gradi" di servitù tale che l'opposizione dell'ambiente sociale al governo da una parte, e al popolo dall'altra, non sia altrettanto netta quanto nella storia dei due Stati particolarmente centralizzati che furono la Francia e la Russia, o in quella fase della civiltà che ha finito con l'esser caratterizzata dallo stile barocco. Nel libro succitato, Huxley ha indicato con mirabile precisione come sia impossibile trovare una misura comune fra il mondo tutto gonfio di nobiltà di un Rubens o di un Corneille e il mondo atrocemente reale disegnato da un Callot, e così pure l'abisso incolmabile fra la verità mistica di un Bérulle o di un Pascal e la ragion di Stato di un Richelieu: questo anche nel caso in cui mistica e ragion di Stato coesistano nella coscienza di un Père Joseph o di un Cromwell. La coesistenza degli splendori di Versailles e della miseria dei contadini descritti da Madame de Sévigné e da La Bruyère illustra bene il parossismo raggiunto in quell'epoca dal divario fra sistema di dominazione politica ed economica (senza dimenticare la tratta degli schiavi) da una parte, e vita di società e condizioni del popolo dall'altra. C'è qui una curiosa analogia con l'epoca ellenistica: potrebbe infatti darsi che quello che è stato chiamato talvolta "barocco alessandrino" con Lisippo e Briaxis, Callimaco e Licofrone, e gli Eratostene e gli Archimede al posto dei Galileo e dei Newton, e abbastanza culti iniziatici da riempire volumi come quelli dell'abate Brémond sulle correnti mistiche nel diciassettesimo secolo; potrebbe darsi, dico, che tali fenomeni corrispondano a una brutale separazione fra le machines royales dei diadochi macedoni da una parte e, dall'altra, i circoli di cultura ellenica ansiosi di assicurarsi un'esistenza autonoma procul negotits unitamente alla sorte infinitamente aggravata delle masse di schiavi e dei popoli sempre più oppressi e sfruttati.
Per tornare in argomento, non bisogna dimenticare i casi in cui la società, la sua élite e l'azione da essa svolta non appaiono così concentrate, e così chiaramente distinte dalla classe dominante e dal popolo, come in Francia, in Russia e all'epoca ellenistica. Può accadere che la geografia del territorio e la semplicità dell'economia, sufficiente a sostentare la collettività, mantengano fra governanti e governati dei rapporti così stretti da non lasciar campo a un ambiente refrattario, diluendo così, in un certo senso, gli elementi capaci di rappresentare l'élite. Ovvero, le circostanze dell'arricchimento degli uni a spese degli altri e le esigenze dell'organizzazione armata per assicurare l'indipendenza, l'espansione, la "grandezza" di una sovranità statale non impongono né la creazione di un apparato di comando che divora tutte le risorse disponibili né la riduzione del popolo all'abbiezione di massa corvéable. Allora, la scala dei privilegi non appare tanto insopportabile ai non privilegiati da giustificare agli occhi dei più un appello alla ragione per far tabula rasa di tutto l'edificio. Abbiamo l'esempio della Svizzera, dove fino a tempi recenti la tirannia calvinista era insomma sostenuta e approvata dalla quasi unanimità dei ginevrini, e dove gli eccessi del rozzo patriziato di Berna e della più raffinata oligarchia di Basilea son stati abbastanza facilmente ridotti alla ragione. Di fronte a un popolo contadino la cui condizione splendeva già come un ideale agli occhi dei servi e mezzi servi della Germania del 1525, i potenti elvetici non erano in fondo che un "popolo grasso". E abbiamo anche la Norvegia, della quale basterà forse ricordare che se il teatro di Ibsen parve così originale agli spettatori di altri paesi europei, fu perché, fra l'altro, l'eroe che protesta, il "nemico del popolo", vi sorge in comunità immediata con l'esistenza quotidiana di collettività modeste dove gli "importanti" e gli "umili" non esitano a interpellarsi da eguale a eguale. Questi due paesi ci offrono, almeno fino a tempi recenti, l'esempio di un conformismo intrattenuto così attivamente che le evasioni individuali non hanno ragione di coagularsi in rivolte radicali e, quando si manifestano, rimangono sul piano della dissidenza morale (da mores: costumi).
Invece, la storia dell'Inghilterra e quella dell'Olanda fra gli inizi della Riforma e il trionfo della rivoluzione industriale (nel corso delle quali tutte le forme di una "cultura sociale" e tutti gli sforzi di una "politica delle élites" si sono manifestati vigorosamente) mostrano in modo particolarmente chiaro la potenza d'inibizione e di disgregazione che il conformismo morale (ispirato dall'attaccamento feroce alla proprietà, alla cerchia familiare, all'efficienza economica, alla stabilità e continuità delle classi, come pure delle nazioni al disopra di esse e delle piccole cellule individualiste nel loro seno) può esercitare su quella "ricerca dell'assoluto" senza la quale "il sale della terra perde il suo sapore". È qui che scoppia in tutta la sua virulenza l'antagonismo irriducibile fra il "genio della società" e la mentalità borghese.
Un documento della tappa più recente di questo cammino ci può forse aiutare, a guisa di uccello di Minerva che spicca il volo dopo il crepuscolo, a capirne meglio i motivi. Uno studente di Oxford il quale si presenta come tipico rappresentante del suo ambiente scrive, nel 1941, all'età di ventidue-ventitré anni, che in Inghilterra egli scorge "una razza di uomini formata nella lotta, sintesi armoniosa della classe governante e del grosso del paese, sintesi degli ambienti e delle formazioni più diverse di cui le squadriglie della RAF offrivano gli esempi più notevoli... Questi uomini avevano (come capo riconosciuto) Churchill, uomo pieno d'iniziativa e di risolutezza e fuori dai partiti".
È il caso che mi ha fatto capitare fra le mani il libro di Richard Hillary The Last Enemy'. Il libro commuove in primo luogo perché lo si sa sigillato dal martirio dell'autore, e poi per quel che ha di giovanile e di maldestro, quindi di sincero, malgrado molte astuzie letterarie e un'innegabile adesione al patriottismo dei benpensanti. Gli si perdonerebbe anche, perché è giovane e inglese ("Perché sei giovane, bello e romano," diceva Filippo di Macedonia in un'occasione analoga), il sentimentalismo d'accatto per cui s'intenerisce sulla sorte dei suoi camerati aviatori, o gioca a nascondino con dei bambini e fa dirottare la sua squadriglia per salutarli prima di andare a contribuire al massacro di altri bambini nei quartieri poveri d'Anversa, d'Amburgo, di Genova o di Napoli. Quel che mi sembra caratteristico del risultato di una certa politica delle élites — adattata a un'atmosfera di franco filisteismo e anche a "un orizzonte limitato e a uno spirito di casta che non ci dispiaceva" — è il
fatto che Hillary calcola sinceramente le probabilità che avrà la "sintesi armoniosa" degli happy few con il "grosso" d'intendersi "su un programma ragionevole e insieme umano per risolvere questioni che seimila anni di civiltà non eran riusciti a risolvere".
Mi sembra di ritrovare qui un metodo classico dell'"idealismo politico" quale è praticato dagli anglosassoni: delle formule di una portata umana quasi illimitata, ma che non impegnano praticamente a nulla ("desideri" che non bisogna prendere per "promesse") e non minacciano di sovvertire alcun interesse costituito. Così, per esempio, l'emancipazione degli schiavi senza la minima intenzione di trattare da eguale il negro della Giamaica o quello del Mississippi; il liberismo di Cobden, che avrebbe dovuto fare la felicità del genere umano senza alcuna spesa per nessuno; il programma di Wilson; il patto Kellogg e, infine, la Carta atlantica e l'ONU.
Non si tratta affatto della ripugnanza, spesso attribuita alla mentalità anglosassone, a costruire sistemi e a spingere fino alle conseguenze estreme una verità di ragione. Gli inglesi sono anzi mirabilmente capaci di simili sforzi. Si tratta piuttosto di una repressione prestabilita delle realtà imbarazzanti, conservando tuttavia la facciata di una "teoria" obbiettiva e generosa delle esigenze umane. Il desiderio di "risolvere" in maniera ragionevole le questioni che "nel corso di seimila anni di civiltà" hanno votato all'olocausto coorti di mistici da una parte, di rivoluzionari dall'altra, questo desiderio (se non ci si limita, come forse sarebbe giusto fare, a sorridere della temerità giovanile dell'enunciato) non può significare altro che il desiderio non confessato di sbarazzare una volta per sempre la confortevole home (dove la vita e gli affetti son perfettamente tracciati nell'alternarsi produttivo e igienico di lavoro e sport) dall'ossessione degli "abissi insondabili". Questi, li si conserverà tutt'al più a titolo di thrill: d'emozione rara per i momenti di diletto estetico o di raccoglimento religioso. Quanto alla soluzione "umana", essa fa naturalmente pensare alla cura — meritevole di ogni elogio — di praticare nel modo più umano possibile sia l'uccisione degli animali da macello che l'impiccagione dei delinquenti condannati secondo le forme più leali della giustizia terrena. Insomma, Dickens e Dostoevskij si sono chinati sullo stesso mondo di miseria, di malvagità, di scoramento, di sofferenze assurde. Ma l'inglese è riuscito a mostrarli in forma umanamente assai più sopportabile che non il russo.
Per non essere ingiusto con Hillary, noterò che il suo libro si chiude su una nota di desolazione il cui senso non può essere altro che il rinnegamento completo degli atteggiamenti egocentrici dell'inizio, quando "la guerra [rispondeva] perfettamente ai nostri gusti" e "risolveva tutti i problemi, offrendomi l'occasione di esprimere la mia natura". È lecito pensare che se, per miracolo, l'autore fosse sfuggito al suicidio eroico, il suo intelletto si sarebbe schiarito e indurito fino alla rivolta totale del misticismo o dell'azione rivoluzionaria. Giacché certo non mancava a Hillary la tempra di quegli uomini (di cui appunto l'Inghilterra ci ha dato esempi mirabili) che sono capaci di dire col pensiero, con le parole e con gli atti: "Etsi omnes ego non."
Dopo questa parentesi, torno all'idea che mi è cara. Il movimento d'opinione che è riuscito a imbarazzare seriamente i governi e i loro apparati di coercizione, nonché a suscitare un fermento d'indocilità, di critica attiva e di rivolta nel popolo, ha avuto come epicentro — in Francia dopo il periodo della Reggenza (1720) e in Russia dopo Alessandro I (intorno al 1820) — quell'"ambiente" al quale, dopo il successo del romanzo russo in Occidente, si è generalmente applicato il termine di intellighentsia (personalmente, al termine di intellighentsia preferisco quello di "società" che ho trovato con un significato esattamente identico in Voltaire, per esempio nel racconto Babouc). Ora, si può sostenere che una pressione analoga a quella esercitata dalla società (enciclopedista o "filosofica") sul sistema sociale francese nel secolo decimottavo, o dall''intellighentsia (più o meno "nihilista") russa sul regime zarista del diciannovesimo secolo, non s'è mai avuta nei paesi tedeschi: Prussia, Baviera, Austria. Per usare uno dei termini favoriti di Toynbee, il movimento della società in Germania fu "abortivo".
È di nuovo a Toynbee che farò appello, nel paragone che egli istituisce fra la "solerzia prussiana" (da lui altamente ammirata), 1'" effervescenza polacca" (che egli apprezza assai poco) e 1"'esaltazione russa" (la quale, beninteso, lo scandalizza).
In Polonia — e in maniera più limitata, al tempo stesso che più democratica, in Irlanda — si è avuto il fenomeno strano di una ipertrofia apparente della "società" in quanto, fino alla costituzione dello Stato di Pilsudski e di quello di De Vaierà, un apparato di dominazione riconosciuto come legittimo (e cioè nazionale) non esisteva né nella Polonia "anarchica" del liberum veto, né nella Polonia dilaniata fra tre potenze nemiche, né nell'Irlanda schiacciata sotto il tallone britannico. In tutt'e due i casi, il popolo languiva nel fondo della miseria, mentre la disciplina, i dogmi, le valvole d'azione caritatevole della Chiesa cattolica imponevano dei limiti quasi insormontabili (perché fondati su un consenso unanime) a ogni audacia della coscienza critica fra gli intellettuali e, insieme all'inquietudine morale dei privilegiati come all'esasperazione del popolo oppresso. Una socievolezza spensierata, generosa, sovente artistica, vi si potè d'altra parte espandere pienamente. Ma, quanto a quella che Toynbee chiama "effervescenza", un alone di romantica trasognatezza l'ha spesso condannata, sul piano mistico come su quello rivoluzionario, ai lamentevoli sbandamenti della vuota declamazione, del dilettantismo, della iattanza melodrammatica.

È curioso vedere come qualifiche peggiorative molto simili possono applicarsi a talune iniziative dell'élite in Italia e in Spagna. Penso in primo luogo a quel che potrebbe essere un parallelo fra Riego, Espronceda, Pi y Margall, Mazzini e Garibaldi da una parte e, dall'altra, i rivoluzionari francesi e russi. Nelle due penisole, dopo che tutto il peso oscurantista della Controriforma si associò strettamente alla forza brutale di regimi burocratici e polizieschi, la situazione sociale fu analoga. Vi rimaneva senza dubbio un ricchissimo patrimonio di esperienze sociali: repubbliche cittadine, comuneros, imprese marittime, perfezione delle tecniche artistiche, contatti fecondi con la cultura ellenistica e quella araba, partecipazione attiva ai grandi problemi europei. Questa gloriosa tradizione lasciava certo all'Italia come alla Spagna delle possibilità di evasione spirituale. Ma tali possibilità si trovarono col tempo ridotte al livello dell'avventura individuale: l'Inquisizione e il paternalismo governativo calpestavano inesorabilmente ogni velleità di cenacoli, di eresie intellettuali, d'evasione spirituale (il fatto che, per esempio, il gesuita Escobar ignorasse persine l'esistenza delle Provinciales di Pascal molti anni dopo la loro pubblicazione è abbastanza sintomatico della potenza di schiacciamento del cattolicesimo). Si ebbero certo la mistica senza compromessi di Juan de la Cruz, del Greco, di Calderón; la scienza di Galileo, Torricelli, Spallanzani; il realismo di Cervantes e del Caravaggio; l'utopia grandiosa di Campanella; l'oblio delle contingenze nella dolcezza di vivere di Venezia o nella placidità di molte esistenze rurali. Tuttavia, l'educazione cattolica e la miseria diffusa di "galantuomini" e caballeros vivacchianti a gran fatica in ozi senza dignità resero sterili i germi possibili di un'opinione pubblica libera, sia in Italia che in Spagna. L'eco assai attutila del Risorgimento negli strati popolari, l'irradiamento troppo modesto del moto di rigenerazione intrapreso da una piccola élite spagnola dopo la disfatta del 1898, le peripezie politicamente e intellettualmente piuttosto povere dell'antifascismo, potrebbero essere la prova di una debolezza congenita della società in questi due paesi.
Beninteso, il paragone riguarda unicamente la scarsa consistenza di un certo ambiente sociale che si nota sia in Italia come in Spagna dopo la fine del sedicesimo secolo. Ma ci sono d'altra parte differenze essenziali fra i meschini despotismi di dinastie e d'oligarchie in Italia e la politica di grandezza della grande monarchia burocratizzata da Filippo II; fra l'orgoglio castizo, inumano, chiuso in se stesso, impermeabile alla ragione, e la vanità italiana, tutta striata di scetticismo e di complessi d'inferiorità, ma anche di nostalgie cosmopolite; fra il pidocchiume maestoso di un paese sempre più desertico dopo l'esodo dei Mori e dei maranos e la duttile rassegnazione (infinitamente gradita ai turisti e agli "occupanti") degli italiani a un'esistenza sempre più angusta, a salari o elemosine sempre più "di fame" man mano che progredivano parallelamente la stagnazione economica e Passervimento dell'Italia alle ricche e potenti nazioni oltramontane; fra un'estetica violentemente refrattaria a ogni senso ellenico della misura, della forma, della chiarezza intellettuale (si pensi alla Celestina, a Gongora, a Goya) e una disciplina della visione ordinata che la Magna Grecia e la Toscana hanno inculcato con eguai forza, ma con diverso accento, agli artisti italiani, in modo da allontanare persine dal sogno e dalla fantasmagoria ogni traccia di disordine romantico; del che testimoniano Paolo Uccello come Piero della Francesca, l'Ariosto come Leopardi.
Per giungere infine a idee un po' più nette sulle deformazioni dell'élite sociale che implica, a mio parere, l'efficacia dell'opinione pubblica in Olanda e nei paesi anglosassoni, efficacia che si rivela di un ordine molto superiore se la si paragona al torpore di questa medesima forza in Spagna e in Italia, o alla sua effervescenza spesso fattizia in ambienti come la Polonia o I'Irlanda, o anche alla sua concentrazione in seno a una società in rivolta contro le tradizioni superstiziose e la barbarie delle istituzioni nella Francia del diciottesimo e nella Russia del diciannovesimo secolo, è bene cercar di definire un po' meglio che cosa sia questa opinione pubblica e come si deformi a seconda delle circostanze.
In L'opinion et la foule (1901), Gabriel Tarde definiva l'opinione pubblica come "un gruppo momentaneo e più o meno logico di giudizi i quali, rispondendo a problemi che si pongono nel presente, si trovano riprodotti in numerosi esemplari in persone del medesimo paese e della medesima società". Gabriel Tarde oppone tale opinione a " due altre frazioni dello spirito sociale che al tempo stesso l'alimentano e la limitano": da una parte la tradizione, "patrimonio di pregiudizi salutari", ma spesso "oneroso per i vivi"; dall'altra parte "quello che — dice Tarde — mi permetto di chiamare, con un nome collettivo e abbreviativo, la Ragione". Per Ragione, bisogna intendere "i giudizi personali, relativamente razionali benché spesso irragionevoli, di un'élite che si isola e esce dalla corrente popolare per incanalarla e dirigerla".
Evidentemente in queste "forze", o manifestazioni dello spirito sociale che Tarde separa, non c'è nessuna pretesa ontologica di tipo hegeliano. Indispensabili e aleatorie insieme, queste categorie potrebbero essere sia spinte a suddivisioni più sottili che attenuate alla luce di certi fenomeni. Per esempio, la tradizione indurita in dogmi coerenti cui s'ispirano sia i metodi di governo che il codice d'onore di una casta dominante può convergere in molti punti col tradizionalismo impastato di sentimenti e di timori superstiziosi che provoca la costernazione o il furore del popolo dinanzi ad un'infrazione "sacrilega" del costume o del rito. Ma ci sono delle differenze essenziali. Il rigore delle responsabilità personali imposte e meditate nel caso delle tradizioni custodite da una casta, l'abbandono orgiastico alla solidarietà gregaria nel caso del popolo, sembrano indicare che si tratta di due diverse maniere di obbedire ai pregiudizi di un "passato che vive". Il vischio, l'albero di Natale, le strenne di Capodanno, le molteplici obbligazioni della cortesia mondana implicano una costrizione molto benigna. Ma il dovere di perseguire una "vendetta" in Corsica, in Scozia o fra i kurdi; il modo in cui, nell'esercito degli Hohenzollern, degli Absburgo, dei Romanov, l'ufficiale si trovava costretto a scegliere fra il duello e il suicidio; la pressione esercitata dal mondo dei benpensanti nei casi d'adulterio o di divorzio; tutto ciò indica il persistere di una difesa spieiata di certe norme della tradizione anche quando il motivo originario, derivante da concezioni animiste o magiche, è altrettanto obliterato quanto lo è per noi il significato primordiale della celebrazione del solstizio d'inverno o quello della stretta di mano.
Quando "dall'alto della più alta terrazza, solo in presenza dello spazio misurato dal moto ordinato degli astri, l'Imperatore Figlio del Ciclo al principio del nuovo anno, all'ora dello spuntar del giorno, veniva a render conto al Ciclo del suo mandato"; o quando, nelle notti del mese di Boedromion, le danze sacre, le processioni, le purificazioni, la ricerca e l'invenzione della Koré, univano "epopti" e "misti", ierofanti e araldi sacri nella celebrazione dei Grandi Misteri di Eleusi — in questi casi si trattava, per la comunità tutta quanta, di rinnovare il fervore della propria coscienza collettiva. Nel descrivere la festa delle Adonie come se si trovasse in mezzo alla folla alessandrina, Teocrito ha d'altra parte reso assai bene la situazione in cui la curiosità profana di spettatori estranei all'emozione rituale si mescola al sacro: è il sintomo della degradazione del popolo allo stato di massa. Ed è certo che nei francesi che assistevano un tempo alla consacrazione del Re a Reims, o negli inglesi che ancor oggi si affollano intorno a Westminster per ammirare la pompa della Incoronazione, al sentimento ancestrale di solidarietà nella partecipazione alle medesime speranze di un avvenire stabile si mescolava (e, nel caso degli inglesi, sempre più si mescola) la curiosità passiva e oziosa dello spettatore che guarda senza partecipare, o magari finge un'emozione che non prova.
Su un piano un po' diverso, i bambini gettati nella fornace di Moloch, le vittime sgozzate sull'altare di Huitzilopochtli, gli autodafé che per più di tre secoli alimentarono la fede ardente del Regno Cattolico rinsaldavano i legami fra un popolo impregnato di fedeltà alla tradizione e i suoi governanti ecclesiastici o laici. Sappiamo che, in tutti e tre i casi, solo la violenza (conquista straniera o reiterate insurrezioni anticlericali) è riuscita a metter fine a queste pratiche di un tradizionalismo solidamente sostenuto da abitudini popolari e da un imponente sistema di superstizioni che, per servirsi del termine coniato da René Berthelot, chiameremo "astrobiologiche", ossia ispirate da quel sentimento di partecipazione magica fra il moto delle sfere celesti (o la volontà divina) e le vicende terrene caratteristico delle religioni orientali e perdurante nel cristianesimo, mentre è singolarmente estraneo ai Greci.


' L'ultimo avversario, edizione italiana Mondadori, Milano, 1946.

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