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Stato, nazione e cultura

Andrea Caffi, 1950.

Benpensante, ma molto liberale, nel suo libro Notes Toward a Definition of Culture (1948), T.S. Eliot non nasconde che, personalmente, egli si attiene alle verità rivelate del dogma anglo-cattolico. Egli riconosce tuttavia a tutte le religioni stabilite il privilegio di "incarnarsi" in una cultura. Non arriva fino a dire, come Louis Blanc a Herzen: "Allora, la vostra religione è l'ateismo?" giacché, pur ritenendo salutare un certo scetticismo, Eliot proscrive il "pirronismo", in quanto, se è umano passare attraverso il dubbio, sarebbe diabolico installarvisi.
Certo, una volta attribuita un'elasticità praticamente senza limiti sia alla nozione di "religione" (dominio del sacro, dogmi, riti attivi, devozioni, estasi iniziatiche) che a quella di "cultura", si arriva facilmente (secondo l'assioma tout est dans tout) a farle coincidere. In tal modo, il problema di una religione che ha estirpato a gloria di Dio tutto un ambiente di "cultura intellettuale" (come nel caso degli Albigesi e del Perù, che a rigore è quello di una religione che abbatte una religione rivale; o anche in quello della persecuzione dei "costumi pagani" da parte di Calvino, o della Controriforma, o dei musulmani rigoristi), può essere evitato senza inciampo, e così pure quello degli aspetti irreligiosi di talune società assai colte. Onde poi non sarà neppure difficile condannare come scandalosamente fanatica la parola " écrasez l'Infâme", nemica evidentemente della cultura, poiché nemica della religione.
Detto questo, il libretto di T.S. Eliot è ricco di osservazioni assai acute. Per esempio, la seguente: "Gli uomini che s'incontrano solo per scopi seri e ben definiti, in occasioni ufficiali, non s'incontrano veramente... Uscendo da tali incontri, essi si ritireranno ciascuno nel proprio mondo sociale privato e in quello della propria solitudine... L'affiatamento di un circolo di amici dipende da una convenzione sociale comune, da un comune rituale, e da un comune piacere di ricreazione. È una sfortuna, per un individuo, quando il gruppo dei suoi amici e quello dei suoi soci d'affari sono due gruppi separati senza rapporto l'uno con l'altro; ma è d'altro canto fattore d'angustia che siano un unico e medesimo gruppo."
Osservazioni come questa invitano a riprendere il filo delle idee correnti nel XVIII secolo sulla politesse come linfa vitale della socievolezza, e quindi di ogni cultura; o magari a risalire fino al concetto di philía che Aristotele considerava fermento attivo di ogni comunità ben regolata. Ciò tanto più che, in un altro punto, Eliot dice senza ambagi che "la cultura si può anche definire semplicemente come ciò che fa la vita degna di esser vissuta", insistendo sul fatto che "in una società sana l'artista, il poeta, il filosofo, il politico e il contadino avranno una cultura in comune... cioè vivranno insieme e parleranno la medesima lingua."
Ma per la gente seria che noi siamo, "l'affiatamento di un circolo di amici" e la politesse sono senza dubbio inficiati di quella frivolezza di cui non si è mai cessato di accusare il secolo di Voltaire e di Marivaux e (un po' meno) quello di Prassitele e di Menandro; e non menziono Platone perché il suo spirito irrequieto e ironico è stato sottoposto a ripetuti bagni sterilizzanti di teologismi e di quasi-bigotteria da parte di una serqua di purificatori; tuttavia, neppure la "leggerezza" (o ambiguità) di Platone è sfuggita ai severi rimbrotti di hegeliani e esistenzialisti. "Circoli di amici" e politesse sembreranno dunque a noi gente seria basi del tutto insufficienti per erigervi sopra l'edificio imponente della cultura.
Il sentimento quasi di scandalo che può suscitare un tal modo troppo "profano" di considerare il fatto sociale è rispecchiato in forma amabile nel fatto riferito da un acuto osservatore della società cinese, Gerald F. Winfield: "Non dimenticherò mai lo stupore dei miei studenti quando mi venne fatto di dire che mio padre e io eravamo ottimi amici. Questo sembrò loro quasi inconcepibile, giacché il rapporto fra figlio e padre, con il rispetto e l'obbedienza che si deve da una parte e la superiorità e autorità benevola che si dispensano dall'altra, era ai loro occhi un rapporto assai più elevato che non lo scambio egualitario fra amici. Essi non potevano concepire che uno fosse l'amico del proprio padre per la buona ragione che il rapporto fra amico e amico viene ultimo nella gerarchia dei cinque rapporti".
Non per ragioni di gerarchla spirituale, ma per mantenersi sul terreno delle realtà solide, la maggior parte dei critici della società, da Marx a Veblen e oltre, non riconoscono come consistenti e efficaci che le solidarietà cimentate dalla partecipazione alla fatica produttiva o dalla divisione concordata dei frutti del lavoro economico. Ma è curioso vedere una spiritualista come Simone Weil, nell'Enracinement, uscire a dichiarare che "l'associazione non è un bisogno dell'anima, ma un espediente della vita pratica". Ciò le permette di auspicare la soppressione dei partiti politici, la proibizione di ogni 'coalizione' d'idee, nonchè delle manifestazioni collettive d'opinione ('Anche l'amicizia è un gran pericolo - arriva a scrivere la Weil: - l'intelligenza è sconfitta non appena l'espressione del pensiero è implicitamente o esplicitamente preceduta dalla parola noi') , per non lasciar sussistere che taluni "gruppi d'interessi... in limiti assai stretti e sotto la sorveglianza perpetua dei pubblici poteri". Il fatto è che Simone Weil ammira molto Rousseau, e si sa che il Contrat social non tollera che alcuna formazione spontanea s'interponga fra l'individuo e lo Stato. L'Enracinement di Simone Weil, discorso incompiuto, gonfio di passione dolorante, è un'invocazione ispirata e a tratti disperata alle energie nobili, "eterne", dell'anima, come pure a quella sovrana potenza di un "ordine divino" di cui la scrittrice non può dubitare che esista e che controlli le forze cieche sia nell'universo infinito che sul minuscolo frammento di materia dove si svolge il dramma del destino umano. Tutto questo al fine di risuscitare, purificandola, la Francia ferita e profanata dalla disfatta del 1940. Il libro di T.S. Eliot invece, nella sua impeccabile forma accademica, non pretende che aiutarci a trovare una definizione chiaramente concepita e chiaramente espressa di ciò che dobbiamo intendere per "cultura" e per "civiltà". Per illustrare la ricchezza di contenuto di tali concetti, l'autore ci intrattiene a lungo e affabilmente dei rapporti fra la Chiesa Alta e le sètte dissidenti, nonché dei valori spirituali e pittoreschi che conviene ammirare nelle particolarità regionali della Scozia, del paese di Galles, dell'Irlanda...
Tuttavia, questi due libri di tono così diverso, e nati da situazioni che non si possono neppure paragonare l'una all'altra, meritano di essere esaminati parallelamente, giacché in tutti e due si discerne la stessa ansia di fronte al presente oscuro e all'avvenire più che incerto del mondo in cui viviamo.
Con la discrezione che lo distingue, T.S. Eliot constata: "Eppure la cultura d'Europa è andata visibilmente deteriorandosi nel corso dell'esistenza di molti di noi che non sono affatto i più vecchi"; ma probabilmente non rifiuterebbe neppure di sottoscrivere questa diagnosi perentoria di Simone Weil: " Quattro ostacoli ci separano da una forma di civiltà che valga qualcosa: 1) il nostro falso concetto della grandezza; 2) la degradazione del sentimento di giustizia; 3) la nostra idolatria del danaro; 4) l'assenza d'ispirazione religiosa".
Con il suo "destino eterno", con la sua "obbligazione eterna" alla quale nessun essere umano, quale che sia, in nessuna circostanza "può sottrarsi senza delitto" (ma un "delitto" presuppone un tribunale, un codice, un esecutore delle sentenze pronunciate...), con il suo "dominio al disopra di questo mondo" (che gli uomini del 1789 hanno misconosciuto perché non riconoscevano realtà che alle "cose umane") eccetera, la Weil si situa nettamente su quel terreno di credenze astrobiologiche di cui s'è nutrito il pensiero di Paolo di Tarso, di Agostino d'Ippona, del Talmud, del Corano, della gnosi sincretista e delle Upanishad. Le sue deduzioni quanto ai rapporti tra individuo e collettività, e soprattutto quanto ai bisogni umani, sono quindi del tutto in verificabili. Giacché un "destino eterno" dell'uomo può obbligare tanto alla sequela di sofferenze nelle reincarnazioni del Karma che all'espiazione d'un peccato originale (e più la sorte sarà misera, meglio sarà per la salvezza finale) o al fatalismo del "così è scritto" negli astri o nelle tavole di Allah, ovvero anche alla sottomissione a ogni e qualsiasi potenza terrena giacché la potenza terrena viene sempre da Dio. Senza impelagarci in oziose discussioni metafisiche, possiamo affermare che l'umanesimo (di tradizione ellenica, ma anche di una fase della civiltà cinese presto soffocata da un riflusso di retorica letteraria e di superstizioni magico-teistiche) è incompatibile con un tale orizzonte.
Fondamento dell'umanesimo è l'accettazione delle "cose umane" tali quali sono, senza pregiudizio della questione della "realtà assoluta", la quale rimane materia opinabile e soggetto di una libera discussione il cui modello rimane il Parmenide di Platone. Ridotti alla loro espressione più semplice, i princìpi dell'umanesimo sono: che l'uomo è un essere mortale, sempre fallibile e spesso assurdo; che, così concepito, l'uomo è tuttavia la misura di tutte le cose; che niente di umano può essere estraneo all'uomo; che l'uomo è un animale politico.
Cicerone, riassumendo l'opinione di numerosi predecessori greci, ha esposto assai bene come fosse proprio della "natura umana" dividere il proprio pane con un affamato, gettarsi in acqua per salvare un ragazzo che affoga, sacrificarsi per gli esseri che si amano, tenere le promesse, eccetera. Da un tale punto di vista, il "destino eterno", o anche l'imperativo categorico, non sono che astrazioni per ornare di tautologie eloquenti questi dati primi di ogni esperienza umana normale. È la normalità dell'esperienza umana che si manifestava nel giugno 1940 quando, con scandalo di Simone Weil, "si videro i francesi abbandonare così facilmente la patria e, pochi mesi dopo, far prodigi di tenacia, sfidare il freddo e la fatica per ore e ore al fine di procurarsi un uovo". Simone Weil si scandalizza, ma io ci vedo un ritorno quanto mai rassicurante alle "realtà umane", giacché la patria è un'astrazione, mentre un uovo dà nutrimento.
Non vorrei aver l'aria di prendere a scherzo le pagine molto serie e sentite di Simone Weil, ma ecco, mi viene a mente un ricordo personale di trent'anni fa. Ai primi di settembre del 1920, a Mosca, per un gioco d'antiche amicizie che sarebbe troppo lungo raccontare, un piccolo gruppo di cinque persone che nutrivano assai poco amore sia per l'ortodossia comunista che per il regime sovietico riuscirono a installarsi in un "servizio-stampa" del Comintern. L'ingenuità del "responsabile" Axelrod (che era stato, se non erro, membro per qualche ora di un governo sovietico in Baviera e che, beninteso, Stalin non ha dimenticato di far fucilare dodici o quindici anni dopo l'episodio che sto per raccontare) permise di organizzare, per qualche tempo, uno scherzo che non poteva durare: dei ritagli di giornali stranieri, accuratamente scelti al fine di suscitare il massimo possibile di dubbi nell'animo di un ancora onesto militante della Terza Internazionale, poterono esser tradotti in russo, stampati e diffusi nella cerchia abbastanza ristretta di persone cui era destinato il bollettino. Non poteva durare, e fu miracolo se si arrivò al decimo numero. Scoppiò la tempesta: Axelrod, completamente disfatto, venne a annunziarci quello che gli era stato comunicato per filo diretto: il bollettino sarebbe andato al macero e i suoi compilatori non sarebbero tornati a alloggiare all'Hôtel Lux.
Non avevamo nessun dubbio sulla nostra sorte, e passammo infatti il mese successivo a meditare negli in pace della Lubianka sugli effetti di certe monellerie. A quell'epoca, del resto, il regime era ancora impregnato di un liberalismo che doveva diventare inimmaginabile dieci anni dopo. Il che non toglie che l'idea di un soggiorno alla Lubianka, dove gli appelli dei condannati a morte erano fatti ogni notte in maniera alquanto disordinata, era tale da non far piacere a nessuno. Tuttavia, sul momento, noi cinque criminali fummo colti da un'assurda esplosione di gaiezza: bastava la faccia smarrita di Axelrod a rinnovare le crisi d'ilarità. Il giovane poeta S. (che doveva poi pubblicare la prima parte di un romanzo notevole e in seguito sparire come Pilniak, come Babel e come tanti altri) si mise a ballare in mezzo alla stanza un trepak sfrenato, cantando a squarciagola un distico di Galgenhumor che diceva: "Wir sind vergnügt, wir sind vergnügt / Und hätten's gar nicht nötig".
A me pare che una tal maniera di reagire alle grandi e piccole catastrofi della storia universale o della più umile biografia, nonché ai più solenni ammonimenti della gente seria, sia l'unico modo di render sopportabile l'esistenza a sé e agli altri.
Sia dunque concesso a un mero individuo, incapace di sceverare rigorosamente i bisogni dell'anima da quelli del corpo, di far qualche chiosa ai "bisogni dell'anima" quali li intende Simone Weil.
"Il nutrimento — scrive la Weil — porta la sazietà. Lo stesso accade per gli alimenti dell'anima." Ma è proprio vero? Io credevo di sapere che l'anima si nutre d'amore, di bellezza, di conoscenze, di attività creatrici, d'effusioni mistiche e che a tali appetiti insaziabili si riferisse appunto il verso di Nietzsche "Doch jede Lust / will Ewigkeit / will tiefe, tiefe Ewigkeit." Si può cessare d'amare (ossia, non esser più capaci di provare questo bisogno che, per parte mia, attribuirei al corpo almeno quanto all'anima, se d'anima bisogna parlare) ma, quando si ama davvero, si può mai pensare che si ama abbastanza? In qual punto si potrà mai fermare la sete di conoscenza? Ed è mai pensabile che il mistico trovi che la "comunione con Dio" abbia durato abbastanza? La tendenza (e dunque il bisogno) a "ammazzarsi di lavoro" è abbastanza diffusa: l'esempio più banale è quello del medico su un campo di battaglia o durante un'epidemia; ma la più umile delle massaie è portata a abusare pericolosamente delle sue forze partendo, al pari di Cesare, dal principio che "nulla è fatto finché rimane qualcosa da fare".
1) Quanto all'ordine, che sarebbe l'armonia del cosmo, e alla preoccupazione volgare delle proprie necessità materiali (come, secondo la testimonianza del cardinale di Retz, il popolo di Parigi insorto sguarniva le barricate verso le 6 del pomeriggio per andare a cena) è un altro affare. Forse l'espressione più sublime del bisogno d'ordine è nella famosa allocuzione del Feldwebel ai suoi soldati dopo la fine della guerra del 1870-'71: "Adesso che quella confusione (Schlamperei) della guerra è finita, il servizio di caserma riprende regolarmente".
2) La libertà. Dovunque si abbia vita in comune (e dove non si ha vita in comune con gli altri?) la libertà è che mi si lasci in pace il più possibile, sicché io non abbia a scervellarmi sulla famosa scelta fra " libertà astratta" e "libertà concreta", democrazia "formale" e democrazia "sostanziale". Se non ho paura di esser svegliato alle sei di mattina dalla NKVD o dalla Gestapo, sono libero; se no, non lo sono, e non c'è altro da dire. Tutto il resto (per esempio, la "libertà degli uomini di buona volontà" che, secondo Simone Weil, "pur essendo limitata nei fatti, è totale nella coscienza") è rabelaisiana "estrazione di Quintessenza". L'irresponsabilità, e anche la puerilità e l'indifferenza, con cui l'individuo è spesso portato a vivere e subire la Storia con la maiuscola, sono dei rifugi molto umani e delle prerogative inalienabili di quel diritto supremo che, secondo la Costituzione americana, è "la ricerca della felicità". Chi li mette in, questione o li guarda con cipiglio è già un tiranno in potenza.
3) L'obbedienza. Si può obbedire per far piacere a qualcuno, e allora non si tratta che di una seccatura (raramente compensata, come sanno gli amanti o gli sposi docili per sistema). Ma la maggior parte delle volte non si obbedisce che per evitare le bastonate. Il senso della storia universale sta quasi tutto in questa proposizione.
4) La responsabilità. C'è una bellissima storia sulla responsabilità: è quella del racconto Youth di Joseph Conrad. Avere il comando di una nave, anche quando la nave è un rottame che fa acqua da tutte le parti, è una voluttà inebriante; un ragazzetto di dieci anni al quale sia stato affidato il fratellino di cinque potrà provare delle emozioni analoghe a quelle del giovane capitano di lungo corso di Conrad. Purtroppo, si cresce, e lo spirito di comando si estende a campi d'azione dove per soddisfare le sue esigenze occorrono troppe vittime. Si hanno allora i grandi capitani di guerra e d'industria. Nei quali casi, si parli pure di "grandezza", se si vuole (benché Tolstoi ci abbia spiegato assai bene quanto poco senso abbia la parola applicata a tali fatti), ma non si dimentichi il suo costo. C'è un limite chiaro, varcato il quale il "senso di responsabilità", la forza d'animo per cui si accetta di rispondere personalmente del successo di un'impresa comune di fronte ai compagni impegnati nell'impresa su piede d'eguaglianza e con egual diritto a beneficiare del risultato, muta di carattere e di natura: è il momento in cui si attribuisce a se stessi, in qualità di capo, potere di comando sugli altri, ossia il diritto di servirsene come mezzi per ottenere un certo scopo di cui si vuoi essere il solo a detenere la gloria e i vantaggi. Questo limite coincide in sostanza con la sostituzione della volontà d'efficacia al senso dell'obbligo verso gli altri, considerati come propri eguali, oppure verso coloro dei quali ci si è assunta appunto la responsabilità. Una guida di montagna si preoccuperà di riportare a valle tutto il suo gruppo sano e salvo: per lui, sarà sconfitta bruciante se un incidente grave capiterà sia pure a uno solo della cordata; ma un generale non sarà soddisfatto se non avrà raggiunto 1'"obbiettivo prescritto", magari col sacrifizio di tre quarti dei suoi soldati. Non è forse il "bisogno di responsabilità", gonfiato fino ai limiti estremi, che anima il Grande Inquisitore di Dostoevskij?
Sembra che gli uomini del XVIII secolo, di una sensibilità così lucida per i veri bisogni dell'uomo (corpo e anima insieme) abbiano capito questo assai bene: "Pour qu'un homme soit au dessus de l'humanité, il en coûte trop cher à tous les autres" diceva Montesquieu. Ma il fatto è che noi uomini del ventesimo secolo abbiamo preso un'altra strada: siamo ritornati a un culto quasi ferino del dominio, della potenza, del successo. Come ben dimostra il fatto che questa citazione di Montesquieu io l'ho trovata nel Journal di Gide alla data del 16 gennaio 1916, trovando poi nel medesimo libro, datato ottobre 1931 (il periodo del Gide filantropo, si noti, mentre nel 1916 lo scrittore era nazionalista e d'estrema destra), questo bel pensierino: "Sono sempre più convinto che l'uomo non fa nulla d'importante senza costrizione... È l'uniformità della massa che permette a taluni rari individui di elevarsi e differenziarsi." Da notare la banalità, il carattere imparaticcio e di seconda mano di un tal filosofema: anche questo è tipico di certi intellettuali del nostro tempo e della fondamentale mancanza di convinzione che li porta insieme a dar ragione al più forte e a ripetere idee fatte.
5) L'eguaglianza. Questa idea merita un'assai seria considerazione. Nella realtà dei rapporti fra individui, l'eguaglianza è inseparabile da quell'aura di giustizia senza la quale non c'è né comunione né comunità sociale possibile. Verso persone che non mi trattano da eguale, io non posso che sentirmi in stato di lotta senza quartiere: è la radice feconda ed eterna della lotta di classe. Tutto quello che potrò fare per riuscir loro d'impaccio, d'ostacolo, di pericolo, lo farò; se sono troppo forti perché la mia cattiveria possa infligger loro seri fastidi, e se mi trovo in condizione di non poter rompere ogni rapporto con loro, allora vivrò nello scoramento e nel rancore: la mia consolazione sarà che, con il mio, anche i rancori di quelli che si trovano nella mia medesima disgraziata condizione vanno accumulandosi, e che un giorno verrà pure il redde rationem. Nei rapporti sociali dominati dalla necessità economica, questa situazione si traduce in un gioco complicato di umiliazioni e di snobismi, di repressioni e di rispetto inculcato: quella che i Romani chiamarono adoratio, i Greci la chiamavano proskynesis: strisciare come un cane. È una situazione alla quale le "masse", quando son soggette a pressioni troppo forti, finiscono per adattarsi. Fortunatamente, però, ci sono sempre alcuni refrattari "inadattabili": fra i servi umiliati descritti da Carlo Levi, si venerano pure i banditi...
6) "La vera gerarchia — dice Simone Weil — ha per effetto di portare ognuno a installarsi moralmente nel posto che occupa." Ciascuno al suo posto, il gregge è ben guardato... Ma la parte del corpo che serve a "installarsi" non è di solito considerata come la sede della moralità... C'è qui un piccolo inconveniente, ed è che nelle società nelle quali la gerarchia sembra solida e tranquilla, ognuno è, sì, seduto al proprio posto, ma questo posto — poltrona o sgabello che sia — è sistemato su mucchi di cadaveri, e spesso d'agonizzanti. La situazione ricorda quei capi tartari che, per festeggiare la vittoria in battaglia, avevano fatto coprire con un tavolato i corpi dei prigionieri, e si misero a bervi, mangiarvi e danzarvi sopra fino a che non rimase sotto i loro piedi alcun segno di vita.
Gerarchie veramente sentite e spontaneamente volute esistono certamente, ma non si trovano là dove c'è chi comanda e chi ubbidisce, dei capi e una massa, dei privilegiati e dei diseredati: si trovano nelle comunità autentiche, religiose, politiche o semplicemente sociali che siano, dove l'autorità riconosciuta si esercita nel riconoscimento di un'eguaglianza, di una comunanza o di una fraternità fondamentale.
Nell'etimologia stessa di "gerarchia" è implicita l'idea del "sacro", nozione che è difficile separare da postulati religiosi. Se si parla di religione, è una cosa. Ma se si parla di società, allora, certo, come diceva Napoleone, "la società non può esistere senza l'ineguaglianza delle fortune, e l'ineguaglianza delle fortune non può esistere senza la religione"; donde risulta che "per il popolo, una religione ci vuole".
7) L'onore. Quando è basato sul codice di una casta, l'onore è un fascio di nozioni molto chiare, dalle conseguenze quasi meccaniche. Ma l'onore come sentimento personale, fuori di ogni convenzione, è cosa infinitamente delicata, che oscilla continuamente fra una suscettibilità morbosa e l'istinto elementare, assai sano, d'incolumità fisica e morale. Non è tutto: l'ambiguità fra quel che si è, quel che si crede d'essere, quel che si vuole che gli altri credano di noi, conduce a perplessità e a commedie spesso penose. L'ironia (specie verso se stessi) è allora la miglior salvaguardia: una sorta di cura omeopatica...
8) II castigo è, secondo Hegel, il diritto supremo del criminale: il che, in parole povere, significa che un assassino coscienzioso sarebbe disperato se non finisse all'ergastolo. Nella sua strana febbre di purificazione, Simone Weil arriva a scrivere: "II castigo è un metodo per far entrare la giustizia nell'anima dei criminali attraverso la sofferenza della carne." Torquemada non la pensava diversamente. Per conto mio, ho condiviso il piacere universale alla notizia della fine di Mussolini e di Hitler, e provo un dispiacere abbastanza continuo al pensiero che Stalin, Franco e taluni altri personaggi della stessa risma siano ancora vivi e vegeti. Ma la collera di quei francesi che s'indignano della clemenza dei giudizi contro i carnefici dei campi di concentramento mi sembra altrettanto comprensibile che priva di ogni fondamento di ragione: l'esecuzione dell'assassino non ha mai fatto risuscitare la vittima né, per quanto si sappia, ha mai diminuito il numero degli assassinii ulteriori. La pena del taglione si può giustificare forse nell'impeto della passione, ma che il principio ne sia barbaro nessuno vorrà negarlo. Se si parla di sicurezza della società contro i delinquenti, devo confessare che, per i mezzi che usano e per il potere di cui dispongono, la polizia e gli altri organi escogitati a tale scopo dagli Stati mi sembrano assai più temibili dei delinquenti che hanno missione di eliminare. Tuttavia, se si seguisse il molto giudizioso consiglio di John Bright al popolo, d'impiccare tutti gli uomini che ci governano, in primo luogo non sarebbe facile da eseguire e, in secondo luogo, l'indomani bisognerebbe ricominciar da capo.
Tutto ciò che va sotto il nome di "castigo" è un delitto (una crudeltà) che "risponde" a un delitto precedente. Se, come credeva Péguy, esistono "guerre giuste", esistono senza dubbio anche dei delitti giusti; ma è troppo difficile sapere quali. Né nell'inferno di Dante, né nelle prigioni di un qualsiasi Stato si troverebbe un solo caso di "castigo" che non ci fossero buone ragioni di giudicare assurdo. E, se non uno Stato, si può certo però immaginare un'"anima" che non provasse alcun bisogno di castigare nessuno.
9) La libertà d'opinione e d'associazione, come la proprietà privata e la proprietà collettiva, vengono esaminate da Simone Weil in un così strano spirito di paternalismo ultra-totalitario che, le intenzioni di questa donna ammirevole essendo certamente delle più generose, non è facile discuterle. Invece di fermarsi sulle idee, si pensa allora al fatto umano, alla commovente testimonianza che queste pagine offrono dello sconvolgimento causato in un'intelligenza eccezionale dalla disfatta della propria nazione.
Nel libretto di preghiere che, più di cinquantanni fa, si metteva in mano a noi bambini per prepararci alla prima comunione, c'era una piccola nota il cui scopo era di farci ben capire l'importanza di frequenti preghiere per i defunti: vi si precisava che ogni minuto 30 esseri umani passano da questo all'altro mondo, la maggioranza, beninteso, attraverso sofferenze sulle quali era meglio che la nostra attenzione non s'attardasse.
Se, basandosi sulle più ingegnose approssimazioni degli storici, suffragate dalle constatazioni dei geologi e dei paleontologi, si ammette che, nel corso dei cinquemila e più secoli (a dir poco) dell'era di "stagnazione paleolitica", la popolazione umana del globo non superò mai il milione d'individui e che, nei secoli che seguirono, fino al XVIII, si mantenne al disotto del mezzo miliardo, si può immaginare che circa venti miliardi di destini umani si son manifestati e hanno terminato la loro parabola nelle caverne, in mezzo a schegge di pietra e a detriti di mammuth e d'altra simile cacciagione, mentre un numero pressappoco eguale di nostri simili son cresciuti, han sofferto e son morti in quella rete di relazioni complesse che noi chiamiamo "civiltà". Problema: quanti istanti di felicità cosciente figurano in una tale somma di esistenze? Quanti casi di vere "ragioni di vivere"?
A guardar le cose da un punto di vista così... panoramico, si rischia di assumere, di fronte alle moderne storiosofie, un atteggiamento simile a quello di J. K. Huysmans di fronte ai romanzi di Paul Bourget: " II signor Bourget pretende di farci leggere trecento pagine per arrivare a sapere se il signor Visconte andrà o no a letto con la signora Marchesa. Personalmente, me ne strainfischio..."
Astratta quando parla di "nazione" o di "obbligazioni", Simone Weil diventa concreta e profondamente umana quando parla della condizione proletaria: del "peso di sventura" che grava sugli operai di fabbrica, e che le moderne rivoluzioni sembrano appesantire anziché alleviare.
Tutto il secolo scorso ha considerato che il " peso della sventura" era il tratto dominante della condizione del popolo: questo fin dalle descrizioni di Manchester e d'altri luoghi fatte da Engels, da Melville, da Dickens. Servi della gleba russi, negri delle piantagioni, masse affamate e purulente dell'India e della Cina, personaggi di Caldwell e "universi concentrazionari" non hanno fatto che estendere questa visione di tenebre irreparabili.
Il secolo XVIII tendeva a vedere la fonte del male nella forza dell'umana bêtise, che ingenera necessariamente crudeltà assurde. Anche Simone Weil parla delle "numerose assurdità di un'epoca (la nostra) il cui carattere dominante è la stupidità". Era l'opinione di Robert Owen, di Proudhon, di Herzen, di Flaubert, e ciò spiega forse come questi tre spiriti lucidi e disgustati del sistema sociale vigente non arrivassero a credere che la "miseria" (tutte le miserie, fisiche come morali) potesse essere abolita da un "piano" di "re-radicamento" o d'organizzazione escogitato e messo in opera d'urgenza. Questo anche nel caso (propugnato da Simone Weil) che "accanto a ogni officina centrale di montaggio ci fosse un'università operaia".
È la stupidità umana un male guaribile? O forse è sopportabile solo in condizioni d'esistenza collettiva insieme molto elementari e molto stabili? O forse ancora, le sue conseguenze nefaste possono venir neutralizzate, respinte verso il comico inoffensivo in un ambiente sociale in cui la tensione utilitaria sia addolcita dall'esuberanza vitale di costumi "gentili" e di aspirazioni intelligenti? C'è un'ironia abbastanza amara nel fatto che il più famoso elogio di una situazione sociale (del resto limitata a un piccolo numero di cittadini che sfruttavano una massa di schiavi, di meteci e di sudditi nominalmente "confederati") nella quale l'intelligenza e la felicità umanamente temperata sembravano trionfare — mi riferisco al discorso di Pericle in Tucidide — sia stato pronunciato 1) in occasione della morte in guerra di parecchi giovani; 2) poco tempo prima della peste e delle devastazioni da cui l'Attica non si sarebbe mai più sollevata.
"Che gioia vivere in quest'epoca! " gridava Ulrich von Hütten; e qualche anno dopo, l'anima e le ossa corrose, si trascinava, proscritto, dinanzi alla porta chiusa di Erasmo, nello spavento generale che seguì il massacro dei contadini e degli anabattisti tedeschi. "La felicità, quest'idea nuova in Europa..." diceva Saint Just in pieno Terrore e alla veglia di Termidoro.
Se non ci si vuol ritirare, al seguito di Giobbe e di Geremia, in una posizione di sterili lamentazioni, oppure di nihilismo conseguente alla Stirner, non c'è che uno sforzo che sembri salvare alcune " ragioni di vivere" (ma sacrificando al tempo stesso alcune delle più generose illusioni e molta spontaneità): propagare, insieme al disgusto per ogni violenza e ogni dismisura, una curiosità insaziabile per tutto ciò che è umano, un'ironia vigilante verso se stessi, una generosità che, per principio, farà sempre credito alla natura umana (senza curarsi del fatto che tal credito è così raramente meritato) e, infine, una buona dose di quel "gusto della distruzione" che Bakunin identificava con la gioia di creare. E per "distruzione", qui, non s'intenda, per carità, alcuna specie di distruzione meccanica e neppure fisica (tranne forse in taluni casi di tirannicidio, dei quali sarebbe ipocrita negare la soddisfazione che procurano).
Veniamo ora alla questione del patriottismo e della nazione, che è in fondo la questione cruciale dell'Enracinement. Simone Weil ammette che una certa forma di patriottismo, la quale va distinta dalle altre (molto diverse) che "sono sempre esistite", in quanto implica un'obbedienza totale a quella "mediocre governante" che è lo Stato, non si è manifestata che in epoca molto recente. Essa d'altra parte ammira il contadinotto di Restif de la Bretonne che si fa soldato per patriottismo in mezzo alla "tremenda corruzione" della fine del XVIII secolo. Tale corruzione potrebbe anche essere quella di cui Renan, nel Saint Paul, dice che, lungi dall'essere un abominio, costituisce — nelle grandi città — il terreno di cultura più efficace di un'emancipazione dell'uomo. La lucidità intellettuale, accusata di "scetticismo", "cinismo", "irreligione" e simili, che detta corruzione direttamente ingenera, è inseparabile da atteggiamenti come quello per cui Montesquieu si diceva "uomo per necessità e francese per caso"; o per cui Lessing esprimeva il suo disprezzo per "la nobile malattia chiamata patriottismo"; o per cui ancora Voltaire e D'Alembert preferivano Federico II a Luigi XV e poco si curavano dei famosi arpents de neige intorno ai quali si guerreggiava. Gibbon non aveva poi torto di sperare che un'era paragonabile a quella degli Antonini avrebbe potuto sorgere su un'Europa liberata dai fanatismi massicci e solo superficialmente turbata da residue dispute di principi, più ridicole che pericolose. Sotto lo scettro di Maria Teresa, Milano non si sentiva infelice; Strasburgo, con la sua università tedesca, non pensava affatto a staccarsi dal regno di Francia; la Lorena viveva benissimo sotto un re polacco; Québec, strappata al re di Francia, diventava immediatamente fedele alla Corona inglese.
Tutto fu rimesso in questione dalla rivoluzione francese (e senza dubbio anche dalla brutalità smisurata delle successive spartizioni della Polonia). Patria e libertà cominciarono col confondersi nella difesa della Francia rivoluzionaria contro i re coalizzati e continuarono poi a mescolarsi nell'insurrezione dei popoli contro l'oppressione napoleonica e nelle molteplici resistenze contro i regimi decrepiti restaurati dalla Santa Alleanza. Questo ibrido motivo d'entusiasmo agì con virulenza fino al 1870: l'ultima manifestazione sincera di patriottismo rivoluzionario — Simone Weil ha ragione di sottolinearlo — fu la Comune di Parigi, la quale del resto coincide con il compimento dell'unità tedesca e di quella italiana.
Nota Simone Weil che, di tutte le collettività che corrispondono a territori ben definiti (città, regioni, cantoni), oggi non ne rimane che una, la nazione: "la Nazione, ossia lo Stato" ella conclude.
Tutto questo sembra molto esatto. Ma se si vanno a considerare i casi specifici, le cose si complicano.
1) Fra il patriottismo che, secondo la Weil, "è sempre esistito", e la nazione, il rapporto è vago (specie se ci s'intende sulla definizione geografica della nazione): a Maratona, si trattava solo d'Atene; a Salamina, Temistocle doveva implorare gli alleati spartani a considerare che, se Atene periva, anche loro sarebbero periti; Demostene non riuscì a ottenere la solidarietà degli Elleni liberi per la quale si sacrificò; Viriato combatteva per alcune tribù, non per una Spagna che non esisteva; Vercingetorige non seppe insufflare alcuna "unanimità" nei Galli confederati.
2) La coscienza diffusa di una unità etnica del regno di Francia potrà anche risalire alla battaglia di Bouvines (1214), ma gli episodi successivi della vita della supposta entità nazionale francese sono alquanto disparati: Filippo il Bello contro il Papa, Giovanna d'Arco contro gli inglesi, Richelieu e Luigi XIV (egemonia dello Stato francese), nazione sovrana dal 1789 al 1870. E sarebbe da notare che già nel secolo XVIII si dissociava la "patria" dal "regno": nel suo Journal, Barbier, molto ostile alla monarchia dispotica, s'indigna degli affronti che la politica di Fleury e di Luigi XV fa subire ali'" onore nazionale" per mollezza nella condotta della guerra o a causa di rinunce nelle trattative diplomatiche. Può darsi che la borghesia arricchita, di cui Barbier rappresenta bene la mentalità media, cercasse nell'orgoglio nazionale qualcosa di equivalente al sentimento dell'onore (coscienza di casta) dal quale i nobili attingevano prestigio e arroganza. Siccome poi i borghesi non pensavano neppure a prendere loro stessi le armi, gli uomini d'armi (gens d'épée) diventavano, agli occhi dei rispettabili cittadini, responsabili — e dunque quasi subalterni — condannabili se non mettevano abbastanza zelo e abilità a morire per il paese; quanto al costo in danaro e vite umane, era naturale che incombessero alla massa taillable et corvéable.
Più tardi, Cèsar Birotteau e Monsieur Joseph Prudhomme si esaltano alla lettura di Victoires et Conquêtes e vestono i loro bambini di uniformi militari, inaugurando l'epoca dell'eroismo per procura che toccherà il suo apogeo durante la guerra del 1914-'18.
Nel "patriottismo rivoluzionario" di un Louis Blanc, che reclamava la riva sinistra del Reno e accusava di viltà il savio Luigi Filippo (uomo del XVIII secolo), c'è un miscuglio pauroso di sublime e di grottesco: la nostalgia delle glorie imperiali, l'idea di portare agli altri popoli "la rivoluzione sulla punta delle baionette", la convinzione della superiorità incontestabile (se non della missione provvidenziale) della grande nazione francese e, per finire, una irresponsabilità sovrana nel disporre (sulla carta) della felicità e della tranquillità di milioni di esistenze. Si direbbe che la nozione di "patria", che sembra così solidamente radicata nelle realtà della terra, della lingua comune, della partecipazione a tanti valori materiali e sentimentali, sia destinata a scivolare irresistibilmente verso quelle regioni dell'immaginario, dell'allucinazione provocata, dell'alienazione, nelle quali tutto ciò che è umano e umana ragione di vivere è immolato a idoli mostruosi.
3) Quanto all'Inghilterra, senza risalire più lontano, si può cominciare dal nazionalismo frenetico che si esprime, all'epoca di Elisabetta, nei drammi storici di Shakespeare, nelle imprese di Drake e Raleigh, nella sottomissione degli irlandesi col ferro e col fuoco. Qui, non è propriamente né lo Stato né la dinastia che s'identificano alla nazione, ma un certo "complesso di potenza" nel quale la sovranità politica, i privilegi economici, il sentimento di superiorità morale (e confessionale), l'isolazionismo xenofobo si saldano insieme per formare delle solidarietà in parte spontanee e in parte indotte artificialmente dal controllo spieiato (anche se duttile nelle forme) di una casta dirigente. La Greater Britain, l'espansione inglese al dilà dell'isola gelosamente difesa e mantenuta indenne da ogni contaminazione straniera, è stata fin dal principio una necessità vitale, una spinta organica del "sacro egoismo" nazionale; mentre invece, per la coscienza francese, l'egemonia in Europa e nel mondo non è mai stata che una ubris quasi gratuita, una febbre di grandeur seguita dai fatali brutti risvegli, un eccesso di forze che spiega la crudeltà e la stupidità insieme del colonialismo francese. Nel nazionalismo inglese, una comunità d'interessi affatto prosaici fra tutte le classi della popolazione costretta a vivere sull'isola è chiaramente visibile in tutte le epoche.
4) Diverso ancora è il caso della Spagna. Ammettiamo pure che, durante la Reconquista, il sentimento della comunità cristiana non sia separabile da una certa "coscienza nazionale". Ma già alla fine del XVI secolo l'orgoglio castizo si è nutrito della nozione (motivata dallo stato di fatto creato da Carlo V e dai conquistadores) che "uno spagnolo si trova, rispetto alle altre nazioni, nella posizione di un ufficiale di fronte alla turba dei semplici soldati". La dominazione coloniale e il fanatismo della Controriforma hanno congelato questo stato d'animo in un popolo di hidalgos pezzenti, ma con ricchezze favolose concentrate nelle mani di alcuni pochi laici e ecclesiastici. L'esito della lotta contro Napoleone non ha permesso a questa psicosi collettiva di rilasciarsi o di rinnovarsi; e i particolarismi regionali sono rimasti anch'essi molto tenaci. Lo Stato di Filippo II è certo inseparabile dalla "nazione", e tuttavia esso può di fatto essere oggetto di disprezzo senza che per questo l'idea della "grandezza" spagnola sia diminuita.
5) In Germania, fin dalla sua esplosione, intorno al 1770, il nazionalismo possiede già queste due caratteristiche: la xenofobia aggressiva e una "geografia mobile" rivendicata in nome di un Volk ohne Raum. Con Strasburgo e Riga città "tedesche", si cominciano a guardare con occhio rivendicatore la residenza di Hermanrich sul Dniepr e quella di Teodorico sull'Adige. Lo Stato prussiano è oggetto di un culto feroce, in cui il sentimento di patria non ha alcuna parte, come base di partenza per l'avventura di un popolo armato in continuo divenire. Il tedesco è il più assimilabile degli emigrati — burocrate devoto dello Zar, patriota americano, innamorato di Parigi o dell'Italia, anglomane zelante — e spesso si adatta a tutto questo, senza tuttavia nulla rinnegare del suo Deutschtum, Anche in questo caso, si vede come il rapporto nazione-territorio-Stato sia più complesso di quel che ordinariamente si crede.
6) Nel caso dell'Italia, con le sue frontiere "naturali" più nette che nel caso della Francia (alla quale il Reno è continuamente disputato) o perfino dell'Inghilterra (che il Galles e la Scozia hanno abbastanza a lungo mantenuto in limiti incerti), il territorio sembra un fatto chiaro, e l'idea di "unità italiana" si basa infatti per cominciare su questa apparente nettezza dei limiti geografici. Ma la coscienza dell'unità ha, in Italia, preceduto di molto la costituzione di uno Stato. L'aspirazione a una vera unità nazionale e a uno Stato realmente conforme a una tale unità resta ancor oggi un postulato ideologico. La lingua e la religione (con tutto ciò che questa ha di determinante per i costumi del popolo) sono i fattori efficaci del sentimento nazionale italiano. L'enorme differenza fra l'amarezza indelebile che la disfatta del 1940 ha lasciato nell'animo del francese medio e la reazione del popolo italiano nel suo insieme alla catastrofe del 1943-'45, basterebbe a mostrare che le parole "nazione" e "nazionalismo" acquistano un senso affatto diverso a seconda dei luoghi e delle situazioni.
7) Se c'è mai stato in Europa un nazionalismo esacerbato fino al più sublime fervore, esso è quello dei polacchi. Si è talvolta voluto opporre il patriottismo eroico di un sottile strato di élites (nobili e intellettuali) alla passività delle masse rurali del paese. Ma la resistenza tenace dei contadini di Poznania e di Volinia ai lunghi sforzi di germanizzazione e russificazione, il soprassalto del 1920 nella guerra contro la Russia sovietica, la storia della resistenza ai tedeschi dal 1939 al 1945, sembrano dimostrare che il nazionalismo polacco è sufficientemente "radicato" nel popolo. In questo nazionalismo, il ricordo nostalgico dello Stato indipendente distrutto nel 1795 ha certo una parte importante; ma lo Stato polacco, senza quasi governo centrale, sottoposto alla turbolenza delle piccole Diete provinciali e delle "confederazioni" non somigliava per nulla a ciò che noi di solito intendiamo con questa parola. Nessuno è d'altra parte riuscito, finora, a fissare i "giusti confini" del territorio che dovrebbe costituire la vera Polonia. Inoltre, per quanto riguarda la lingua, l'uso del latino sia nei dibattiti pubblici che nella letteratura non venne realmente a scomparire che dopo la perdita dell'indipendenza. Il fatto è che, per unificare una nazione, il "comune patrimonio di ricordi" di cui parlava Renan può effettivamente essere assai più importante del territorio e dello Stato.
8) II vigore del sentimento nazionale russo ha stupito il mondo intero nel 1942 come già nel 1812 e, prima, agli inizi del secolo XVII. In tutti questi casi, il sacrifizio unanime delle masse popolari, che nessuna coercizione avrebbe potuto suscitare, né, soprattutto, mantenere, artificiosamente, ha salvato lo Stato dalla disfatta, contribuendo immensamente a rafforzare un apparato statale ultra-dispotico. Non c'è bisogno di ricordare che i soldati di Kutuzov erano della stessa origine e avevano la stessa mentalità dei servi che si erano uniti alla rivolta di Pugaciov e che i più valorosi fra gli ufficiali dovevano fomentare la rivolta contro lo Stato autocratico nel dicembre del 1825. Stalingrado è stata difesa dalla stessa classe sociale che, dieci anni prima, a causa della sua resistenza passiva alla "dekulakizzazione" era stata massacrata e deportata a milioni. Se questo patriottismo al servizio dello Stato nazionale non s'era manifestato in Manciuria nel 1904 né alle frontiere occidentali dell'Impero nel 1917, è evidentemente perché allora il prestigio e l'onore della Russia non erano motivi che toccassero il sentimento nazionale del popolo russo. Mentre Napoleone e Hitler, avanzando oltre Smolensk, apparvero a questo stesso popolo come minacce dirette alla sua propria esistenza collettiva, al difuori e al dilà di ogni ragion di Stato e di ogni ideologia. Non mi par dubbio che Michele Koriakov, il giovane ufficiale russo rifugiato in Occidente che ha scritto un libro così sincero sulle sue esperienze di guerra, esprime il patriottismo russo più autenticamente che i signori Viscinski e Molotov.
L'equivoco che Mosca attualmente coltiva fra la xenofobia elementare dei mugik e l'oscurantismo metodico dei gerarchi del Cominform serve anche a indicare che bisogna distinguere fra il magma informe, ma assai tenace, del sentimento nazionale quale si esprime nel popolo e la nozione dogmatizzata dello Stato-nazione.
9) Forse bisognerebbe anche esaminare il nazionalismo ebreo. Non solo lo Stato e il territorio, ma la lingua stessa, nonché il criterio di appartenenza alla nazione ebraica, sono, in Israele, artificialmente inventati (e intendo la parola nel senso di "trovati" o "escogitati" sotto lo stimolo della necessità). Eppure, la nazione ebraica funziona.
Ansiosa com'è di rivalutare e rafforzare la nazione, Simone Weil è naturalmente contraria al pacifismo, a proposito del quale scrive: "II pacifismo non è dannoso che a causa della confusione fra due ripugnanze, la ripugnanza a uccidere e la ripugnanza a morire. La prima è un sentimento onorevole, ma molto debole; la seconda è quasi inconfessabile, ma molto forte; il miscuglio delle due costituisce un movente molto energico, che non è inibito dalla vergogna e nel quale la seconda ripugnanza è la sola ad agire."
Al tempo in cui si adoperava a essere (o a parere) sciovinista, Andre Gide notava nel suo Journal, in data 28 ottobre 1916, il discorso che gli era stato tenuto da un contadino di Normandia che aveva, cinque figli sotto le armi, a proposito di un prigioniero tedesco che lavorava nella sua fattoria: "È contadino anche lui, a quel che pare — diceva quel brav'uomo (lungo silenzio). — Già, insomma, un uomo come noi... (altro silenzio, poi piano, con un sorriso fra rattristato e tenero): — neppure loro, in fondo, chiedono di esser mandati alla morte." Questo riconoscimento dell'umanità del supposto nemico nel comune desiderio di non morire mi sembra molto degno e nient'affatto inconfessabile.
Il pacifismo moderno non è una teoria: esso è nato in certi ambienti borghesi e intellettuali del secolo XVIII che a un certo momento si son sentiti completamente estranei ai grandi e piccoli massacri il cui obbiettivo era di far intascare le taglie di un certo paese da un certo sovrano piuttosto che da un altro non meno "cristiano" né meno ufficialmente "benamato". L'espediente pratico era di "imboscarsi" il meglio possibile. Questo atteggiamento non si diffuse in mezzo al popolo che quando i proletari d'Europa ebbero scoperto due cose: l'internazionalismo, ossia l'idea della solidarietà fra i prole-tari di tutti i paesi, e quella forma di lotta "non violenta" che è lo sciopero. In ambedue i casi, il desiderio di non morire (né di fame, né per la gloria del vessillo nazionale) era per lo meno altrettanto esplicito quanto il desiderio di non uccidere, inculcato da una tradizione abbastanza lunga di costumi civilizzati. Dire che questi due desideri coniugati formano una specie di religione è arbitrario: direi piuttosto che essi corrispondono a un senso della vita e del destino umano libero da miraggi medievali o classicheggiami che è propriamente il senso di noi uomini moderni, nella misura in cui siamo seriamente impregnati di cultura e di civiltà. Quando sbirri e soldati attaccavano gli scioperanti, difendersi a sassate era una reazione naturale, anche se il risultato non poteva che esser disastroso. E se, malgrado la riluttanza, si riusciva a imporre al popolo uniformi e fucili, il soldato poteva ancora scegliere fra una sottomissione rassegnata all'idolo nazionale e il punto di vista cosi bene espresso dal visconte di Chateaubriand quando scriveva: "Per quanto si dica, le guerre civili sono meno ingiuste, meno rivoltanti, e più naturali, delle guerre estere: gli avversari sanno perché hanno la spada in mano... sono degli oltraggi individuali, delle avversioni confessate e riconosciute che li hanno spinti a battersi..."
Ma non è dubbio che il congresso dell'Internazionale che raccomandò ai proletari la celebrazione del 1° maggio a partire dal 1890 voleva evitare sia i massacri della guerra civile che quelli delle guerre nazionali. Esso contava sulla resistenza (passiva, se si vuole) delle "braccia incrociate" da parte degli schiavi dello Stato aggressore come di quelli dello Stato attaccato.
Il gran trionfo degli avversari del pacifismo è, a questo punto, di esclamare: "Abbiamo ben visto com'è andata a finire! " Non c'è niente da rispondere: certo, quell'intenzione civilizzatrice è fallita, e il mondo ha pagato abbastanza caro il fallimento. Ma non si vede perché questo fatto dovrebbe portarci a accettare il principio della violenza e a farci abiurare quelle che sono le "ragioni di vivere" della nostra civiltà.

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