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Oliviero Zuccarini

Il fallimento dello Stato in Italia

Tratto da «Volontà», A. I, n. 1, luglio 1946

La cri­si che col fa­sci­smo ha avu­to il suo pun­to cul­mi­nan­te era già in pie­no svi­lup­po pri­ma del­la guer­ra eu­ro­pea del 1914-1918. Non è par­ti­co­la­re al­l’I­ta­lia, per quan­to so­lo da noi ab­bia rag­giun­to ma­ni­fe­sta­zio­ni di par­ti­co­la­re gra­vi­tà, ma co­mu­ne a qua­si tut­ti i pae­si di Eu­ro­pa. Non è so­lo una cri­si mo­ra­le e so­cia­le. È so­pra­tut­to la cri­si del­lo Sta­to: del­lo Sta­to mo­der­no, co­me in que­st’ul­ti­mo se­co­lo ce l’han­no or­ga­niz­za­to le clas­si di­ri­gen­ti, co­me l’han­no ac­cet­ta­to le clas­si do­mi­na­te. È la cri­si del­la so­vra­ni­tà, il fal­li­men­to de­gli Isti­tu­ti rap­pre­sen­ta­ti­vi. Lo Sta­to so­pra la Na­zio­ne, il Par­la­men­to in­ca­pa­ce di do­mi­na­re lo Sta­to, la Na­zio­ne che non può ri­co­no­scer­si nel Par­la­men­to: ec­co il pro­spet­to del­la si­tua­zio­ne.
Per mez­zo se­co­lo clas­si e par­ti­ti si so­no mos­si uni­ca­men­te nel­l’il­lu­sio­ne che non esi­stes­se che un mez­zo di azio­ne -lo Sta­to; che un istru­men­to di pre­do­mi­nio -lo Sta­to; che una prov­vi­den­za -lo Sta­to. Lo Sta­to po­te­va tut­to: il ma­le ed il be­ne. Al­lo Sta­to si ri­co­nob­be il pos­ses­so di tut­te quel­le ca­pa­ci­tà che non si ri­co­no­sco­no nei grup­pi e nel­le clas­si. Se l’i­ni­zia­ti­va in que­sti man­ca­va, po­te­va par­ti­re dal­lo Sta­to. Se il com­mer­cio lan­gui­va, lo Sta­to ave­va i mez­zi per dar­gli in­cre­men­to. Se l’in­du­stria di­fet­ta­va, lo Sta­to po­te­va far­la sor­ge­re e, se era ane­mi­ca, far­la di­ve­ni­re ro­bu­sta e po­ten­te. Se le clas­si ope­ra­ie non pos­se­de­va­no la for­za suf­fi­cien­te a mo­di­fi­ca­re in pro­prio fa­vo­re i rap­por­ti tra le clas­si e le con­di­zio­ni so­cia­li, era al­lo Sta­to che se ne do­ve­va af­fi­da­re il com­pi­to. E lo Sta­to, in for­za di ta­le il­lu­sio­ne, as­sor­bì tut­ti i po­te­ri ed il mag­gior nu­me­ro di fun­zio­ni; in­ter­ven­ne in ogni uma­na fac­cen­da; as­sun­se ser­vi­zi; eser­cì tra­spor­ti ed in­du­strie; di­sci­pli­nò il com­mer­cio; mol­ti­pli­cò le leg­gi, i con­trol­li, le tas­se, i fun­zio­na­ri. Tut­to il mec­ca­ni­smo del­la vi­ta so­cia­le ne riu­scì tra­sfor­ma­to, i po­te­ri ven­ne­ro cen­tra­liz­za­ti, le au­to­no­mie sop­pres­se, e la bu­ro­cra­zia as­sun­se pro­por­zio­ni mo­struo­se. La guer­ra por­tò im­prov­vi­sa­men­te lo Sta­to al li­mi­te mas­si­mo del suo svi­lup­po, de­ter­mi­nan­do una si­tua­zio­ne eco­no­mi­ca­men­te ar­ti­fi­cio­sa, fi­nan­zia­ria­men­te di­sa­stro­sa, so­cial­men­te in­so­ste­ni­bi­le, del­la qua­le le pro­por­zio­ni spa­ven­to­se rag­giun­te dai de­bi­ti pub­bli­ci so­no l’in­di­ce più im­pres­sio­nan­te. Un pas­so avan­ti c’è il pre­ci­pi­zio. È in di­pen­den­za del­lo svi­lup­po rag­giun­to dal­l’or­ga­niz­za­zio­ne sta­ta­le e del­le fun­zio­ni re­go­la­tri­ci che es­so si è as­sun­to in tut­ti i cam­pi del­l’u­ma­na at­ti­vi­tà che le in­so­li­da­rie­tà so­no di­ve­nu­te quan­to mai nu­me­ro­se ed aspre. È in di­pen­den­za di ciò, so­pra tut­to, che i par­ti­ti po­li­ti­ci si vi­de­ro ri­dot­ti al­la im­po­ten­za e che la lo­ro azio­ne, fin­ché vol­le svol­ger­si nei li­mi­ti del­la le­ga­li­tà e at­tra­ver­so il si­ste­ma rap­pre­sen­ta­ti­vo, si ri­dus­se ad es­se­re una azio­ne pu­ra­men­te este­rio­re. Il fa­sci­smo si è svi­lup­pa­to e si è af­fer­ma­to ra­pi­da­men­te ap­pe­na ap­par­ve in mo­do per tut­ti evi­den­te che il Par­la­men­to era in­ca­pa­ce ad as­sol­ve­re il com­pi­to di­ret­ti­vo per il qua­le ven­ne isti­tui­to e in­ca­pa­ce per­si­no ad eser­ci­ta­re sul­lo Sta­to una sem­pli­ce fun­zio­ne di con­trol­lo. Ha vin­to quan­do la li­ber­tà nel­la co­scien­za dei cit­ta­di­ni, non era più che un no­me e l’i­sti­tu­to par­la­men­ta­re era ca­du­to nel più com­ple­to di­scre­di­to.
La sua vit­to­ria è l’ul­ti­ma fa­se del­la cri­si. Do­po non ci può es­se­re che la li­qui­da­zio­ne e la ri­co­stru­zio­ne.
Al­lor­ché si ri­co­no­sce -co­me tut­ti or­mai ri­co­no­sco­no- che la cri­si che tra­va­glia par­ti­co­lar­men­te l’I­ta­lia è una cri­si di re­gi­me, si ri­co­no­sce an­che im­pli­ci­ta­men­te che è in una re­vi­sio­ne del­le isti­tu­zio­ni do­mi­nan­ti che la cri­si de­ve es­se­re su­pe­ra­ta.
È a due esi­gen­ze fon­da­men­ta­li del­la vi­ta mo­der­na che lo Sta­to at­tua­le non ha sa­pu­to ri­spon­de­re o non è in gra­do di ri­spon­de­re: l’e­ser­ci­zio ef­fet­ti­vo del­la so­vra­ni­tà da par­te dei cit­ta­di­ni - lo svi­lup­po di tut­te le for­ze pro­dut­ti­ve. Già è un se­co­lo che Car­lo Cat­ta­neo os­ser­va­va che "per ef­fet­to del­le im­ma­ni for­ze au­men­ta­te di ma­no in ma­no al go­ver­no, la li­ber­tà fa­ti­co­sa­men­te con­qui­sta­ta sfug­gis­se ai po­po­li eter­na­men­te di ma­no” e con­sta­ta­va che "quan­do in­gen­ti for­ze, in­gen­ti ric­chez­ze ed ono­ran­ze stan­no rac­chiu­se in un pu­gno di una au­to­ri­tà cen­tra­le, è trop­po fa­ci­le co­strui­re od ac­qui­sta­re la mag­gio­ran­za di un uni­co par­la­men­to”. Al­lor­ché egli par­la­va co­sì si era ap­pe­na agli ini­zi di un pro­ces­so che suc­ces­si­va­men­te s’è an­da­to sem­pre mag­gior­men­te svi­lup­pan­do. L’ac­cen­tra­men­to ha fat­to del­lo Sta­to una mac­chi­na ma­sto­don­ti­ca che non si la­scia gui­da­re, il cui con­trol­lo è im­pos­si­bi­le, do­ve si pos­so­no con­qui­sta­re po­si­zio­ni di pri­vi­le­gio, ma do­ve l’in­te­res­se ge­ne­ra­le col­let­ti­vo non ha mo­do di far­si va­le­re. Per l’ac­cen­tra­men­to la de­mo­cra­zia non ha po­tu­to or­ga­niz­zar­si nel­lo Sta­to e suf­fra­gio uni­ver­sa­le e rap­pre­sen­tan­za pro­por­zio­na­le si ri­dus­se­ro a for­me este­rio­ri di so­vra­ni­tà po­po­la­re di cui la so­stan­za man­ca­va.
Se la so­vra­ni­tà dei cit­ta­di­ni pra­ti­ca­men­te si an­nul­la­va pro­prio quan­do do­ve­va im­pri­mer­si nel­lo Sta­to, l’in­te­res­se pro­dut­ti­vo fu pur es­so sa­cri­fi­ca­to. Una del­le spin­te mag­gio­ri al cen­tra­li­smo è ve­nu­ta pre­ci­sa­men­te dal­la il­lu­sio­ne che lo Sta­to po­tes­se util­men­te so­sti­tuir­si al­la ini­zia­ti­va pri­va­ta in una in­fi­ni­tà di fac­cen­de nel cam­po eco­no­mi­co. In­ter­ven­zio­ni­smo e pro­te­zio­ni­smo han­no ope­ra­to nel­lo stes­so sen­so e co­gli stes­si ef­fet­ti: fra l’u­no e l’al­tro i rap­por­ti so­no ine­stri­ca­bi­li. Il ri­sul­ta­to con­si­ste in uno sper­pe­ro co­stan­te di ener­gie e di ca­pi­ta­li. Ogni im­pre­sa pro­dut­ti­va del­lo Sta­to è un in­suc­ces­so: lo Sta­to co­sta al­la to­ta­li­tà dei cit­ta­di­ni più di quel­lo che ad es­si ren­de. Gli in­te­res­si pri­vi­le­gia­ti e pa­ras­si­ta­ri si so­no in­se­ri­ti co­sì for­te­men­te nel suo or­ga­ni­smo, che tut­ta l’at­ti­vi­tà le­gi­sla­ti­va si è vol­ta al­la lo­ro sod­di­sfa­zio­ne. Nes­su­no s’in­te­res­sa sul se­rio di pro­dur­re, ma cia­scu­no mi­ra a con­qui­sta­re una po­si­zio­ne pri­vi­le­gia­ta nel­lo Sta­to. La lot­ta po­li­ti­ca e so­cia­le ha rag­giun­to per ciò le at­tua­li for­me di asprez­za. Per ciò la vio­len­za ar­ma­ta ha fi­ni­to con l’es­se­re l’e­le­men­to de­ter­mi­nan­te del­le si­tua­zio­ni po­li­ti­che.
Nel­l’im­me­dia­to do­po guer­ra tut­te le for­ze so­cia­li han­no avu­to una so­la mi­ra par­ti­co­la­re, una so­la pre­oc­cu­pa­zio­ne: con­qui­sta­re nel­lo Sta­to una po­si­zio­ne di pri­vi­le­gio a dan­no del­la col­let­ti­vi­tà. So­no gli in­te­res­si più for­ti, me­glio or­ga­niz­za­ti e me­glio prov­vi­sti di mez­zi che han­no ar­ma­to il fa­sci­smo. Per quan­to il fa­sci­smo non aves­se chia­ro di­nan­zi a sé il com­pi­to che an­da­va ad as­su­mer­si, e si tro­vas­se­ro in es­so con­fu­se le aspi­ra­zio­ni più di­ver­se e le più in­ge­nue il­lu­sio­ni e an­che, ri­co­no­scia­mo­lo, una sin­ce­ra vo­lon­tà, in mol­ti dei suoi ade­ren­ti, spe­cial­men­te nel­la par­te gio­va­ne di es­si e quin­di più en­tu­sia­sta e me­no pre­pa­ra­ta, di ope­ra­re il rin­no­va­men­to del­la vi­ta pub­bli­ca ita­lia­na, nel­l’a­zio­ne pra­ti­ca ha do­vu­to fa­tal­men­te se­gui­re la lo­gi­ca cen­tra­li­sta. Ci sa­rà fa­ci­le ve­der­lo quan­do pas­se­re­mo ad esa­mi­na­re que­st’ul­ti­ma e pro­ba­ti­va espe­rien­za del­la no­stra vi­ta po­li­ti­ca. La lo­gi­ca cen­tra­li­sta do­ve­va por­tar­lo al­la dit­ta­tu­ra ed al­la sop­pres­sio­ne di tut­te le li­ber­tà for­ma­li, an­che di per se stes­se qua­si in­no­cue e cioè sen­za ef­fet­ti­va in­fluen­za sul­la con­dot­ta del­lo Sta­to. Ma de­ter­mi­na­va in tal mo­do an­che un tur­ba­men­to mag­gio­re, d’in­te­res­si, ap­pro­fon­di­va le in­so­li­da­rie­tà so­cia­li e le ren­de­va vi­si­bi­li e sen­si­bi­lis­si­me, of­fen­de­va i sen­ti­men­ti in­ti­mi di di­gni­tà e di au­to­no­mia dei cit­ta­di­ni, po­nen­do con­cre­ta­men­te per tut­ti il pro­ble­ma del­la li­ber­tà nel­lo Sta­to. È que­sto il pro­ble­ma vi­vo ed ur­gen­te del­l’I­ta­lia pre­sen­te.
Ri­sol­ver­lo non si può sen­za te­ner con­to di due espe­rien­ze egual­men­te com­piu­te: l’e­spe­rien­za li­be­ra­le e l’e­spe­rien­za fa­sci­sta.
Oc­cor­re ri­co­strui­re lo Sta­to!

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