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Angelica Balabanoff

Un ricordo di Andrea Caffi

La Giustizia, Mercoledì 10 agosto 1955

Il nome di quest'uomo dalla coscienza adamantina, onestissimo ed altruista, morto pochi giorni fa a Parigi -come muore la maggior parte dei profughi- nell'isolamento e nella miseria, lo lessi e lo pronunciai per la prima volta durante, o l'anno dopo, la prima Rivoluzione Russa, cioè mezzo secolo fa. Da Pietroburgo mi era giunta la notizia dell'arresto di un giovane italiano da parte della polizia zarista perché coinvolto in uno sciopero di tipografi russi. Dalla Liguria, dove allora abitavo, mi recai immediatamente a Roma per pregare Leonida Bissolati ed altri deputati socialisti di occuparsi del caso. Se la memoria non m'inganna, Bissolati era già al corrente e aveva già preso l'iniziativa di una interpellanza al governo.

Questa ebbe esito favorevole poichè, allora, la sola eventualità della deportazione di un solo individuo suscitava più solidarietà e più proteste di quello che non suscita al giorno d'oggi la sorte di milioni di esseri umani condannati dal governo bolscevico ai lavori forzati nella forma più micidiale e più degradante che l'immaginazione umana possa concepire.
Ecco, dopo tutto quello che era successo nel frattempo al mondo ed in Russia in modo speciale, tornata dalla mia prima emigrazione e, benché non bolscevica, mi trovavo investita di cariche molto importanti che mi diedero la possibilità di appagare il desiderio del nostro povero Amico Caffi, che era quello di venire nella Russia rivoluzionaria. Difatti, ricevuto un biglietto da lui, potei immediatamente provvedere al suo ingresso in Russia ed anche, con grande gioia mia, assicurargli un alloggio decente ed un po' di ciò che allora chiamavasi cibo, invitandolo a stare con me e con altri collaboratori di un ufficio di cooperative italiane - organizzato e guidato dal nostro compagno Rondani, sì ricco in iniziative ed illusioni fra le quali anche quella di poter collaborare colla cooperativa «Sovetesta» - in una casa a me intitolata che per ciò godeva di una specie di immunità.
Andrea Caffi mi fece subito l'impressione di un uomo serio, laboriosissimo, molto coscienzioso e coltissimo per la sua profonda e multilaterale conoscenza della storia e della letteratura russa, per esempio, pochi russi avrebbero potuto competere con lui. Con ciò egli non cessava mai di studiare e, appena finito il lavoro di ufficio, si ritirava nella sua camera per leggere, indisturbato.
Non usciva che rarissimamente, non riceveva nessuno, eccettuate due signorine che venivano a trovarlo abbastanza regolarmente.
Sia per intuito o perché indottavi da qualche osservazione dello stesso Caffi, ebbi pochi giorni dopo il suo arrivo l'impressione che egli fosse violentemente ostile al governo bolscevico, nella cui trasformazione in un governo del popolo, col popolo, per il popolo, io ancora credevo a quell'epoca anche perché, proprio in ragione delle cariche che occupavo, io ignoravo molte cose. Ciò mi diede motivo di parlarne direttamente con il mio ospite. Non so né voglio sapere -gli dissi- quali siano le sue idee politiche, siamo liberi di pensare al modo nostro, però dato il mio atteggiamento verso il governo, e la fiducia di cui godo e che mi ha dato la possibilità d'invitarla in questo paese, in questa casa, La pregherei di non fare fino a quando sta qui nulla che potesse danneggiare il governo stesso». Semplice e spontanea come la mia domanda, fu la breve risposta di consenso da parte del Caffi. Mi si può tacciare «d'ingenua» quanto si vuole, io ho creduto e persisto nel credere che Caffi - per quanto sempre più ostile al bolscevismo, da galantuomo quale era, abbia tenuto parola.
Qualche volta, ed in  ispecie dopo l'episodio ch'io sto per  narrare, m'è venuto in mente che le visite delle due signore -ch'io non credo di avere mai visto-  avessero avuto carattere anche politico, non di congiura, ma di un genere di opposizione latente, non tradotto in atto, una specie di sfogo ed anche di... croce rossa politica antigovernativa per definizione, ma nulla di più.

Fra le privazioni  più crudeli che a quell'epoca tormentavano la popolazione  russa ed in ispecie quella di Mosca, vi era la mancanza del combustibile per cui solo case privilegiatissime adibite ad uffici stranieri venivano scaldate tutti i giorni. Avendo sempre ritenuto, come ritengo ora, che membri dei governo che impongono, sia pure per necessità di cose od in virtù di un loro programma, sofferenze e privazioni alla popolazione devono essere  loro stessi i primi a sottoporvisi ricusai, categoricamente, ogni trattamento di privilegio. La casa da noi abitata quindi veniva riscaldata un giorno sì e un giorno no. Solo chi ha abitato la Russia può farsi una idea di ciò che questo volesse dire. In quanto a me, io pure stavo bene un giorno sì e un giorno no. L'unico modo per sentire un po' meno il tormento del freddo era quello di coricarsi coprendosi nel migliore modo possibile, ritirandosi prima del solito. Così feci in una di quelle sere, anche perché mi era venuta una specie di febbre. A mezzanotte meno qualche minuto sentii bussare alla porta. Era Caffi che, col suo modo di uomo educato, pieno di riguardo e con un tono di voce tutta sua ch'io sento ancora oggi, mi diceva. «Compagna, sono dolentissiimo di doverla disturbare, ho creduto di poterne fare a meno, ma ora vi sono costretto. Giorni fa arrestarono un giovane collaboratore della Internazionale comunista accusandolo di anarchia per aver egli espresso solidarietà e simpatia a degli operai che si lagnavano della fame e dell'esaurimento loro. Dalla mattina alla sera noi, le mie amiche ed io, ed altri non abbiamo fatto altro che correre da ufficio ad ufficio, da un carcere all'altro per far liberare quel giovane. Non ho voluto rivolgermi a Lei conoscendo quanti impegni del genere Lei ha già, ma...». «La prima cosa che farò domattina -lo interruppi io- sarà di telefonare alla S.P.U., al C.C. del Partito». «Domattina potrebbe essere troppo tardi; sono 9 giorni che l'arrestato fa lo sciopero della fame... La S.P.U. ha già dato il suo benestare, alla sua liberazione, ma egli non è stato ancora liberato. A mezzanotte le carceri si chiudono definitivamente e domattina... chi sa?» replicò Caffi molto agitato.

Corsi al telefono, chiamai la Segreteria del C.C. perché subito mi mandasse una macchina e, portata con me l'unica cosa di cui avessi potuto disporre per sollevare il carcerato -un poco di caffè nero in un thermos- uscii di casa con Caffi. In quel momento succedette quello che talune persone chiamerebbero un miracolo. Incontrai l'unica persona ch'io avessi desiderato incontrare, l'unica persona che avesse potuto se non aiutare, almeno sollevarmi: un dottore compagno, amico, fratello ch'io avevo conosciuto in Italia. Montò in macchina con Caffi e con me...
Anche volendo, non potrei trovare parole adatte per esprimere ciò che sente un essere umano, quando sa che da esso, da una sua parola, dipende la vita di un altro individuo... Quel tragitto nella immobilità della notte invernale, interrotto solo dal ritmico movimento di una bandiera rossa in cima ad una prigione che ci si era abituati ad odiare perché simbolo di ingiustizie, di arbitrii umani...
Confesso, tremavo al pensiero di poter trovare un cadavere, ma il dottore mi rassicurò. Nove giorni di digiuno in un paese in cui si era abituati alla denutrizione non voleva dire morte. Ed il dottore ebbe ragione...
Combinazione volle che, diventata ancora una volta «emigrante volontaria» perchè ribelle al regime bolscevico, il cui vero carattere capii molto più tardi di quanto non l'avesse capito Caffi, io m'imbattessi, senza sospettarlo, nella madre dello stesso giovane, del quale avevo dimenticato anche il nome.
«Voi siete Angelica Balabanoff» ripetè la vecchia signora (emigrante anch'essa, vivente coi nipoti nella più squallida miseria) quando sentì il mio nome.
«Si» dissi io; meravigliandomi della sua meraviglia e della sua crescente emozione.
«Angelica Balabanoff», andava essa dicendo con una agitazione che si stava comunicando anche a me; « Angelica Balabanoff, ma voi non sapete, non sapete che avete salvato la vita a mio figlio»... A queste parole tutti i particolari di quella tragica notte si destarono nella mia memoria.
Mentre io stavo per chiedere alla madre ulteriori notizie, essa, intuendo il mio proposito, mi disse con un tono di preghiera, di scongiura: «Non domandate mai nulla di mio figlio. Voi lo avete salvato, siete stato l'angelo guardiano mio... ma i bolscevisti lo hanno soppresso alcuni anni dopo». Difatti potei accertarmi che, per liberarsi del giovane ribelle ed idealista, essi approfittando della sua audacia, del suo coraggio morale e fisico, gli fecero fare un esperimento pericolosissimo per cui egli morì annegato.
Però il suo vero salvatore è stato Andrea Caffi, non io.

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