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Camillo Berneri

Carlo Cattaneo, federalista

Pubblicato nel 1936 da «Studi sociali di Montevideo» e per la prima volta in Italia nel 1949 da «La critica politica», rivista repubblicana di cui Camillo Berneri era stato collaboratore. E’ evidente il debito che queste pagine di Camillo Berneri hanno con l’introduzione che il suo maestro all’Università di Firenze, Gaetano Salvemini, scrisse a Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, Treves, 1922, alla quale spesso l’anarchico italiano ricorre quasi alla lettera. Si rende così esplicito un filone minoritario di cultura politica che dal Risorgimento italiano arriva ai decenni tra le due guerre mondiali.

Ogni qualvolta mi si presenta l’occasione, sono lieto di scrivere o di parlare di Carlo Cattaneo. Spingere coloro che male lo conoscono a leggerlo e a meditarlo è per me un dovere di solidarietà culturale... Se questo autore è poco letto lo si deve principalmente alla dignità stessa della sua opera, che fu impostazione di problemi, concretezza di analisi, ossia preparazione di studioso e non sbandieramento di sonanti parole, positivismo e non trascendentalismo, scienza e non demagogia. Nessuna declamazione, nessun volo romantico in quell’opera, bensì eloquenza sostenuta, pensiero cristallino, trattazione rigorosa. Egli guarda alle stelle dell’ideale, ma ancor più alla strada della storia; e pare quasi un caso che il suo nome rimanga legato alle giornate barricadiere di Milano.
Mazzini era poeta. Cattaneo era scienziato. L’uno era romantico, e l’altro razionalista; l’uno delicato di corpo ed ipersensibile di spirito, l’altro vigoroso, equilibrato, campagnuolo. Mazzini, giovane, smaniava alla Jacopo Hortis; Cattaneo, in quell'età, assaporava Virgilio e Livio, ignorando l’ebbrezza mistica e le disperazioni romantiche, non sognando riforme religiose, non presumendo apostolati. Era, il Nostro, un ambrosiano, pratico, sereno, amante della ricerca scientifica e dell’azione concreta. Quello che di passionale e di mistico era in lui veniva contenuto e diretto dal bisogno di trascorrere una vita mirante a conoscere, e ad insegnare. Fino al 1848 la sua vita era stata quella di un pacifico studioso, quale la tratteggia egli stesso con saporosa semplicità: "Vestito pulitamente, provveduto di poche camerette al sole di mezzodì, con tre scaffali grandicelli di libri che mi fanno; un caminetto, una cucinetta che mi dà un paio o due piatti alla buona, una bottiglia di poco prezzo, d’Asti o di Bocca, ma con un amico galantuomo dirimpetto a me; mezzo scudo, di tempo in tempo, per sentire la Pasta o Rubini; venti soldi per vedere la Marchionni; un po’ di velocifero e di battello a vapore due o tre volte all’anno, e qualche giornatina all’osteria di Varenna o dell’Isola Bella; nove centesimi al giorno per sapere all’officio dell’Eco che cosa fanno e dicono nella politica e negli studi gli uomini di questa e delle altre parti del mondo, e quindi non sembrare un giumento se incappo in buona compagnia”.
Aveva passata in campagna l’infanzia e dall’esperienza dei parenti, dalle personali osservazioni aveva contratto quell’acuto senso delle realtà rurali e quel profondo interesse per i problemi dell’agricoltura che fanno di lui uno dei massimi scrittori di economia agraria. La frequenza della scuola privata di diritto di Gian Domenico Romagnosi continuò ad avviarlo sulla via delle ricerche e delle elaborazioni condotte con senso realistico e con severità di metodo. Ma a questo indirizzo positivista della sua attività culturale lo conduceva principalmente la sua personalità mentale. Egli ci teneva ad essere "incurabilmente positivo”, "un po’ grosso di legname”, e dichiarava preferire le "materiali e quasi febbrili ricerche senza viscere” e la "oscura via delle applicazioni scientifiche e dei volgari interessi”.
Portato come egli era ai problemi concreti, alle impostazioni precise, alle chiarificazioni di massima evidenza, se manca nella di lui opera un centro idealistico è perché all’uomo di scienza e al filosofo positivista basta un centro ideologico al quale i problemi s’annodino. Quel centro è costituito da ipotesi che si alimentano della luce delle particolari ricerche dei positivi risultati e, secondo la risultanza di quelle e l’evidenza di questi, si trasformano o si eliminano.
Mazzini è dominato dal proprio idealismo, mentre Cattaneo ha delle idee che gli son care in quanto gli sembrano vere, ossia rispondenti ad una migliore economia della storia umana, in quanto gli sembrano passibili di realizzarsi in fatti, mediante quelle forze che egli scorge od intuisce dirette verso quei fini. ...
Prima di venire all’argomento, credo necessario aprire una parentesi che richiami alla mente del lettore la reciproca posizione delle due correnti repubblicane: quella unitaria e quella federalista.
I repubblicani unitari posponevano ogni altro scopo alla causa dell’indipendenza nazionale dell’Italia, intesa come unità amministrativa, giudiziaria e politica sotto un solo governo. I repubblicani federalisti davano, invece, prevalente importanza al problema della libertà politica. Gli unitari diffidavano dei Principi (ed erano, in grande parte, repubblicani più che per amore di repubblica perché vedevano nelle monarchie del tempo il maggiore ostacolo all’unità nazionale), ma furono disposti a collaborare col re di Piemonte o col papa quando l’uno o l’altro parve disposto ad innalzare bandiera d’indipendenza e di unità nazionale. Volevano che l’Italia facesse da sé e diffidavano della Francia. I federalisti respingevano l’alleanza con i Principi e speravano nel contributo francese alla rivoluzione italiana.
Il Cattaneo si differenzia grandemente dai repubblicani unitari, ma non si confonde coi federalisti. Vicino al Ferrari per le idee politiche, da lui dissente sovente e, talvolta, non meno profondamente che dal Mazzini. Il Nostro, ebbe, quindi, anche dal lato politico, una posizione del tutto singolare.
Occorre distinguere due periodi nel federalismo del Cattaneo: quello antecedente al 1848 e quello seguente. Nel primo egli rimase fuori dal movimento dell’unità nazionale, non per simpatia verso l’Austria, ma perché non credeva ancora nella possibilità di un moto liberatore e perché diffidava delle soluzioni accentratrici.
Il Manzoni rifiutò di contribuire all’erezione del monumento al Cattaneo in Milano, dicendo che avrebbe sottoscritto soltanto se prima si fosse raso al suolo il monumento al Cavour; questo perché sarebbe stata contraddizione erigere un monumento al Cattaneo che aveva avversata l’unità italiana, dopo aver eretto un monumento al Cavour che l’aveva propugnata. Come è spiegabile l’atteggiamento del Manzoni? Costui, non conoscendo il pensiero del Cattaneo, s’era fermato a giudicare dagli esteriori atteggiamenti di questi, prima del 1848 verso l’Austria e in quell’anno verso il "re liberatore”.
Tali atteggiamenti erano di frequente paradossali. Basti il seguente aneddoto. Alcuni repubblicani francesi, andati a Milano durante la dominazione austriaca e trovandosi con Cattaneo, Maestri e Correnti, si meravigliavano che la Lombardia non insorgesse e facevano uno scialacquo di promesse dicendo: "Verremo noi a liberarvene”. Cattaneo, irritato da quelle spampanate, scoppiò a dire: "Ma noi stiamo benissimo come stiamo. Questi austriaci ci fanno il soldato; ci guardano dai ladri; ci fanno da giudice; ci riscuotono le imposte; e non abbiamo a far altro che a grattarci, con nostro comodo, i coglioni. Vi accorgerete, voi, quando vi toccherà di fare voialtri el todesch!”.
In realtà, il Cattaneo era ostilissimo al regime dispotico e centralista dell’Austria, disprezzava i patrizi collaboratori ed era irritato dallo spadroneggiare del clero. Ma pensava che male non minore del dominio austriaco sarebbe stato quello piemontese, essendo quella monarchia dispotica ed essendo in Piemonte ancor più dominante il clero, più gravi i privilegi feudali, assai meno liberi e più burocratizzati gli ordinamenti amministrativi. Egli pensava, insomma, che la Lombardia, passando dal dominio austriaco sotto lo scettro di Carlo Alberto, non avrebbe guadagnato nulla in fatto di libertà politiche e avrebbe perduto molto delle proprie migliori istituzioni civili.
Nell’estate del 1847, Cattaneo diceva ad un moderato piemontese, che cercava di associarlo alla propaganda per una guerra antiaustriaca sotto le bandiere sabaude: «Prima fate la rivoluzione a casa vostra, e non venite colla vostra corte e coi vostri confessionali a farci cadere ancora al di sotto delle tartarughe». ...
Cattaneo sperava che l’Impero degli Asburgo, sotto la pressione di tutti i suoi popoli soggetti, si trasformasse in una federazione di Stati liberi, uniti da semplice unione personale nella casa regnante. Ciascun popolo avrebbe avuto parlamento, amministrazione, finanza, scuole, esercito per proprio conto. In questa federazione, il Lombardo-Veneto avrebbe avuto, essendo molto sviluppato economicamente, una sicura preponderanza; e nulla gli avrebbe impedito di staccarsi dalla federazione austriaca per associarsi a quella italiana. Questa concezione politica spiega perché il Cattaneo, prima del 1848, non abbia repugnato a qualche manifestazione di lealismo dinastico. Ma suddito servile non fu mai. Infatti nel 1835 fu ammonito; soltanto nel 1837 poterono uscire, e mutilate, le Interdizioni israelitiche scritte nel 1835; scartata piu volte dal Governo fu la sua nomina a membro dell’Istituto Lombardo di scienze, lettere ed arti e, infine, sui primi del ’48 egli era proposto alla deportazione.
Le agitazioni del 1847 e dei primi mesi del 1848 parvero al Cattaneo favorevoli alla realizzazione del suo programma federalista. L’Austria -pensava- attraversando una grande crisi finanziaria, ha interesse ad avere amica la ricca Lombardia, e le concederà le franchigie.
Alla notizia della rivoluzione di Vienna, 17 marzo 1848, gli parve giunta l’ora d’iniziare la propaganda delle proprie idee. Nel programma del "Cisalpino”, che si proponeva di far uscire il giorno dopo, scriveva: "Ognuno abbia da ora in poi la sua lingua e secondo la lingua abbia la sua bandiera, abbia la sua milizia... Queste patrie, tutte libere, tutte armate, possono vivere l’una accanto all’altra, senza nuocersi, senza impedirsi”. E citava l’esempio della Svizzera e del Belgio.
"Non si vedono nella Svizzera e nel Belgio diverse lingue esistere senza odi, in una sola provincia, in un sol cantone? Non già che questo associarsi, in qualunque modo che i tempi volessero e disponessero, debba dividerci da chi più ci somiglia, ma diremo che il tempo potrà indurre pacifiche e volontarie combinazioni che rendano più semplici le cose e più conformi alle preparazioni e ai decreti della natura”.
Cattaneo non nutriva affatto quella che Vico chiama boria delle nazioni che serpeggia invece negli scritti di Mazzini, e vedeva con chiarezza l’impresa comune dell’umanità. Questa visione europea, cosmopolita anzi, poiché egli respinge e demolisce la teoria hegeliana dei popoli extrastorici, ricorre frequente nei suoi scritti.
Nel 1838: i destini delle nazioni si sono complicati fra loro inestricabilmente; e le religioni, le guerre, le finanze, le lettere, le mode, le carte pubbliche, le società industri, fecero di tutta l’Europa un solo vertice, che mena gli spiriti con la sua rapina.
"Non v’è ormai popolo che abbia in sé solo la ragione del suo moto e della sua vita civile, e che possa dirsi libero signore delle sue opinioni, e nemmeno delle forme di cui l’opinione si veste. E mal per lui se lo fosse, perché in pochi anni si troverebbe fantoccio e mummia, a trastullo dei popoli viventi». Nel 1840: "Noi abbiamo per fermo che l’Italia debba tenersi soprattutto all’unisono coll’Europa, e non accarezzare altro nazional sentimento che quello di serbare un nobil posto nell’associazione scientifica dell’Europa e del Mondo”.
"I popoli debbono farsi continuo specchio fra loro, perché gli interessi della civiltà sono solidali e comuni; perché la scienza è una, l’arte è una, la gloria è una. La nazione degli uomini studiosi è una sola: è la nazione d’Omero e di Dante, di Galileo e di Bacone, di Volta e di Linneo, e di tutti quelli che seguono i loro esempi immortali; è la nazione delle intelligenze, che abita tutti i climi e parla tutte le lingue.
Al disotto di essa sta una moltitudine divisa in mille patrie discordi, in caste, in gerghi, in fazioni avide e sanguinarie, che godono nelle superstizioni, nell’egoismo, nell’ignoranza, e amano e difendono talora l’ignoranza stessa, come se fosse il principio della vita e il fondamento dei costumi e della società. L’ intelligenza si move al disopra di questo pelago; essa sparge in ogni parte i libri, i musei, le scuole, le studiose associazioni”.
All’economista Cattaneo non poteva sfuggire né parere secondario il carattere internazionale della vita economica moderna. Nel 1862 così ne scriveva: «Assiduo è frattanto lo scambio de’ prodotti. Qui la Svezia abbatte le sue foreste e scava le sue miniere; la Russia appresta le sue balle d’ermellino e di martora; l’Olanda imbarca le sue aringhe, il suo olio e le sue ossa di balena; fra pochi mesi, i vascelli di Tolone copriranno gli alberi di Svezia, d’una vela francese; il napoletano, il genovese, il livornese, il sardo esporranno al sole il pesce seccato dal batavo; sugli omeri del sultano spiccherà l’ermellino d’Arcangelo; alla sua volta l’Italia verserà l’olio de’ suoi fecondi olivi nelle botti del nord; la Francia attelerà le sue drapperie di seta, quella seta recata a Costantinopoli dalla China entro un giunco: l’impero d’Oriente è scomparso, il verme esiste ancora; l’industria l’ha ricoverato sotto il dorso di una rustica foglia, e questa foglia è una ricchezza!
«Non si fabbrica un’auna di merletti a Malines, che Bergamo non tessa nello stesso tempo un’auna di cotone, Aleppo una di mussolina. Una verga di ferro esce dalle miniere di Upland, e nello stesso istante Brescia estrae un fucile dalla fornace, Birmingham un’ancora marina. Bristol una pioggia di fili metallici. Così ogni uomo risponde all’altro uomo; ogni colpo di martello ha la sua riscossa lontana» («Politecnico», XII, 245).
Da questo carattere internazionale della vita economica moderna, il Cattaneo induce due necessità: la solidarietà tra le nazioni e il libero scambio. Nel 1863 egli scriveva:
«Una guerra, in qualunque parte del globo, turba il commercio e l’industria di tutte le nazioni. Al contrario, la quiete, la prosperità, la cultura d’un popolo torna in mille modi a giovamento di tutti gli altri, le invenzioni della scienza e dell’arte si propagano per tutta la terra, per esempio, la stampa, la locomotiva, la bussola, il telegrafo. Perciò tutte le nazioni hanno interesse a proteggere la libertà delle nazioni e il loro incivilimento è il regno della giustizia su tutta la terra».
Il Cattaneo combatte il nazionalismo economico basandosi sulla divisione del lavoro e sulla libera emulazione. «Come sarebbe assurdo -egli osservava nel 1834- far crescere le palme del deserto accanto agli abeti delle Alpi, così è assurdo trasformare il Lionese in orologiaio e il Ginevrino in tessitore di seta».
Se «Il Cisalpino» avesse avuto vita, Cattaneo avrebbe sviluppato la sua tesi federalista, avendo a modello la Svizzera, il Belgio, gli Stati Uniti d’America. Il giornale, invece, non uscì. Era suonata l’ora della rivolta, e il Cattaneo che il 17 marzo scriveva il programma di collaborazione tra il Lombardo-Veneto e l’Austria, che il 18 sconsigliava una dimostrazione di piazza, il 19 dava consigli strategici agli insorti, e il 20, con tre giovani, Terzaghi, Clerici e Cernuschi, entrava a far parte del Consiglio di guerra e rifiutava, a nome di questo consiglio, contro il parere del podestà Casati e di altri maggiorenti moderati, l’armistizio di 15 giorni proposto dal Radetzsky. Il giorno seguente rifiutava un’altra proposta d’armistizio per tre giorni. E respingeva la proposta di un agente albertista: i milanesi facciano dedizione a Carlo Alberto, e l’esercito piemontese si metterà subito in campagna.
Così il Cattaneo si poneva in contrasto con Mazzini, accorso da Londra, che protestava di non volere se non la vittoria sull’Austria e rinviava a guerra finita la questione della forma politica del nuovo Stato, sperando in un moto repubblicano e democratico che liquidasse Carlo Alberto e i moderati lombardi.
Ferrari e Cattaneo volevano abbattere il Governo Provvisorio, convocare l’Assemblea e chiamare in aiuto la Francia. Nelle considerazioni dell’Archivio Triennale (1850-54), il Cattaneo definiva con viva ostilità l’azione politica dei repubblicani unitari.
«Nel 1831 Giuseppe Mazzini non rivolse le prime sue parole al popolo, ma bensì a un giovane congiurato divenuto re?»... «Cotesti nuovi repubblicani purtroppo erano propensi sempre e sperare più nell’esercito regio che nella guerra di popolo, perché la scuola loro era scaturita primamente dall’idea napoleonica».
Sul dissidio tra Mazzini e il Cattaneo si legga il libro del professore A. Monti, Un dramma tra gli esuli.
Il risultato dei contrasti fra i moderati, che promossero il plebiscito per la fusione con il Piemonte ed i federalisti fu la vittoria di Radetzsky, che scacciò Carlo Alberto dalla Lombardia e ristabilì il dominio austriaco. Cattaneo venne a Parigi, in rappresentanza dei democratici lombardi emigrati, a sollecitare l’intervento della Francia in una nuova guerra contro l’Austria, ma trovò incomprensione, indifferenza, ostilità. Stabilitosi a Lugano, fu invitato ad accettare la candidatura per il Parlamento di Torino, poi quella per la Costituente Toscana, poi l’ufficio di Ministro delle Finanze della Repubblica Romana. Rifiutò sempre, affermando che ciascun "paese deve scegliersi a governanti propri uomini e non prendere a prestito quelli delle altre regioni”.
II 1848 segna un più completo e più audace indirizzo del pensiero del Cattaneo. La sua sfiducia nell’azione popolare si è ricreduta, tanto ch’egli trova accenti commossi per narrare le epiche gesta delle Cinque Giornate, sentendo in quella storia vissuta «non solo la materia d’una istoria; ma quasi un vasto poema». Nel 1850 egli riconosce il valore della propaganda dei mazziniani, così eclettica e confusa, ma così dinamica nella sua suggestività. «Adoperarono fogli clandestini e i pubblici, i canti, gli evviva a Pio IX, il sasso di Balilla, le catene di Pisa. Adoperarono i panni funebri delle chiese e i panni gai delle veglie festive: assortirono in tricolore le rose e le camelie, gli ombrelli e le lanterne; trassero fuori il cappello calabrese e il giustacuore di velluto; il vessillo della nazione e quello delle cento sue citta» ... «Essi accesero di vetta in vetta lungo l’Appennino le fiamme del dicembre; essi congregarono sulla fossa di Ferruccio i montanari della Toscana: essi domarono coi fieri applausi dei trasteverini le ritrose voglie del Pontefice». E concludeva: «Il popolo poteva fare: voleva fare; ma senz’essi non aveva fatto. Per essi ora è certo che l’Italia sa e può fare».
Dopo la prova del 1848, Cattaneo non sperava né desiderava più la soluzione federale austro-lombarda: il Lombardo-Veneto doveva, a suo parere, staccarsi ad ogni costo ed interamente dall’Impero austriaco. Nelle considerazioni al vol. I dell’Archivio Triennale egli scrive:
«Quell’Austria federale che aveva potuto nello stesso tempo governare le Fiandre col consiglio di vescovi intolleranti, e Milano con quello di audaci pensatori, e regnare in Ungheria col libero voto di genti armate, erasi estinta con Maria Teresa. Già con Giuseppe di Lorena erano tese d’ogni parte le stringhe dell’antica centralità ... Per farsi strettamente una, l’Austria doveva preferire una lingua fra dieci: elevare a dominio una minoranza: configgere sul letto di Procuste tutte le altre nazioni».
«Da allora -faceva presente il Cattaneo- cominciò la sua decadenza materiale e morale: le finanze vacillavano sotto il peso dell’esercito stanziale, unico vincolo fra i vari popoli e da quella sola assemblea che chiamava i rappresentanti delle varie genti non poteva risultare che un babilonico conciliabolo».
Non più speranzoso in una soluzione che venisse dall’Austria, rivolto lo sguardo all’Italia risorgente, il problema nazionale apparve al Cattaneo come problema di unità nell’autonomia. Ogni Stato italiano istituisca il proprio regime rappresentativo; i singoli Stati si confederino con patto di solidarietà perpetua contro ogni pericolo esterno; ciascuno Stato ceda alla Federazione italiana quel tanto di sovranità locale che sia necessario per assicurare solidità al nodo nazionale. Tale federalismo non si opponeva né all’immediata unità nazionale né alla graduale unificazione delle leggi. Questa posizione attirò sul Cattaneo, nel 1859, l’odio dei moderati. Gli fecero negare gli stipendi arretrati dell’Istituto lombardo e rifiutare dal Cavour la sua nomina a segretario dell’Istituto. Tentarono negargli la cittadinanza italiana, avendo egli ottenuta quella svizzera ad honorem, gli contestarono perfino il godimento della pensione d’insegnante, tacciandolo sui giornali di amico dell’Austria.
Per le elezioni politiche del marzo 1860, fu costretto dalle insistenze degli amici ad accettare la candidatura. Fu eletto in tre collegi, ma non andò alla Camera, perché gli repugnava il giuramento di fedeltà alla monarchia e perché lo contrariavano le schermaglie inconcludenti e piccine proprie dei dibattiti parlamentari. Egli soleva dire: «il mio Parlamento io me lo tengo meglio in casa». E non è a rimpiangersi quel suo astensionismo poiché gli permetteva di curare la pubblicazione del «Politecnico», ripresa nel gennaio di quell’anno. I pensieri dominanti della sua magnifica rivista erano: il federalismo amministrativo e la nazione armata. Nel primo indicava la causa della pletora burocratica e del costituirsi della burocrazia in casta dominante. E insisteva nel dimostrare che il parlamento unico, non può avere né il tempo né la competenza necessaria per risolvere i tanti e complessi problemi amministrativi, economici, giuridici, ecc., i quali variano profondamente dall’una all’altra regione. Nel 1854, scriveva: «Qualunque sia la comunanza dei pensieri e dei sentimenti che una lingua propaga tra le famiglie e le comuni, un parlamento adunato in Londra non farà mai contenta l’America; un parlamento adunato in Parigi non farà mai contenta Ginevra; le leggi discusse in Napoli non risusciteranno mai la giacente Sicilia, né una maggioranza piemontese si crederà in debito mai di pensare notte e giorno a trasformar la Sardegna, o potrà rendere tollerabili tutti i suoi provvedimenti in Venezia o in Milano».
Nel 1862 riprendeva e sviluppava questa sua opinione a proposito della Sardegna e della Sicilia. A proposito di quest’ultima, egli aveva scritto a Crispi, nel 1850: «La mia formula è Stati Uniti; se volete, Regni Uniti; l’idea di molti capi, che fa però una bestia sola. I siciliani potrebbero fare un gran beneficio all’Italia, dando all’annessione il vero senso della parola, che non è assorbimento. Congresso comune per le cose comuni; e ogni fratello padrone in casa sua. Quando ogni fratello ha la casa sua, le cognate non fanno liti. Fate subito, prima di cadere in balia d’un parlamento generale, che crederà fare alla Sicilia una carità, occupandosi di essa tre o quattro sedute all’anno. Vedete la Sardegna, che dopo dodici anni di vita parlamentare sta peggio della Sicilia ».
Nel sistema accentratore un’enorme massa di affari è sottratta alla competenza dei consigli locali e rovesciata a Roma, sì che il paese è schiavo della burocrazia e dei ministeri. Il governo federale, invece, affida agli uffici centrali le sole funzioni politiche di interesse nazionale, lasciando alle amministrazioni locali, più vicine agli interessati, tutta la direzione della vita locale. Al Parlamento centrale il Cattaneo riserva un «alto diritto di cassazione», vale a dire il diritto di modificare le locali deliberazioni per quello che le faccia contrastare con gli interessi nazionali. II sistema federale eviterebbe, inoltre, quel sacrificio degli interessi locali degli uni a quelli degli altri che avviene nell’assemblea nazionale unica. L’idea di decentrare l’amministrazione, nel senso di trasferire ad uffici governativi periferici le funzioni degli uffici governativi centrali, non piaceva al Cattaneo, poiché riteneva che questo sistema si ridurrebbe ad un semplice dislocamento della burocrazia centrale nelle provincie, in forma di «satrapie». Le regioni, i Comuni: ecco le basi del sistema federativo del Cattaneo. Le città sono per lui, come illustrava nel 1836, le «patrie locali», e chi «prescinde da questo amore delle patrie locali, seminerà sempre nell’arena». E sarebbe, a suo parere, un grave errore quello di «rimaneggiare» i Comuni per ingrandirli. Così scriveva a proposito, nel 1864: «E’ un errore che l’efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga soppressione di codesti plessi nervei della vita vicinale. Nelle riviere dei mari e dei laghi e in molte e molte altre parti dell’Italia, vediamo floridi comuni di qualche centinaio di famiglie dedicate all’industria, alle arti belle, alle lontane navigazioni, attendere con egual cura a ingentilir il luogo nativo. Ma se il piccolo comune venisse incatenato a una maggioranza di rustici villaggi, dispersa per valli e selve, o popolata di braccianti vagabondi, quel geniale fermento rimarrebbe sopraffatto e oppresso.
«II piccolo comune ha diritto di continuare nel suo seno, quel modo d’essere che gli è proprio, benché non sia quello in cui possano consentire i suoi vicini. E anche a questi il vicino e libero esempio potrà giovare. Se un comune, provveduto già di strade e d’acque, venga per volontà non sua congiunto ad altro comune cui la natura e il caso non abbia egualmente favorito, poco si curerà di contribuire col suo danaro ad opere delle quali non avrebbe giovamento suo proprio. Quindi, fra i mali assortiti consorzi impotenza e discordia... Meglio vivere amici in dieci case, che vivere discordi in una sola. Dieci famiglie ben potrebbero farsi il brodo a un solo focolare; ma v’è nell’animo umano e negli affetti domestici quella cosa che non si appaga colla nuda aritmetica e col brodo».
Con l’idea delle autonomie amministrative fa sistema unico in Cattaneo l’idea della Nazione armata. L’esercito stanziale a tipo francese e piemontese (prima del ’70) coscriveva una parte minima della popolazione atta alle armi e la sottoponeva a lunghe ferme, sotto una gerarchia di militari di professione costituenti una casta chiusa. Tale ordinamento appare inadeguato al Cattaneo come strumento di difesa nazionale, poiché lascia inerti, in caso di guerra, enormi riserve umane e grava sul pubblico erario con gli stipendi degli ufficiali e con il mantenimento dei soldati. Gli eserciti stanziali, inoltre servono alla volontà dei governanti, che se ne giovano per opprimere i cittadini inermi». Nel 1844, parlando dei Comuni medioevali, il Nostro osservava che «il principio vero del risorgimento fu nel legittimo possesso della milizia popolare», e nel 1860 citava ad esempio di nazione armata la federazione americana e l’elvetica, insistendo sulla stretta connessione del problema delle libertà interne con l’organizzazione militare. «Una nazione che mette quattrocentomila gladiatori ad arbitrio d’uno o di pochi, sarà sempre serva degli altrui voleri. E le stesse forme della libertà diverranno occasioni di corruttela. La Francia, si chiami repubblica o regno, nulla monta, è composta di ottantasei monarchie che hanno un unico re a Parigi. Si chiami Luigi Filippo o Cavaignac, regni quattro anni o venti, debba scadere per decreto di legge o per tedio di popolo; poco importa: sempre l’uomo che ha il telegrafo e quattrocentomila schiavi armati». La nazione armata è, inoltre, un elemento di pace tra i popoli, poiché soltanto da un popolo che vedesse nella guerra l’unica via della propria salvezza contro un’aggressione sarebbe possibile ottenere lo slancio guerresco.
Nella nazione armata, tutti i cittadini sono obbligati al servizio militare, ma non allontanati dalle proprie case e dalle occupazioni consuete, non chiusi per mesi e mesi nelle caserme a poltrire o ad esaurirsi in esercizi meccanici e di parata. L’istruzione pre-militare nelle scuole di tutti i gradi, le esercitazioni festive, le manovre per pochi giorni e a periodi fissi sostituiscono la caserma. Gli ufficiali, salvo i piccoli nuclei permanenti, escono dalle scuole medie e universitarie e vivono della propria professione civile, coprendo gradi, ma non godendo stipendi militari stabili. ...
II sistema federalista del Cattaneo parve per un momento realizzabile: quando trionfò l’impresa garibaldina nel Mezzogiorno d’ltalia. Nel settembre del 1860 Garibaldi invitò a Napoli il Cattaneo, che vi si recò e prese parte per quel gruppo di seguaci del «donatore di regni» che volevano l’elezione di parlamenti speciali per la Sicilia e per il Napoletano e conservate le autonomie locali, pur trattando col governo di Torino i patti dell’unione nazionale. Mazziniani e cavouriani volevano, invece, l’annessione immediata ed incondizionata. Garibaldi, che s’era professato federalista, cedette agli unitari.
Nel nord d’ltalia, dove esisteva una numerosa e florida borghesia, manifatturiera, commerciale, agraria ed intellettuale, la resistenza all’invadenza amministrativa e giudiziaria piemontese fu notevole. Nel Mezzogiorno, dove gli esigui nuclei borghesi e piccolo-borghesi temevano le rivolte contadine e vedevano, quindi, nel Piemonte la forza militare capace di mantenere il così detto ordine pubblico, non ci fu resistenza. Nel Mezzogiorno vi era, inoltre, una burocrazia borbonica che andava eliminata e un’infinita turba di aspiranti alla carriera burocratica, aspiranti in grande parte incapaci. Si aggiunga il carattere statolatra della corrente hegeliana, fiorente a Napoli e professata dai piu autorevoli patrioti meridionali: primo Bertrando Spaventa. L’unitarismo del Mazzini screditava, poi, tra i democratici meridionali l’idea federalista.
La «nazione armata» nel 1860 era di difficile attuazione, specialmente a causa del brigantaggio, arma della restaurazione borbonica. A ragione -mi pare- il Salvemini attribuisce alla paura del brigantaggio il ripiegamento unitario di Garibaldi.
Il Cattaneo vide, dunque, crollare la speranza di vedere realizzate le sue idee politiche. Sulla sessantina, malato di cuore, stanco e sfiduciato, si ritirò dalla vita politica, trovando conforto e stimolo nella compilazione del «Politecnico». Rifiutò nel gennaio e nel giugno nel 1861 nuove candidature, ma i moderati non disarmarono, boicottando la sua rivista. I dissensi con l’editore, disordinato e imbroglione, l’obbligarono, nel 1863, ad abbandonare la direzione di quella rivista che era sua. Povero, impossibilitato al lavoro calmo e continuato, vide morire degli amici ed altri allontanarsi. Il pensiero della frammentarietà della propria opera lo angustiava più vivamente. Alla White-Mario, una sera del ’67, diceva: «Io mi farò egoista, mi dedicherò alla filosofia, condenserò gli studi dell’intera mia vita, e lascerò qualche impronta sull’arena del tempo». Ma a diventare egoista non riusciva. Si fece appassionato propagandista della ferrovia del Gottardo, attirandosi attacchi violenti ed insinuazioni dai sostenitori degli opposti progetti. Un diverbio, a questo proposito, col presidente del Canton Ticino lo indusse, nell’ottobre del 1865, a dimettersi da insegnante del Liceo cantonale. Crebbero, così, le ristrettezze finanziarie, che la sua dignità celò sempre gelosamente anche ai più intimi. Offertagli, nel febbraio del 1867, un’altra candidatura, la rifiutò, dichiarando che, «inesperto di scherma parlamentare», non avrebbe saputo evitare «le transazioni e gli espedienti che la politica degli amici» verrebbe ogni istante ad imporgli. Ma nel marzo successivo si rassegnò a farsi eleggere deputato. Andò a Firenze, allora capitale, vi rimase tre settimane, e se ne tornò a casa senza aver messo piede alla Camera. Scriveva, in quei giorni: «Io non sono adatto ad ingolfarmi in siffatti labirinti; e perciò il Parlamento non è la mia strada». Ritornò a Firenze per la crisi di Montana, nell’autunno del 1867, tenendosi sempre fuori della Camera e rifiutando di partecipare a pubbliche adunanze. Alla fine del gennaio del 1869 moriva. Nel delirio, parlava di Custoza, di Lissa, di Mentana, della tassa sul macinato, e non avendo riconosciuto un amico che gli toccava la destra, per stringergliela, corse col pensiero concitato al dubbio che potesse rimanere sulla sua fede politica, sì che, ritirando vivamente la mano, esclamò: « No, io non dò, io non diedi la mano, io non sono impegnato, sono libero, nulla ho promesso, io non giuro». In questo sfogo di agonizzante avvampava per l’ultima volta quella passione, contenuta e diretta dalla sua forma mentis di scienziato, che spiega la sua indefessa laboriosità di pubblicista e la sua adamantina coerenza di uomo politico.

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