Volontà - anno XVIII - n.12 - dicembre 1965

difficile ri1wenirc nell'opera zoliana quel– l'uomo a tutto tondo di cui discorre il nostro Coupcau, il disgraziato Coupcau dcll'Assom111oir, non è, in nessun momen– to del romanzo, l'incarnazione di un ti• po e di un ,,1zio, sempre eguali a se stessi, cogli slessi ritmi e le stesse ballute. C'è in Coupeau la tragedia, sofferta e contesta– ta, dello slittamento di una ,•ita verso il vizio fino a profondare in esso. Ma l'As– sommoir fa fede, altresì, dell'abbraccio soffocante tra ambiente e personaggio. Gervaisc, che si spc1..za le reni al l:watoio, che cerca di riportare il marito alla vita e al lavoro, è pur essa vittima dell'am• bicnte, cd essa sente, vede il baratro che le sì è aperto innanzi. Goujet, il giovane, che l'ha amata e l'ama, Goujet, che incon– tra nelle ultime pagine del romanzo, quan do affamata ,,ende le sue carni respinte ai passanti. è una fiammata di vergogna, che le sale in viso, è l'ultima trafittura di do– lore che subisce prima di seppellirsi defi– nitivamente nella sporcizia e nella tomba (3). Dov'è, dunque, lo svolgimento piatto e monocorde, lo scorrere di vite senza urti e sen1.a drammi, Do,•'è, ancora, l'uomo a lutto tondo, l'uomo interamente malvagio e inumano, rmimalcsco e istintivo? E' rin tracciabile nel Germinai ove una massa di minatori affamati insorge contro il dio satollo e infingardo del capìlale, ponen– do colla protesta e collo sciopero le pre– messe concrete del rinnovamento della società? O forse è possibile rinvenire i se– gni di un [nondo senza speram.a e senza fremiti nel Ventre cle Paris ove la frusta dello scriuore cala flugcllatrice cd epigra– fica a condanna del \'entre, che dimenti– ca, che s'ingrassa sulle sventure degli altri e sul loro dcferimcn10 alla ingiusta giu– stizia degli uomini? Non dice nulla che Zola senta di dovere chiudere il roman– zo colla frase: .che canaglia, la gente o• nesta,. Da questa rapsodica elencazione, che non giova ampliare, discende chiaro <:he l'accento umano e poetico batte sulla speranza, che per non essere folle e velici• taria si diparte da questo mondo, da quc• sta società hic et nunc. Però quello che fa paura in Zola non è già la nota pessimisti– ca, l'accento scorato, ma la fiducia, il sen– so della prospettiva e del divenire. A non accorgersi sono soltanto i critici sociologi• ci che lamentano l'assenza dell'eroe posi– th•o grazie ad una estetica delle sen•c, che amano gli epiloghi in abiti bianchi e con– fetti. Veniamo a Ncmà. In Nanà, secondo il dettato del prof. Siciliano, confluiscono i due rlifetti-principc dell'arrivista Zola: il de,;crillivismo fine a se stesso e il simbo– lismo tipicizzatore. Eppure, appunto QUC· o:to irritante romanzo, che è il romanzo della crisi dei valori borghesi (l'amore, la famiglia, l'onore), e dimostrativo della corposa compenetrazione tra .unbiente e personaggio: compenetrazione negata <lai Lukacs, e ribadita, sempre negativamente dal prof. Enzo Siciliano. Si può assumere n dimostrazione del contrario proprio la s,ena che il Lukacs tira in questione, ap• pcllandosi al grande Tolstoi. Si t-ratla del– la corsa dei cavalli, che, secondo il critico ungherese, si pone come una disgressione virtuosistica, che non riesce, per la sua ,1atura di episodio a se stante, a dramma di significazione ,,itale nell'economia del romanzo. Vandeuvres, uno degli occasio– nali amanti di Nanà, finisce col rovinarsi ad una corsa. L'autore vi si sofferma; da qui l'accusa di <lcscritth•ismo (4). Quando si dice che Vandeuvres è uno (4) LUKACS GYORGY, Narr111reo descrlve.- (3) F. DE SANCTIS, Zola e l'Auommolr, (pag. (in Il marxismo e la critica letteraria, Elna~ 331, i Saasi critici, Laterza, Bari, 1961 (V. III). di, 1953, pp. 275-?76). WJ

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