Una città - anno V - n. 43 - settembre 1995

sette,nbre GLI ADDII PROLUNGATI. La terapia del dolore, offrendo al morente una possibilità, crea un 'aspettativa a cui non può essere data una risposta medica: quella di un legame, un ambiente comunitario, di un trapasso nel ricordo, uniche risposte possibili al danno della morte. Intervista a Salvatore Natoli. In seconda e terza. CITTADINI IN ATTIVITA' è l'intervista a Giovanni Moro sulla potenzialità politica del volontariato, del cosiddetto terzo settore, di una cittadinanza non passiva. In quarta e quinta. QUALCUNO DI NOI SOPRAVVIVERA', A LUI DOVRETECHIEDERECOME ABBIAMO VISSUTO è una lettera di Ozren Kebo, di Dani, da una Sarajevo sempre più sola, abbandonata e disperata. In quinta. Ricordando Alex Langer. IL SALTATOREDI MURI e di confini, il viaggiatore e il conoscitore di lingue, il visionario e il collezionista di indirizzi. La dedizione alla causa della Bosnia. In sesta e settima la commemorazione di Adriano Solri. GLI INCONTRI CHE LA VITA DONA sono "una delle mie maggiori ricchezze": sono parole scritte nella sua breve autobiografia, che pubblichiamo, comparsa su Belfagor nel 1986. In ottava e nona. LEESTREMEDIMISSIONI: nell'intervista a Edi Rabini, suo amico e collaboratore, il racconto del suo modo di affrontare la politica e quello degli ultimi anni, quando la sua molteplicità perse di unità, il carico di lavoro divenne insostenibile, quando si cominciò a porre il problema delle dimissioni. In decima e undicesima. Insieme alle parole di saluto di Peter Kammerer. MAESTRI DI STRADA è l'intervista a Marco Rossi Daria sulla lotta che, insieme all'Associazione Quartieri Spagnoli, ha intrapreso contro l'evasione scolastica per un'idea di scuola che espanda il suo spazio e il suo tempo. In dodicesima e tredicesima. LETRE BANDIERE DEGLI INDIANI è l'intervista in cui Flavia e Sandra Busatta ci raccontano perché gli indiani amano lare il soldato e odiano contemporaneamente lo stato, perché i bianchi, discendenti da odiatori di indiani, hanno assunto il modello dell'indiano guerriero e ribelle. In quattordicesima e quindicesima. Le MADRI sono quelle organizzate in comitati in tutta la Russia per difendere i propri figli da un servizio militare durissimo e da tragedie come quelle della Cecenia oggi, dell'Afghanistan ieri. L'intervista a Olga Dobrohotova è in ultima. E in copertina: chiesa di Telles, Vipiteno, nel cui cimitero è sepolto Alex Langer. Bianco

un mese di un anno Quando ci siamo incontrati, a luglio, Grazia Cherchi era affranta per la morte di Alex Langer. Non solo per Alex, non solo perché, come ha scritto, lo considerava insostituibile, ma anche perché in quella morte vedeva un segnale terribile per il nostro futuro e per il destino di una generazione. Cosa, quest'ultima, su cui noi, assolutamente, non eravamo, non volevamo essere d'accordo. Poi, però, parlando del giornale fu lei a voler infondere ottimismo, consigliandoci di farlo meno cupo, di parlare anche delle cose positive, di chi riesce a fare qualcosa di buono. E rise quando le chiedemmo se ce lo avrebbe procurato lei un elenco. Ora sappiamo che da tempo stava combattendo, da par suo, la battaglia che non si vince e che a luglio i suoi giorni erano già contati. Malgrado tutto, ora accettiamo, vogliamo accettare, quel consiglio. Parco Cilento: 10.000.000(A ambiente agricoltura); Impianto traduzione: 16.320.000 (I strutture, impianti); B. Crisi automobile: 5.000.000 (B/Borsa, ambiente, sociale); B. Consumi equi: 10.000.000 (B/Borsa, ambiente sociale); Viaggio Vandana Shiva: 3.000.000 (NS Nord-sud); V. Semin. Agric. biol.: 820.000 (A, S ambiente, sociale); Fiera utopie: 10.000.000 (EO,MmovimentVprogetti); Conv. Sviluppo, no gr.!: 2.680.000 (C convegni, conferenze); viaggio J. Ferraz: 2.100.000 (NS, A Nord-Sud, ambiente); Attiv. Jugoslavia: 5.880.000 (YU exlugoslavia, pace); Attrezz. fotografica: 5.950.000 (I strutture, impianti); Osp. Verdi georgiani: 4.000.000 (A, S, EO); EcoArch: 15.000.000(Ns, A); Eco-lst. Veneto: 40.000.000 (/); viaggio P. B. Ucr., Georg.: 830.000 (EO Est-Ovest); libro animali TN: 3.000.000 (A); attrezz. verdi alban.: 900.000 (EO, /); A. Teutsch, /avi eco/: 1.500.000 (NS,. S); Giornata Albania: 3.000.000 (EO); Verona Forum I: 5.0Q0.000(YU); lniz. Xavantes: 10.000.000 (NS); Comit. Albania: 1.100.000 (EO); Computer VR-Forum: 1.000.000 (YU, · i); Vienna Conference: 10.000.000 (YU); Ricerca Agric. eco/. 1-r: 2.500.000 (A, S); Fiera utopie 1993: 10.000.000 (EO, M); Xavantes, z, rata: 10.000.000(NS); lnc. Jnternaz. Madri: 1.800.000(c convegni, conferenze); IVsess. Verona-F, Paris: 10.000.000(YU);Agric. biol. turchi: 6.000.000 (A, S); Xavantes, ult. vers.: 50.000.000 (NS). (Oltre a: direttamente a Gruppi e iniziative 108.660.000; Cassa Comune gruppo italiano 150.479.000; Federazione Verdi 133.500.000). Di fronte a un meticoloso, noioso rendiconto di spesa, ci si può commuovere e si può anche riflettere politicamente? Di fronte a quello di Alex, e alla sua straordinaria "definizione dei campi", sì. Alex si teneva per sé poco più di un decimo dello stipendio. Ma era il nostro deputato e dai deputati ci si aspetta l'esempio. Se noi decidessimo di destinare la decima dél nostro stipendio a Sarajevo che va verso il quarto inverno e, come ci avvisa l'amico Ozren, sta morendo? E' poco, pochissimo, soprattutto è tardi, a questo punto lo faremmo soprattutto per noi, eppure faremo fatica a farlo. Vien da chiederci come siamo diventati. Comunque ci proveremo, chi è interessato ci chiami. Edi, l'amico fraterno di Alex, ci scrive: "Cari amici, mi spiace molto che un'altra maestra se ne sia andata. Non la conoscevo di persona ma ho seguito e inseguito i suoi scritti. Penso che sarebbe stata bene in quel 'sinedrio dei saggi europei' che Alex sognava". Nell'intervista che pubblichiamo Edi sostiene che la Bosnia c'entra col suicidio di Alex, almeno perché rese impossibili altre vie di fuga "incruente". A dire: dalla Bosnia non ci si dimette. Chissà che non meditino tutti coloro che dalla Bosnia non si sono mai fatti assumere neanche a giornata. A tutt'oggi, di fronte alla prova provata di quanto un intervento militare della comunità internazionale sarebbe stato risolutivo, di quanto i nazisti della pulizia etnica si siano avvalsi dei discorsi sull'impossibilità, sulla pericolosità di un intervento, di fronte alla prova provata di quante vite si sarebbero potute salvare con tanto poco, ancora nessuno che dica: sì, mi sono sbagliato. Quanti disonesti intellettuali da scacciare dal sinedrio dei saggi! Chi è rimasto vicino a Grazia fino a/l'ultimo racconta che quando le è stato riferito che "uno dei nostri" -così lei soleva chiamare gli amici e i compagni- stava cercando di telefonarle dalla ex-Jugoslavia per un estremo saluto, si è rasserenata in un sorriso di vivo compiacimento. Era l'antivigilia della fine. " ...Ancora non so dove questa transizione ci/mi porterà: il bisogno di trovare una nuova sponda per un impegno sociale e politico che continuo a ritenere di grande (ma non esagerata) importanza, resta più che mai aperto e non conosce né scorciatoie progressiste né rassicuranti giaculatorie verdi. Probabilmente occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisognerà far intravvedere l'alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia (anche tra i popoli). Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle 'chiese', e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. ". E' un brano della lettera che Alex mandò a amici e conoscenti in occasione del Natale scorso. In un'ultima lettera che Grazia ha tentato di dettare, si legge la frase: "Non è più tempo di oracoli, ma è tempo di tessere fili fra le persone". Il ricordo di Grazia Cherchi e di Alex Langer sarà, per noi, uno di quei flli. Ciò, purtroppo, non farà smettere il rimpianto. B tP Al morente la terapia del dolore prolunga il tempo di passaggio fra la vita e la morte. La necessità di una risposta non medicale che riguardi il senso di sé e di comunità, il rapporto con l'altro basato sul reciproco interesse che l'altro viva. li senso del danno nell'epoca di una tecnica che non va demonizzata né mitizzata. Intervista a Salvatore Natoli. Salvatore Natoli è professore di Filosofia Teoretica all'Università di Milano. Ha pubblicato: L'esperienza del dolore. Forme del patire nella cultura occidentale e La felicità. Saggio di teoria degli affetti, entrambi da Feltrinelli. A seguito dello sviluppo delle terapie che combattono il dolore come fosse una malattia, come sta cambiando, nella nostra cultura, il rapporto con il dolore? La medicina palliativa in generale e la terapia del dolore sono oggi una prassi diffusa, direi sempre più crescente, di una mutazione nella esperienza della sofferenza sullo sfondo della grande mutazione moderna costituita dalla tecnica. La terapia del dolore nasce soltanto all'interno di un'evoluzione del quadro tecnico, e sarebbe stato impensabile concepirla senza il grande sviluppo tecnologico. Fino a vent'anni fa ancora la terapia del dolore non esisteva; nella medicina il dolore era inteso come un sintomo, non come un male. Anzi, al dolore si attribuiva il vantaggio di mettere sull'avviso, di essere cioè il sintomo e il segnale che qualcosa non funzionava. Per cui la pratica medica in generale non si poneva il problema immediato di ridurre il dolore, ma solo quello di toglierne la causa: sanata la malattia, qualora fosse sanabile, finiva il dolore. Di converso, purtroppo, quando la malattia non era sanabile il dolore dilagava. Diciamo che lo sviluppo tecnico, sia farmacologico che chirurgico che clinico, ha mutato questo paesaggio: oggi si può aggredire il dolore, limitarlo, senza che ne vengano rimosse le cause. li dolore può essere trattato in termini medici, indipendentemente dalla sua causa, non è più un segnale, non è più un sintomo, ma diventa esso stesso una malattia, una patologia. Pur in una situazione in cui la malattia continua a svilupparsi, il progetto della terapia del dolore diventa quello di agire sul dolore limitandone la forza e l'intensità. In breve, grazie a queste terapie si può morire soffrendo sempre meno. Non è una modificazione da poco. Basti pensare a quello che diceva Epicuro: il dolore se è forte è breve, se è lungo è sopportabile, e quindi non è un male. Per Epicuro, cioè, i dolori veri fanno soffrire poco. Infatti nell'età classica l'eccesso di dolore o portava alla perdita dei sensi, allo svenimento, o comunque era talmente atroce e veloce che durava un periodo molto breve se calcolato rispetto ai tempi di vita. Oggi invece, nel momento in cui la medicina può controllare sia la forza del dolore che il tempo di progressione della malattia, si è creata una possibilità inedita, imprevedibile nella storia del mondo: poter convivere a lungo con la propria sofferenza, poter continuare a vivere sotto l'ipoteca del male, poter assistere lucidamente allo spettacolo della propria dissoluzione. Come si svolge la vita di un uomo al quale la chirurgia ha ridotto il dolore, ha anche temporaneamente sospeso la malattia, ma non è riuscita ad assicurare che non torni? li paziente sta meglio, ma vive nell'incubo che la malattia si ripresenti. Cosa può fare, come può vivere un uomo quando, dovendo affrontare periodi più o meno lunghi in cui il dolore è limitato epperò la malattia procede, sente di non avere più un futuro innanzi a sé da organizzare? In realtà, attutendo il dolore, diminuendo la sofferenza viva, la medicina fa morire meglio l'uomo, ma lo mette anche in una condizione di esperienza inusitata rispetto al passato, alla quale essa stessa non può dare risposte.L'esperienza dell' uomo, il suo esistere è progetto, è impresa, l'uomo esiste quando ha un futuro davanti a sé, nelle cose pratiche. L'uomo pensa anche alla morte, ma come a una cosa lontana, alla quale si reagisce organizzandosi la vita, tant'è che anche nelle persone più mature la preparazione alla morte avviene attraverso il rilancio della vita: si crescono i figli, ci sono i nipoti, in fondo si muore non morendo, si lascia qualcosa. E' qui, allora, che le terapie del dolore mettono in evidenza un effetto boomerang della medicina: la tecnica continua a procedere, ma perde efficacia rispetto alla sÌmità e viene meno il rapporto fiduciario, di tipo illuministico, nei confronti della medicina. Infatti, spesso, dinanzi a problematiche di questo genere, il medico fugge, perché non può più assolvere al suo compito di medico che è quello di curare: dovrebbe diventare altro e, soprattutto, dovrebbe incontrare l'altro, l'altro uomo, il sofferente. la medicina vede la malattia non il malato Tutto ciò perché la medicina, sia quella di corsia sia, ovviamente, quella sperimentale ha come oggetto la malattia, non il malato. Anzi: la medicina più è sofisticata e meno vede il malato. La medicina più sofisticata lavora con i ratti e meno male che lo fa, perché solo così può fare scoperte. Però questo dimostra chiaramente la divaricazione tra il progetto medico come lotta contro la malattia e l'incontro con il morente. A partire dalla propria impotenza o dalla propria relativa potenza la medicina incontra il morente e cosa gli dice? Sì, ti tengo in vita, però ti lascio convivere con il tuo dolore. Basta? Nel momento in cui ti lascio convivere con il tuo dolore poi ti abbandono come uomo? Allora forse non sarebbe stato meglio morire presto, come diceva Epicuro? Come riempire questo tempo? Il problema non è più solamente medico. · Infatti. Diventa il problema del rapporto con la sofferenza come tale: un problema psicologico, psicologico-filosofico, umano in generale. Che cosa dire a questi uomini in attesa di morte, che pure, però, vivono? Qual è il protagonismo che loro possono continuare ad avere nella vita? Che cosa in questo tempo che gli resta è significativo per la loro esistenza? Non è un caso che proprio oggi, a fronte dello sviluppo della medicina palliati va, della terapia del dolore, nell'ospedale venga incrementata sempre di più la figura dello psicologo che è, anch'essa, una soluzione tecnologica. Quando lamedicina farmacologica e chirurgica non può fare più niente subentra un'altra branca tecnica, un altro tipo di metodo, che dovrebbe aiutare a morire: quello dello psicologo. La logica altrettanto medicale resta profondamente ambigua perché un conto è un rapporto psicologico con una persona che ha problemi psichici, dove esiste una clinica, tutt'altro conto è un rapporto psicologico con una persona che ha problemi di esistenza. Uno che sta morendo non è che diventa pazzo, uno che sta morendo sta morendo e ha bisogno di una risposta diversa. In realtà se lo psicologo diventa uno che si interessa a lui, allora non c'è bisogno neanche che sia psicologo, se invece non si interessa a lui è una sovrapposizione non pertinente. Sarebbe molto meglio che il medico fosse capace di stare al capezzale come medico, come ci stava un tempo il medico di famiglia. E' interessante il fatto che il medico di famiglia, potendo meno come medico, si interessasse di più al paziente. Quando invece il medico ha potuto di più, si è spersonalizzato, è diventato più funzionario, il suo mestiere è diventato quello di applicare al meglio gli esperimenti che si fanno con i topi e il suo obiettivo quello di potenziare lo strumento. E si badi bene che io non critico tutto ciò, anzi, dico: "meno male che è così", perché la medicina cresce per queste strade, perché se si indugiasse di volta in volta al capezzale di un paziente la medicina non ne avrebbe fatti di progressi. Però dico anche che ci deve essere un punto di non abbandono, ci deve essere un'attenzione all'altro perché altrimenti si entra in una forma di schizofrenia in cui là dove c'è la malattia non c'è il malato e là dove c'è il malato non c'è la guarigione, e questi sono degli unilateralismi che bisogna superare. Tutto questo come si risolve, come si può evitare? Non spezzando il soggetto che ci sta davanti: l'unità ultima è l'altro. Se tu sei interessato ali' altro i conti tornano, se tu non sei interessato alt' altro allora le schizofrenie si moltiplicano. In tal caso la risposta torna al sociale, alla comunità ... La terapia del dolore ha aperto uno spazio di diversa umanità che però non può essere risolto clinicamente. Anzi: se ci si limita al solo aspetto clinico-farmacologico diventa un inferno peggiore della morte breve. Invece un paziente può vivere anche a lungo in questa condizione se si trova in un rapporto di società e di legame con persone che gli mostrano quanto è importanteche lui viva, qualunque sia la sua condizione, perché ha ancora qualcosa da dare. la tua morte fa morire un po' anche noi Allora, la dinamica di relazione non può essere la dinamica correntedella compassione perché la compassione è offensiva. E' come dire: "poveretti i bosniaci che muoiono", dove quel "poveretti" sta a dire: "sì, mi dispiace, non sono poi un cinico, ma in fondo io sono fuori". Nella compassione, nel suo modo volgare di atteggiamento pietoso nei confronti del sofferente, c'è un'immaginazione proiettiva: si soffre per l'altro che soffre, immaginandosi, in fondo, di essere nella sua condizione, per poi concludere: "meno male che non ci sono io". C'è questo astuto flash back. Il problema, invece della compassione, è entrare nell'altro, nel senso di dire: "tu sei un individuo che sta uscendo dalla vita però la tua vita è importante per noi, talmente importante che più dura, meglio è. Se tu vieni meno, la tua morte fa morire anche noi e porta con sé una parte di noi". E questo non può essere detto a parole, deve essere vero, cioè il paziente deve percepire che chi gli sta accanto, se lui morisse, starebbe male al monAbbonamento ordinario a 1Onumeri di UNA CITTA ': 40000 lire. Abbonamento sostenitore: 100.000 lire. e.e. postale n.12405478 intestato a Coop. Una Città a r.l., via L Ariosto 27, 47100 Forlì. Una copia: 5000 lire. A richiesta: copie saggio. Redazione: p.za Dante 21, 47100 Forlì - Tel. 0543/21422 Fax 0543/30421. UNA CITTA' è nelle librerie Feltrinelli.

do e quindi è importante che lui, nonostante soffra, viva. Questa è una percezione che il paziente ha anche sesi parla d'altro, anche sesi parla di banalità, anche se si parla di calcio: ha la percezione che chi parla con lui vuole la sua esistenza per lui e quindi in questo caso si restituisce al morente la sua importanza, per cui questo dice: "sì, la mia vita sarà breve, però ho un progetto". Un progetto non perché parte da me, ma perché sono importante per altri. Oppure ci sono delle situazioni in cui le persone non vogliono morire perché hanno ancora dei compiti da assolvere, perché, per esempio, hanno dei figli giovani, ragazzini,e allora dicono: ·'sì, io sono ammalato, però, fin quando posso... non sono solo un assistito ma cerco di realizzare questo rapporto d'amore. preparo questa strada...". Hanno un compito che va oltre il tempo della loro esistenza ecercano, quindi, di prolungare questa esistenza. li sensodi séè decisivo nel modo in cui si affronta la morte: ci sono delle persone che hanno resistito, che hanno eroicizzato la loro morte per non depotenziare r immagine che avevano avuto nella vita. Persone pubbliche che avevano parlato agli altri, che avevano tenuto uditori i, in cui l'immagine data era quella dei forti, dei maestri, hanno affrontato la morte con crisi soggettive. individuali molto forti volendo tenere fede a quell'immagine, per non del udere. Tutto ciò vuol dire che le modalità dell'accompagnamento alla fine vengono decise in rapporto alla specificità del soggetto con cui si ha a che fare e l'elemento di relazione personale, quindi la comunità, diventa un elemento non di razionalizzazione perché lamorte non si razionalizza, ma di valorizzazione di sé finché si è al mondo. Da tutto ciò si può dedurre la verità che il dolore è un fatto relativo, legato alla cultura della società e delle singole persone? E' la riflessione che ho sempre fatto sul dolore: il dolore non è solo esperienza del danno, ma l'esperienza del dolore esiste e consiste nell'attribuzione di sensoche i I soggetto riesce a dare al danno. Ecco perché il dolore non è universale, universale è i I danno. Uno può rompersi un braccio nello stessopunto, radiografia documentando, sia nel VJ0 secolo avanti Cristo che nel mondo indiano o nel mondo cristiano, oppure oggi e il significato che attribuisce a quel danno è completamente di verso. Nell' attri buzionedi significato al danno c'è l'esperienza vissuta del dolore. Quindi è positivistico, ingenuo considerare il dolore a partire dal danno, tant'è vero che la soglia di dolore è maggiore o minore nel soggetto a seconda della condizione con cui questo dolore è vissuto. Non esiste un'oggettività nella soglia del dolore. Ma perché? Perché i nervi sono diversi? Anche per questo, ma perché oltre alla costituzione fisica esiste una costituzione psichica che non è un fatto privato. Quando l'uomo nasce non inventa una lingua e, ammesso che lo potesse fare, non parlerebbe con nessuno: entra in un discorso già in atto, in una scenache è quella della vita già in atto e come apprende a parlare apprende a soffrire, entra a far parte di una comunità che dà un senso alla sofferenza o non lo dà. Nascere cristiano non è la stessa cosa che nascere buddhista, non è la stessa cosa che nascere grecopagano, non è la stessa cosa che nascere nell'età della tecnica. Nell'età della tecnica sin da bambini, si apprende che il problema del dolore èqualcosa che si risolve in prima istanza tecnicamente. Se oggi un bambino sta male, la prima percezione che ha è quella della mamma che chiama il medico. Ma una volta, se la malattia era particolarmente grave, la mamma chiamava il sacerdote oppure gli diceva: ''Dì la preghierina che Gesù ti aiuta", e quindi tutta l'esperienza della sofferenza si andava ad accentrare su Gesù. Era l'animazione religiosa della sofferenza. Costituzione psichica vuol dire inerenza a una società, a una cultura. a un ambiente, non esiste una costituzione psichica privata. Ecco per~ ché uso parlare di scenari della sofferenza. La terapia del dolore si colloca dentro lo scenario della sofferenza tecnica, però con una singolarità: nella terapia del dolore si ha insieme la percezione della potenza edell'impotenza della tecnica, e quindi ciò che oggettivamente è un bene perché riduce lo strazio può creare un altro tipo di dolore che è il dolore mentale. Tutto il problema dell'eutanasia si pone qui, perché la terapia del dolore di fatto pratica l'eutanasia come eutanasia passiva: ormai la medicina più seria, come ègiusto, dismette l'accanì mento terapeutico quando vede che non c'è più una possibilità di cura e comincia ad introdurre la terapia del dolore che vuol dire, per esempio, un dosaggio di morfine, oppure la resezione di un certo organo che diminuisce la vitalità dell'uomo. Sono interventi che. nel momento stesso in cui operano sul dolore. riduncendolo, sanno di ridurre la vita, di introdurre elementi di morte che addolciscono la morte stessa.L'eutanasia passiva, cioè, è praticata per accompagnare la decadenza del corpo riducendo il dolore il più possibile. Il problema serio, invece, quello veramente dibattuto e rispetto al quale la medicina non può dare una risposta perché non è un problema medico, è quel lo del r eutanasia atti va, quando, cioè, il soggetto, in condizione di fine certa però vivibile, proprio grazie alla terapia del dolore, dice: "Ma io che ci sto a fare in questa stanza, che cosa ci sto a fare al mondo ... ?" Allora la terapia del dolore mostra la grande potenza della tecnica, la grande utilità della tecnica, ma anche la necessità che bisogna andare oltre, che il problema della tecnica è un problema di visione del mondo, di filosofia, chec'è bisogno. quindi, di scambi, di legami, di un altro ordine di relazioni che non può esserepensato tecnologicamente. Cosa cambia rispetto alle "due prospettive": quella greca del reggere nel dolore e quella ebraico-cristiana del resistere al dolore in vista di qualcosa ...? Non solo "in vista'' di qualcosa, ma radicandosi in una fiducia originaria ... Direi che però la dimensione della tecnica rende possibile sia l'una che l'altra occasione. Lo spazio più ampio che si apre tra la vita e la morte può essere riempito sia nel sensogreco del reggere che in quello cristiano dello sperare. La tecnica non annulla un elemento rispetto all'altro perché la motivazione è ospitata dalla tecnica. Quello che è grave è che l'eccesso di fiducia nella tecnica abbia cancellato sia la dimensione greca del reggere che quella ebraico-cristiana del resistere. Che la tecnica stessa si sia trasformata in salvezza. E qui si dà quella situazione terribile di profonda delusione, dove non c'entra La testata UNA CITTA' è di proprietàdellacooperativaUNACITTA'. Presidente: MassimoTesei. Consiglieri: RosannaAmbrogetti,PaoloBertozzi, RodolfoGaleotti, FrancoMelandri,Gianni Saporetti, Sulamit Schneider. Redazione: RosannaAmbrogetti,MarcoBellini,FaustoFabbri,SilvanaMasselli, FrancoMelandri, MorenaMordenti, MassimoTesei, Gianni Saporetti (coordinatore). Hanno collaborato: EdoardoAlbinati,LorettaAmadori,Antonella Anedda,GiovannaAnceschi,GiorgioBacchin,PaoloBertozzi,Patrizia Betti, Aldo Bonomi, Barbara Bovelacci,Vincenzo Bugliani, Dolores David, LianaGavelli,MarzioMalpezzi,GianlucaManzi,CarlaMelazzini,GabiMicie, LejlaMusic,LindaPrati,CarloPaletti,StefanoRicci,RoccoRonchi,donSergio Sala, SulamitSchneider. Interviste: A Salvatore Natoli: FrancoMelandrie GianniSaporetti. A Giovanni Moro: Marco Bellini. A Edi Rabini: Gianni Saporetti.A Marco Rossi Daria e Cesare Moreno: MassimoTesei.A Flavia e Sandra Busalla: FrancoMelandri. A Irina L'vovna Oobrohotova: MirellaFanti. Disegni di StefanoRicci. Foto di FaustoFabbri.Incopertina,di RobertoValli;pag.7, dall'archiviodi EdiRabini; pag. 13, di Mimmo lodice, per concessionedell'AssociazioneQuartieriSpagnoli.A pag. 1 O, di EnzoNicolodi.A pag.15,trattada America-La riscoperta, Ed. SocietàS. PaoloS.r.l. Grafica: "CasaWalden".Fotoliti: Scriba. Questo numero è stato chiuso il 28 ar;osto'95. B 01 o eca ~ 1not:S1anco la medicina palliativa ma c'entra il placebo in generale: un eccesso di fiducia nella medicina, pensataalla stregua di Dio, diventata un surrogato del divino. la tecnica, come la vita, è ambigua Prima si pregava santa Apollonia poi la medicina onnipotente, poi si è divinizzata la tecnica, infine nel momento in cui questa fallisce si cercano altre tecniche. Ecco allora le cosiddette medicine non classiche. si va in oriente, tutto diventa buono. Siamo a un uso tecnologico della tradizione pre-tecnologica. E questo è il parossismo: la delusione della medicina ti porta all'arcaico non come a un meglio, ma per delusione. L'elemento è scelto non già perché vale, ma perché va a sostituire e nella sostituzione l'importante non è mai il contenuto ma il movente. In definitiva la terapia del dolore offre solo una chance che poi bisogna saper cogliere ... Si può morire in vari modi da un punto di vista biologico, ma in che modo il soggetto si può valorizzare anche in questa perdita? Credo che sia necessario stabilire dei legami di continuità, lasciar immaginare che oltre la propria morte ci sia dell'altro, che non è la vita eterna, ma può essere la memoria. La verità è che l'uomo muore male se muore sradicato, se muore solo, se muore separato. Ma in questo caso io sostengo che la separazione, la morte èavvenuta prima, nella vita, nei rapporti di esistenza. Molte volte gli uomini muoiono soli perché sono già soli e nella morte si rivela un'impotenza cheèstata silenziata, velata, nascosta prima. Chi, invece, da prima non è solo, viene accompagnato nella morte equindi vive il trapasso come un transito, non come una sconfitta. In definitiva la terapia del dolore lascia spazio al tempo intermedio tra la vita e la morte, un tempo che può sviluppare disperazione e dolore mentale o può essere, invece, l'occasione di un incontro o di un bilancio di esistenza, quindi di una maggiore ricchezza ... Un'occasione per una prolungata scena degli addii ... Certo, un'occasione per lunghi addii. L'uomo ha questa volontà, ha questa voglia di lunghi addii. Molte volte quando ci ci lascia dopo una serata con gli amici si sta sul pianerottolo quasi non ci si volesse lasciare mai. Nell'uomo c'è molto forte la dimensione del legame e allora se lo spazio che la terapia del dolore lascia è uno spazio entro cui si può coltivare il legame molte cose possono nascere. Dalla morte nasce sempre qualcosa. La morte può essere istruttiva per chi vive. La tecnica ha avuto sempre nella storia questi elementi di ambiguità. La mia tesi, poi, è che la vita è ambigua, il mondo non è mai né UNA ClffA' vero né falso, il mondo è fatto di opportunità, di occasioni in cui bisogna giocarsi con la propria soggettività: dividere il mondo in buono e cattivo, in vero e falso, è moralismo e pigrizia insieme. Così, allora, demonizzare la tecnica, dire "il mito, il simbolo" è un modo strumentale con cui degli imbroglioni vogliono proporsi come guru, impiantarsi a maestri. "La tecnica è il male, il negativo, il disastro, torniamo al mito!", come se nella società del mito non ci fosse i I dolore, la paura, l'orrore, le notti senza luce, la fame, il freddo ... Bisogna invece saper convivere e saper cogliere le opportunità in questa ambiguità del mondo, in questa incertezza del vivere. Aristotele aveva ragione: l'uomo è colui che sa cogliere il tempo opportuno. Chi ha questa capacità vive meglio emeglio la esercita chi è più attento alle modulazioni dell'esperienza. Chi meno taglia. -

d, volontariato e stato sociale I Il terzo settore del volontariato e delle imprese no profit è una realtà che non trova nella politica la giusta risposta. L'indecisione sulla riforma dello stato sociale. Il limite di un'idea di cittadini come minorenni da accudire. Le motivazioni, a volte anche orrende, di una cittadinanza attiva. L'idea di un "governo congiunto". Intervista a Giovanni Moro. Giovanni Moro è segretario del Movimento federativo democratico, da cui è nato il Tribunale dei diritti del malato. Cosa sono le reti di solidarietà, che rapporto intessono con la sfera politica? Si può dire che queste reti di solidarietà -che complessivamente coinvolgono una fetta rilevante della nostra società, occupando una forza lavoro di circa 400 mila persone, cui si aggiungono almeno 4-5 milioni di cittadini che vi partecipano a vario titolo- fanno riferimento a un fenomeno che va oltre i confini dell'Italia; si tratta di quel fenomeno chiamato anche "cittadinanza attiva", "terzo settore" o cose di questo genere, tutti nomi che indicano un'attitudine dei cittadini in quanto tali ad organizzarsi per affrontare problemi che riguardano la loro vita, ai quali gli stati non riescono più a far fronte per la loro debolezza, la mancanza di risorse finaziarie o di volontà politica. Una parte di questo mondo della cittadinanza attiva vive questa esperienza sulla base di una motivazione che si può"ricondurre al tema della solidarietà. Ora, la parola "solidarietà" in Italia è spesso usata in forma polemica nei confronti di un modello sicuramente antisolidale, legato al successo; tutta una parte di questo mondo, invece, è legata alla solidarietà in senso stretto, cioè ali' idea di un impegno a sostegno dei più deboli, di una responsabilità dei più forti nei confronti dei più deboli. Queste reti sono costituite da organizzazioni tradizionali, storicamente collegate alle grandi famiglie culturali e politiche italiane, i cattolici e i comunisti (Acli, Arei ecc.), oppure da nuovi movimenti, associazioni, organizzazioni, realtà di base, che magari provengono sempre dal mondo cattolico o dal mondo comunista oppure da nessun mondo in particolare, senza avere però un legame diretto con i partiti. In queste reti della solidarietà si ritrovano in genere due atteggiamenti di partenza: uno che tende a prendere le distanze, a marcare l'autonomia in quanto cittadini, da sindacati e partiti; l'altro, nel quale c'è la consapevolezza che i cittadini hanno una responsabilità politica che va oltre e non coincide necessariamente con i partiti, ma che deve, tuttavia, misurarsi con i problemi della politica. Gli ultimi referendum, quelli sull 'informazione in particolare, sono stati largamente promossi da organizzazioni che si potrebbero definire come appartenenti alle reti della solidarietà e costituiscono il segno più recente del loro avvicinamento alla politica in senso stretto. Ci sono, pertanto, questi due movimenti, uno che dal mondo politico tradizionale si allontana, e uno che da una posizione di maggiore estraneità si avvicina invece al mondo della politica. Rispetto all'ultimo decennio c'è stato un cambiamento nel rapporto con la politica da parte del terzo settore? Sì, credo che ci sia stato qualcosa di nuovo, nel senso che è aumentato il senso di un'autonoma responsabilità politica dei cittadini, che non si confonde più con quella dei partiti. Un po' in relazione a Tangentopoli e <alla sparizione decartiti dl~ scena, un po' in relazione a quel senso di autonomia che i cittadini italiani hanno conquistato nei confronti dei partiti e che si è manifestato, ad esempio, nel referendum sulla preferenza unica; tutto questo negli anni '90 è cresciuto, anche se è vero che rimangono atteggiamenti di dipendenza dal mondo dei partiti, dallo Stato, dalle istituzioni, magari espressi sotto forma di richiesta di assistenza, di aiuto, di sovvenzione, volendo ancora una volta che lo Stato si occupi di queste associazioni. Negli ultimi mesi c'è stata una discussione fra le leadership di queste organizzazioni riguardo alla possibilità che nel quadro della riforma dello stato sociale -e quindi della diminuita presenza pubblica nella gestione dei servizi dello stato sociale-, si dovesse chiedere un sostegno diretto alle organizzazioni sotto forma di contributi, facilitazioni oppure se si dovesse semplicemente chiedere una politica di defiscalizzazione come avviene negli Stati Uniti. Quelle organizzazioni che si misurano con un certo tipo di consenso dei cittadini avranno più risorse, quelle, invece, che non riescono ad esprimere niente di nuovo ne avranno di meno. Questa discussione c'è stata ed è significativo che ci sia stata. L'intervento del terzo settore riesce a bilanciare l'abbandono di certi servizi da parte dello Stato? E' difficile dare una risposta univoca a questa domanda in questo momento perché si tratta di un processo in corso e perché, tutto sommato, non c'è stata nessuna decisione, non dico del Parlamento o del Governo, ma proprio del paese, -perché queste sono decisioni che riguardano il destino di un paese e vanno prese attraverso la costruzione di un sentire comune-, sul futuro dello stato sociale in Italia. Preso atto che lo stato sociale così com'è costa troppo, che la sua qualità è troppo bassa rispetto al costo, allo stato attuale non si è deciso ancora nulla: né di smantellarlo, né che questo insieme di servizi venga fornito gratuitamente solo alle perbiMnose. né che cf fornisca a tutti facendo in modo che paghi chi ha più risorse. Anche la decisione su chi deve gestire questo tipo di servizi non è stata presa. Questo è un male per l'Italia, perché in assenza di queste decisioni si continua a seguire la linea tradizionale, ma con sempre minori risorse finanziarie e con un aumento sempre maggiore della pressione contributiva sui cittadini, per cui i servizi sono sempre di meno però aumentano i tickets, le rette degli istituti e altre cose di questo genere. In questo quadro il mondo del terzo settore si inserisce, avendo già costruito un sistema di servizi che sono gestiti direttamente, che sono mediamente di buona qualità e di costo ridotto, mentre i servizi che gestisce lo Stato hanno dei costi altissimi, soprattutto per via della quantità di personale impiegato. Però, che questo impegno da parte del terzo settore possa portare a una sostituzione senza residui, dell'intervento dello stato, questo non si può dire. un telefonino a chi attraversa Centrai Park Ci sono però altri elementi da considerare, come per esempio il fatto che anche nel settore privato chi si occupa di servizi comincia ad immaginare il proprio ruolo come un ruolo no profit: è il caso delle farmacie private, che noi conosciamo bene, perché come Tribunale dei diritti del malato abbiamo fatto negli ultimi anni una politica nei loro confronti affinché diventassero, da semplici esercizi commerciali, gli snodi di un servizio sanitario moderno a livello di base. E lì il tema più importante non è più il profitto, ma la qualificazione della farmacia come un servizio per i cittadini. Quindi, c'è questo primo punto, servizi privati che tendono a diventare servizi no profit. Un altro punto è come tener conto delle nuove tecnologie: per esempio, molti servizi di medicina di base, che prima erano forniti attraverso strutture materiali (l'ambulatorio, il personale, le macchine), sempre più nel futuro saranno forniti attraverso tecnologie telematiche (il telesoccorso, la telemedicina, la telediagnostica). Non solo il controllo delle condizioni di anziani a rischio, ma anche tutta una serie di esami possono essere fatti per via telematica. E questo cambia un po' i termini di paragone, quello che prima costava I00 perché doveva essere presente fisicamente, adesso può costare molto meno perché non è necessaria la presenza fisica affinché ci possa essere il servizio. Dal punto di vista '!Strettamente politico le reti di solidarietà possono apparire come realtà limitate alla funzione che svolgono, come qualcosa di circoscritto. Per anni c'è stata contro questo mondo una polemica in cui si sosteneva che siccome queste organizzazioni si occupano solo di argomenti concreti, non avevano la dignità di possedere un punto di vista politico generale, erano cioè movimenti one issue, "a una sola uscita", secondo il linguaggio degli studiosi di politica americani, per cui alla fine solo ai partiti spettava questa visione generale. Ora, invece, è sempre più chiaro che la politica si giocherà per il futuro sulle politiche più che sulla Politica, cioè sulle singole e concrete politiche che vengono fatte piuttosto che sui rapporti di schieramento; e su queste i partiti hanno poco da dire, anzi non hanno quasi niente da dire. Spesso per i partiti le politiche sono solo un campo di battaglia per la Politica, per cui c'è l'alluvione, tutti litigano, ma è chiarissimo che a nessuno importa nulla dell'alluvione, stanno in realtà litigando sulle maggioranze e minoranze in Parlamento, che è l'unica cosa che interessa veramente. Una politica sulla Protezione civile, ad esempio, nessuno ce l'ha; tani' è vero che nessun governo ha mai messo la fiducia su una legge riguardante la Protezione civile e nessuna opposizione ha mai fatto ostruzionismo in Parlamento per far sì che siano sbloccati dei fondi per la Protezione civile. Certamente le organizzazioni dei cittadini esprimono una vocazione ad avere competenza e ad esercitare potere all'interno delle politiche concrete, molto meno all'interno della Politica. C'è poi la crisi della rappresentanza tradizionale, per cui mentre prima vi era un unico luogo che rappresentava lutti gli interessi presenti nella società, adesso questo è sostituito da una pluralità di luoghi, di forme di rappresentanza, così come da una pluralità di soggetti che esercitano potere politico in senso lato: per esempio, il potere di prevenire fenomeni di violazione dei diritti degli utenti nell'area dei servizi pubblici di interesse collettivo (trasporti, sanità ecc.) è esercitato molto più dalle organizzazioni di autodifesa dei cittadini che non dai governi e dalle amministrazioni pubbliche. Ci sono delle cose che devono essere fatte per governare questo paese che non finiscono più dentro il Parlamento; noi dobbiamo immaginare che un paese come questo funzioni secondo il principio del governo congiunto, come dire: tanti soggetti, pubblici, privati, collettivi, che cooperano per esercitare quelle funzioni di governo che prima, in un mondo che era più semplice, venivano esercitate soltanto dallo stato. Insomma, il terzo settore sta superando in questi anni una logica di mera protesta e rivendicazione e sta assumendo una prospettiva di responsabilità di governo, perché ormai non è più vero che i governi hanno potere di vita e di morte su tutto e pertanto certi problemi devono essere risolti direttamente dai cittadini. Tuttavia c'è una grossa difficoltà: la cultura pubblica italiana stenta molto a riconoscere l'importanza, l'autonomia, il valore e la responsabilità dei cittadini in quanto tali. C'è l'idea che i cittadini siano sempre dei minorenni o nei confronti dello stato o nei confronti dei partiti o degli intellettuali. Invece sono dei maggiorenni con tutto quello che di buono e di cattivo ne consegue, così come i cittadini del resto del mondo. Però, mentre in America o in Inghilterra c'è l'idea che i cittadini vengono prima dello Stato, sono i padroni di casa per cui, piaccia o meno, bisogna prenderli sul serio, in Italia, al contrario, l'amministrazione pubblica e le classi dirigenti ritengono superflua o addirittura dannosa l'attivazione dei cittadini. Questo è un enorme problema non risolto. A questo proposito mi ricordo un episodio accaduto tempo fa, mentre ero a New York. Per gestire il problema dell'ordine pubblico a Centrai Park, che è incontrollabile, la polizia aveva fatto un accordo con la Motorola, quella dei telefonini. e aveva messo a disposizione dei cittadini abituati a frequentare Centrai Park per portare il cane, correre ecc., dei telefonini collegati alla centrale di polizia. I frequentatori abituali di Centrai Park disponibili dovevano recarsi alla polizia, ricevevano un telefonino e. se nel corso della giornata vedevano una situazione pericolosa, un'aggressione ecc., avvisavano la centrale che così interveniva in modo mirato. Qualche giorno dopo che questa proposta era stata lanciata si erano offerte spontaneamente più di 3.000 persone per fare questo servizio. Ora non so come sia andata a finire, però questo fa pensare che in Italia non sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere: anzitutto avrebbero detto che gli italiani si sarebbero rubati i telefonini, poi -il che è ancora più graveavrebbero detto che erano cose pericolose e perciò non devono farle i cittadini, "a Centrai Park mandiamoci l'esercito", perché in Italia per qualunque emergenza si manda l'esercito, il cittadino non deve occuparsene, "è pericoloso". Se non cambia questa cultura pubblica non ce la facciamo in Italia, secondo me. E' una cultura pubblica che viene da lontano, dal ventennio fa. scista o è frutto del secondo dopoguerra? Qui c'è una grossa discussione. Alcuni dicono che in Italia non è mai nato un senso di cittadinanza legato ali' identità nazionale, alla democrazia come modo di essere comune al di là delle differenze. Certamente, hanno pesato vari fattori. Ad esempio, il fatto che in Italia non ci sia stata democrazia finoa50anni fa; il fatto che lo Stato italiano non abbia costituito, per le crisi che ha attraversato nel '900 (il ventennio, la guerra civile, la resistenza) una fonte di identità comune; iI fatto che per la presenza di un forte partito comunista e per laguerra fredda l'identità dei cittadini si sia costruita più attraverso i partiti che autonomamente. Tutto questo è vero, come è vero che le centrali che tradizionalmente favoriscono l'emergere di un senso comune di cittadinanza (la scuola, il servizio militare) non hanno mai funzionato in questo senso. E' una cosa che parte da lontano ma di certo quel che è successo negli ultimi 50 anni non ha aiutato da questo punto di vista. le risorse umane sono rimaste fuori dalla politica La verità è che i cittadini hanno cominciato. dalla fine degli anni '60 in poi, a costruirsela da soli questa identità, malgrado, e spesso contro, le leadership di questo paese, che preferivano continuare a ritenersi gli educatori delle masse, i tutori dei cittadini. Il mondo del terzo settore può esprimere una parte della nuova classe dirigente? Penso di sì. In Italia abbiamo avuto 15 anni di dominio partitocratico, di regime che consisteva nel fatto che le oligarchie di partito, non avendo più un rapporto vitale con una società divenuta sempre più complessa, hanno reagito chiudendosi e legittimandosi reciprocamente, magari sulla base del denaro, vedi Tangentopoli. La conseguen-

le tera a Sa ajevo za è stata che tutte le risorse umane che in una situazione normale sarebbero entrale nel ciclo della politica ufficiale e che avrebbero portato a mutamenti di personale e di linguaggio indispensabili, in Italia ne sono rimaste fuori. Così ora te le ritrovi nelle organizzazioni dei cittadini. nella pubblica amministrazione. nei piccoli comuni. nel mondo delle professioni e della piccola impresa legata all'area dei servizi, ma non nel mondo politico. Questo è un grosso problema proprio in vista della costituzione di una nuova classe dirigente, perché, mentre è evidente che, se una nuova classe dirigente verrà fuori, non potrà che essere costruita utilizzando le risorse presenti nel mondo della cittadinanza attiva. che questo avvenga non è sicuro in quanto questo blocco non è stato ancora superato. lo sono convinto che da lì verrà un rinnovamento vero, duraturo per la vita del paese, ma non è una cosa facile e non basta dire: "vi offriamo dei posti nelle liste". lo non sono convinto, tra l'altro, che lo sbocco inevitabile sia quello elettorale, ci sono delle necessità di governo del nostro paese che si realizzano fuori dello schema elettorale. solidarietùchesirisolvonoquesti our•LCUNO DI NOI sopa••n11•111!&A' problemi, ma è cambiando la real- .. ... " " J " aii ... tà, per evitare che queste cose si ~~:~~~ 0 ~erciò.chesiaunagrossa CERTAMENTEA, LUI DOVRETE semplificazione questa dei "volon- s ·o tariebasta".Edoltretullocreade- CHIEDERE COME ABBlr•Mo .,, su. I gli impicci pratici: c·è la legge sul .. "j Spesso si identifica il terzo settore con il mondo del volontariato. E' un'immagine distorta o c'è qualcosa di vero? E' un'immagine distorta se con questa parola viene identificato tutto questo mondo ed è una parola volontariato. che stabi Iisce nei suoi primi articoli che un· organizzazione di volontariato è quella in cui i soci lavorano gratuitamente e in cui una quota di lavoro dipendente necessario deve essere retribuito, ma non deve essere lavoro dei soci. Pensiamo alle comunità per tossicodipendenti che funzionano grazie alla presenza degli operatori per 12 ore al giorno, perché il rapporto che si instaura è tale che ci deve essere questa presenza fisica. "dovunque ma non sotto casa mia" Il paradosso è che chi fa questo servizio dovrebbe, dopo 12 ore, tornare a casa e lavorare per guadagnarsi la vita, mentre la segretaria che risponde al telefono e batte a macchina le lettere può essere retribuita. C'è qualcosa che non va in tutto questo, esattamente questa mania di voler racchiudere in norme rigide una realtà in così grande evoluzione come questa. Un comitato di quartiere che lotta contro la presenza di viados o di zingari nelle proprie strade, è anch'esso un fenomeno di cittadinanza attiva? Certo. La cittadinanza attiva non ha alcuna accezione di valore: è la capacità dei cittadini di attivarsi aùtonomamente rispetto alle centrali ufficiali di potere, politiche, sindacali o ecclesiali -non è che i vescovi quando danno delle indicazioni vengano ascoltati più di quanto siano ascoltati i partiti o i sindacati, ormai non convincono più nessuno. Questa capacità autoorganizzativa dei cittadini può essere impiegata anche per cose orribili. Bisogna però aggiungere che in molti casi quelle cose orribili non lo sarebbero se prendessero un altro corso; se ho sotto casa un accampamento di zingari senza le fogne, senz'acqua, in cui le condizioni igieniche sono pazzesche, se nessuno fa niente per gestire questa situazione con umanità e razionalità, ho delle ragioni per rivoltarmi. Così le rivolte contro le discariche, di cui è piena l'Italia, sono spesso espressione di egoismo, "dovunque, ma non sotto casa mia", o della mancata consapevolezza che uno si deve beccare anche i rifiuti che che alla fine è diventata tranquilliz- produce, però è anche vero che se si zante per i poteri costituiti: "dopo va a vedere caso per caso si vedrà tutto sono volontari, non sono in che queste discariche dovrebbero competizione con noi". essere messe, secondo le decisioni E' vero, comunque, che una parte delle amministrazioni, che so, sodi questo mondo opera sulla base pra una falda acquifera oppure sodell'idea di rendere un servizio, di pra un frana, quindi non è che quefarlo in modo gratuito e quindi la ste proteste siano sempre senza parola "volontario" ci sta bene. C'è ragioni. Lo stesso accade con le però un'altra parte, più grande, proteste contro la chiusura degli magari meno visibile, del fenome- ospedali, -in Italia ce ne sono tropno della cittadinanza attiva che ri- pi, costano troppo, molti sono obsponde a motivazioni, se voglia- soleti-, che in molti casi sono cammo, meno nobili, più legate all'in- panilistiche, però quando si va a teresse personale, o collettivo di vedere si scopre che la regione vuol una comunità locale. Quando c'è chiudere un ospedale che funziona una frana sopra casa mia, che non e tenerne aperto uno che non funviene accomodata per vent'anni, è ziona, perché si trova nella città mio interesse occuparmi della pre- dov'è stato eletto l'assessore alla venzione di questo rischio, perché Sanità e quindi non si chiude, altririguarda me, i miei figli, i miei menti l'assessore non prende più i vicini, per cui alla fine capisco che voti. Ci sono anche questi elementi devo occuparmi del sistema di pro- da ricordare, non per sostenere che tezione civile del mio comune. E' i cittadini siano più buoni di quel egoismo, è altruismo? lo penso che che si pensa, ma per dire che la sia un sano, intelligente egoismo politica dovrebbe intervenire in che capisce come la soddisfazione questo tipodi fenomeni. Noi abbiadi interessi seppure legittimi, ma mo sperimentato tante volte che personali, sia collegata alla tutela quando si mettono attorno a un del!' interesse generale. Oppure tavolo a discutere i nomadi e gli penso alla gente che in questi anni abitanti del quartiere che li ospita, ha deciso di impegnarsi nel Tribu- magari litigano, però si spiegano, nate dei diritti del malato, perché si informano reciprocamente, si aveva sperimentato, direttamente chiariscono i problemi e di solito o indirettamente, il potere disuma- convivono meglio. Così per le dinizzante della struttura ospedali e- scariche, quando le amministraziora: venivano da noi e dicevano di ni accettano di discutere con i cittavolersi impegnare non per vendet- dini che protestano il dissenso vieta, ma perché altri non avessero a ne gestito in modo più produttivo. soffrire come loro avevano soffer- C'è molta assenza, omissione di to. Questa frase, che abbiamo sen- politica, di capacità ad organizzare tita tante volte come se si fosse e gestire i conflitti in modo da protrasmessa, esprime un certo spirito durre sviluppo, all'origine di fenoaltruistico, ma anche l'idea che non meni nega11v1come i comitati anti- Bi001flOese°C80 cG Indoo asrain COSiamo già nel pieno del quarto anno. Non mi sento uno che festeggia, né sono in cerca di auguri, tuttavia voglio riassumere alcune cose, e se devo scegliere, dalla mia incredibile collezione, quello che più mi ha colpito, mi sorprendo perché non è il massacro al mercato, o quello della prima fila per il pane, in via Miskina, nemmeno la strage della scolaresca uccisa a scuola con la maestra. No, è un'immagine bizzarra dell'aprile '92, quando è iniziata la guerra. Si tratta di una trasmissione della tv di Sarajevo, che ha fatto il giro del mondo: in quei giorni Sarajevo regnava in tutti i notiziari. I disordini in città erano già cominciati, i cecchini serbi, appostati sull'Holiday lnn, avevano sparato sui civili disarmati, cosa fino ad allora inimmaginabile. Hanno ucciso i primi sarajevesi, allora erano ancora così pochi che di loro si sapeva persino nome e cognome, la morte era ancora un evento straordinario. Dopo, i morti sono diventati un numero. Poi sono cominciate le prime rapine ai negozi. Ecco l'immagine che ho scelto, fra quelle della guerra. Una telecamera nascosta in un appartamento segue una rapina in un negozio specializzato di koka, di pollo, della catena di negozi Varazdin. Si direbbe: una rapina, niente di speciale, per quei giorni; però questa è stata qualcosa di diverso. Prima qualcuno ha rotto il vetro, prendendo ciò che gli serviva, poi la valanga dei passanti, che come avvoltoi si buttavano sui polli congelati, ha fatto il resto (d'altra parte, quando le regole non valgono più, non c'è ordine e la legge non funziona, si passa, come a Sarajevo ora, dalla civilizzazione alla pre-civilità, inevitabilmente~. Tra i passanti che si affollano davanti alla porta rotta, la telecamera segue un disgraziato con l'ombrello, fermo davanti alla porta. Incomincia la lotta, comica, con l'ombrello che rifiuta di chiudersi. Infine, preso dal panico al pensiero che gli altri hanno le mani libere e portano via tutto il bottino, il nostro eroe entra nel negozio con l'ombrello aperto e si perde tra gli scaffali. Il commento del telecronista era indignato, il giorno dopo in tutta Sarajevo si rideva: l'unico episodio buffo nella valanga di sfortuna rotolata su Sarajevo. Eppure, oggi mi ricordo con tristezza di questa immagine: forse il disgraziato con l'ombrello è il prototipo del nuovo sarajevese, comico nella sua tragedia, costretto a rinunciare alla propra dignità per sopravvivere. Se la disgrazia si prolunga, come nel nostro caso, allora insistere sulla dignità diventa maleducazione. Perché scegliere, quasi inconsciamente, un'immagine in fondo innocente, quasi a cancellare il male successo dopo? Ecco una domanda senza risposta. Poi sono cominciati i bombardamenti che hanno coinvolto tutti, è seguito l'orrore che tutti vorremmo dimenticare, se potessimo. Alla fine di aprile si sono compiuti tre anni di assedio di Sarajevo, un progetto di strangolamento della città che dura da 1200 giorni, un progetto che sembra non avere fine, che è riuscito a soffocare la città al limite della sopportazione. E noi, oggi, siamo al limite della sopportazione. Vista dal di fuori, Sarajevo "città che resiste", fa tenerezza. Dall'interno, l'immagine di Sarajevo è molto più tetra: la città sta per morire e sempre meno sono i cittadini che riescono a sognare, ad avere ideali. Quella che per altri è una magnifica resistenza, per noi è un peso terribile. Le parole, le idee più odiate oggi a Sarajevo sono: resistenza eroica, vita insieme, cultura, spirito di Sarajevo, multiculturale, multiconfessionale, multireligioso, Bosnia Erzegovina, Europa, comunità internazionale, giustizia, pace, tolleranza. Non hanno più significato né magia in questa città. Sono altre adesso le parole magiche: gas, acqua, luce, riso, lenticchie, cecchino, scatola, sigaretta, detonazione, fica, cetnik, mare, Onu, Consiglio di sicurezza, America, Canada, Australia, tunnel, morte. La classifica è strettamente legata alla situazione politica. Tutto ciò in cui avevamo tanta fiducia e speranza nel 1992, oggi non lo sopportiamo più: è sempre doloroso scontrarsi con le proprie delusioni. Qualche stima tenuta accuratamente nascosta calcola che dei sarajevesi di prima della guerra solo il 27% sia rimasto oggi in città. E' difficile controllare questi dati, ma è abbastanza facile convincersi che siano veri e doloroso accorgersi del pericolo che vi è celato. Sarajevo è oggi la somma dei disgraziati profughi della Bosnia orientale, dell'Erzegovina, del Sandzak, della Krajina più quel 27 % originari, sempre più marginalizzati, sempre più spaventati. Gli altri, il 73 %, sono sparsi nel pianeta: Croazia, Nuova Zelanda, Australia, Canada, America, Svezia, Norvegia, Pakistan, Turchia, Germania ... In città, occasionali segni d'intolleranza s'accendono, molto raramente, tra i "vecchi" e i "nuovi arrivati". Una delle occasioni è nei tramvai. Karadzic e Koljevic hanno distrutto metà dei mezzi pubblici, così adesso la decina rimasta non è sufficiente per trasportare una cittadinanza appiedata. Quando il tramvai si riempie c'è sempre qualcuno cui viene pestato un piede e che accusa il resto del tramvai di essere "provinciale, contadino". La Sarajevo più bella sembra vivere solo nei ricordi della gente che l'ha lasciata. Il popolo disperso cerca di conservare il ricordo del mondo di ieri. A Sarajevo arrivano le lettere piene di lacrime, patetiche, della gente che considera la sofferenza della lontananza più grande della sofferenza reale nella città. Nelle loro lettere Sarajevo diventa una città modello, diventa la città che non è mai stata. Questo fa star male chi è rimasto e conosce meglio di tutti i difetti della città in cui è imprigionato. In contrasto con la Sarajevo dei ricordi c'è l'altra Sarajevo, quella della realtà. Ancora cadono granate. Il suono delle granate che s'avvicinano è un'esperienza che porta male. "Per nessuno dovrà ripetersi", dicevano i Sarajevesi nel 1992, non pensando che si sarebbe ripetuto per loro. C'è una cosa peggiore dell'esperienza del bombardamento: l'esperienza del bombardamento ripetuto. Non esiste resistenza, non c'è abitudine, prende forma la sensazione di un orrore maggiore. Nel 1995 la gente fa più fatica di prima a sopportare le esplosioni perché conosce bene l'orrore che producono. I serbi di Pale sfogano la loro passione per i bombardamenti in modo intelligente. Come i drogati, conoscono bene qual è la dose da non superare, sanno bene qual è la quantità sopportabile dalla comunità internazionale: dalle quattro alle dieci granate, all'improvviso, quattro morti, diecidodici feriti. E' la norma e nessuno si agiterà più di tanto. Non lo farà il generale Smith, che ha avuto una sessantina di occasioni per chiedere l'intervento degli aerei della Nato per colpire le postazioni intorno alla città, ma ha resistito alla tentazione ... Ma se i bosniaci si muovono per liberare Sarajevo, allora il generale Smith, il generale Rose reagiranno in un lampo. li loro scopo non è applicare le risoluzioni dell'Onu e proteggere Sarajevo, il loro compito è proteggere gli interessi del loro paese, che oggi sono definiti senza ombra di dubbio: Serbia fino a Grbavica ad ovest e fino all'Adriatico a sud. Ma questa è la sfera più alta delle contemplazioni. I sarajevesi hanno perso interesse per questo molto tempo fa. I nostri problemi sono molto più terra terra di quanto ci si possa aspettare da chi "offre un'eroica resistenza all'aggressione". Di tutti i segreti a noi interessa questo: come prevedere quando e dove cadrà la prossima granata? Ai primi di aprile le schegge di una granata hanno ucciso nel centro della città Maja Djokic, diciotto anni. Dire che Maja era serba sarebbe maleducato se non ci fosse il resto della storia. Perché a Pale non si sono accontentati di averla uccisa, ma il giorno dopo in tv hanno trasmesso un servizio di dieci minuti sulla "ragazza serba assassinata dai mussulmani". L'uso della propaganda è senza scrupoli e non si sono vergognati di dire che Maja tentava di fuggire per rifugiarsi a Grbavica, ma è stata catturata, torturata e violentata dai soldati di lzetbegovic, assetati di sangue e che odiano tutto ciò che è serbo. Poi, questi soldati hanno sparato una granata sulla città e infine hanno messo il corpo di Maja nel luogo dell'esplosione. Provate a guardare questo episodio con gli occhi di quegli sfortunati genitori, il cui dolore dopo la morte era già estremo ed oggi, dopo il massacro televisivo, è insopportabile, senza paragoni. Il disgusto provocato dall'uso dei mass media da parte di Pale in questo episodio ha indignato lo stesso portavoce dell'Unprofor Alexander lvanko, che è sobbalzato dalla sua posizione neutrale, si è scandalizzato e poi è ritornato nella sua benedetta neutralità. Tutte queste storie sono ferite nell'anima tormentata di Sarajevo. Questa di Maja è emotivamente insopportabile, ma è dall'inizio della guerra che altri ci raccontano la verità, ci informano e ci spiegano cosa ci sta succedendo e a noi tocca solo la condanna di ascoltare e di subire. Non ci succede da ieri, ma dal 1992, da quando c'è stato questo dialogo fra un uomo che telefona da Belgrado e sgrida la sorella perché non è scappata da Sarajevo. -E perché devo lasciare la città? Starò qui con gli altri e quello che accadrà loro accadrà a me. -Sei normale? Lo sai che lì accoltellano i serbi? -Ma non è vero, nessuno mi ha toccata. Tutta la notte sto con i miei vicini, facciamo la guardia al condominio, beviamo il caffé, chiacchieriamo. Nessuno mi ha neppure guardata male, altro che accoltellarmi! -Sei una stupida! Cosa ne sai tu se ti accoltellano o no. Karadzic l'ha detto in tv che lì ti accoltellano. I sarajevesi in questi 1200 giorni hanno passato diversi stati emotivi, il più profondo è stato quello dell'attesa, attesa di una liberazione che non è mai arrivata. Il risultato è che l'attesa è ancora lo stato dominante, ma non si attende più la liberazione, né un accordo di pace che è così lontano da non poterlo neppure indovinare per caso. Si aspetta il prossimo massacro, il prossimo mercato Markale, la prossima fila del pane o dell'acqua. Lo sappiamo e non possiamo evitarlo. Le autorità lo sentono e hanno imposto le norme di sicurezza più rigide, siamo in una condizione di allarme generale permanente: il mercato Markale è stato chiuso, sono vietate le manifestazioni pubbliche, l'allarme suona spessissimo, la via principale è chiusa al traffico e là adesso muoiono solo i soldati francesi. Eppure le strade sono piene di gente, perché in questa perversa realtà è come un codice d'onore dimostrare di non avere paura. Si ritiene che il test più difficile di civiltà sia vedere quante differenze un ambiente è in grado di a_ccettare. Sarajevo, la città che è cresciuta sulle differenze, è in grado di sopportarle dopo tutto quello che è successo? Supererebbe il test di civiltà? La risposta è affermativa. Il fatto che ai serbi della città non sia accaduta una Banja Luka, né ai croati una Mostar est qualcosa vorrà dire. Una risposta la danno anche le feste religiose, che in questa città sono più numerose di quanto un organismo affamato possa sopportare. Esistono feste che ormai sono multiconfessionali perché tutti le festeggiano e anzi i più rumorosi e allegri sono gli atei. Anche quest'anno, s'è cominciato con il Natale cattolico, in una situazione idilliaca: tutto bianco di neve, senza traffico, senza smog, con le strade piene di gente invece che di auto. I caffé erano pieni, il profumo di marijuana di ottima qualità coltivata sulle terrazze predominava sugli altri odori. Diverso è stato il Natale ortodosso, perché i serbi di Trebevic lo festeggiano sparando granate sulla città e allora si raddoppiano le misure di cautela individuale, si esce meno volentieri, domina la paura. Ci siamo rifatti in marzo con Bajram, la più grande festa mussulmana. Come per il Natale, chi l'ha atteso l'ha fatto in segno di ritorno alla fede, di commiserazione e ricordo di una disgrazia comune. Per tutti, credenti e non, è stata l'occasione eccezionale per dimenticare in quale città vivono e concedersi una fuga collettiva dalla realtà. Tutte queste immagini restano, ma stanno perdehdo di significato, perché Sarajevo è una città che sta svuotandosi in fretta. Il suo contenuto più importante, la sua essenza-la gente che vi viveva prima della guerra- va via per sempre. E' un processo doloroso e sempre più attuale, più delle granate. Sarajevo grida per la gente, ma loro vanno via. La città non è mai stata cosl bella come adesso, così ferita e indifesa, e mai come adesso avrebbe avuto bisogno della sua gente. Andare o rimanere, questo è il dilemma più drammatico di ogni sarajevese che è ancora in città. Non puoi fermarti con uno per la strada che il discorso non cada su come scappare, su dove andare. C'è sempre qualcuno che conosce un posto in Canada dove lavare i piatti per otto ore al giorno ed essere più felice di quanto sia mai stato a Sarajevo negli ultimi tre anni. E alla fine morirà con la nostalgia del suo paese. -E' meglio lavare i piatti là, che essere un signore qua!- Sono state le ultime parole di un amico che in febbraio mi ha salutato. Dopo di lui ne ho salutati altri due. Poche parole. Ci siamo salutati in silenzio, perché abbiamo capito che è l'unico modo di salutarsi con dignità. Forse una parolaccia all'ultimo secondo, come ricordo dei vecchi tempi e segno della passata intimità. -Ma sl, vaffanculo, ne ho abbastanza di te qui!- Chissà, forse Sarajevo è la città stregata dove sbagliano quelli che combattono per il proprio diritto di rimanere e di fronte agli altri si vergognano della propria scelta. - UNA CITTA' 5

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