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Nicola ChiaromonteViolenza e non violenzaTratto da «Tempo Presente», agosto 1968
Anche in Nicola Chiaromonte, La rivolta conformista. Scritti sui giovani e il 68, a cura di Cesare Panizza, Una città, 2009
Non è arbitrario far risalire l’impulso decisivo che condusse Tolstoi a fare del principio di «non resistenza al male» il fulcro del messaggio cristiano al I° marzo 1881, giorno in cui un gruppo di giovani terroristi fra i quali due donne, Sofia Perovskaia e Vera Figner, eseguirono la sentenza di morte pronunciata dal Comitato esecutivo della Narodnaia Volia contro lo zar Alessandro II.
Ciò che colpì Tolstoi nell’atto di quei giovani fu l’astrattezza del motivo: «Un assassinio di teorici, perpetrato senza odio, senza necessità reale, solo perché giusto in teoria...». Come si sa, Tolstoi rimase molti giorni sconvolto da quell’evento: pensava alle sue conseguenze politiche, ma soprattutto alla sorte che attendeva i giustizieri, e in particolare Sofia Perovskaia. Scrisse un appello al nuovo zar, Alessandro III, in cui lo supplicava: «Date al mondo il più grande esempio di sottomissione alla dottrina di Cristo: rendete bene per male...». La supplica fu fatta consegnare al procuratore del Santo Sinodo, Pobiedonesev, perché la rimettesse d’urgenza allo zar. Il procuratore la trattenne finché le sentenze di morte contro cinque degli imputati, compresa la Perovskaia, non furono eseguite, e poi la fece restituire allo scrittore senza neppure averla mostrata allo zar.
Tra l’astratta giustizia dei rivoluzionari e la bieca cecità del potere, che fare?
«Voi avete udito che fu detto: occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico: Non resistete al male; anzi, se alcuno ti percuote la guancia destra, volgigli anche l’altra. E se alcuno vuol contender teco, e toglierti la tunica, lasciagli anche il mantello... Voi avete udito che fu detto: Ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi maledicono, fate del bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che vi fanno torto e vi perseguitano. Giacché siete figli del Padre vostro che è nei cieli, ed egli fa levare il suo sole sopra i buoni e sopra i malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti»: queste le parole del Sermone della Montagna sulle quali Tolstoi non cessò d’insistere dal 1881 fino alla morte, rifiutandosi di recedere anche minimamente, anzi ragionandole con sempre maggiore fermezza.
Nel 1908, l’interpretazione tolstoiana delle parole di Cristo raggiunse, attraverso una lettera di Tolstoi al direttore della rivista indiana Free Hindustan, l’avvocato Mohandas Karamciand Gandhi, allora impegnato nella difesa dei diritti degli immigrati indiani nel Transvaal. L’anno dopo, Gandhi scrisse a Tolstoi per dirgli quale profonda impressione gli avesse fatto il suo scritto e come l’avesse trovato d’accordo sul principio della «non violenza». L’incontro fra il messaggio di Tolstoi e la vocazione di Gandhi ebbe conseguenze non piccole. A parte l’azione propriamente politica che ne derivò, Gandhi ripensò a fondo, in termini propri alla tradizione indiana, il principio tolstoiano. Come si sa, nella sua predicazione, la «non violenza» divenne il satyagraha o «forza della verità».
Si potrebbe dunque dire che, per forti, anzi travolgenti che siano state nel corso del ventesimo secolo le tendenze contrarie, e anzi la vera e propria ripugnanza mostrata anche (se non soprattutto) dalla classe intellettuale per il principio della «non violenza», questo ha tuttavia avuto un’influenza tale che merita ampiamente di esser chiamata «storica», secondo il linguaggio culturale tuttora prevalente. Ciò senza parlare dei grandi predecessori, da Lao Tse al Budda alle molte sette cristiane, fino agli americani William Lloyd Garrison e David Henri Thoreau e oltre.
Insomma, l’idea che c’è qualcosa di assurdo nel voler combattere la violenza con la violenza, cioè la sopraffazione con la sopraffazione, per ottenere la libertà e la giustizia, è perlomeno altrettanto antica quanto il fatto stesso della violenza organizzata. Però, la verità è che il principio che Tolstoi credette di derivare dal Vangelo e chiamò «non resistenza al male», facendone un principio risolutivo di azione morale e sociale, è stato generalmente deriso come inefficace se non stolto (in quanto non farebbe che lasciar libero il campo alla malvagità dei malvagi) e sostanzialmente negativo (perché non potrebbe costituire né uno scopo né un ideale) sin da quando lo scrittore lo proclamò. Il fatto che Gandhi lo riprendesse con successo e lo portasse al trionfo, ottenendo alla fine lo scopo che si era prefisso, ossia la liberazione dell’India, non sembra convincente, dato che il trionfo dell’azione di Gandhi per la libertà del suo Paese significa non già il trionfo della non violenza, ma piuttosto la costituzione di uno Stato indipendente analogo agli Stati della società occidentale, dei quali Tolstoi aveva detto, senza che nessuno potesse smentirlo in sede di ragione, che erano «fondati sull’assassinio», ossia sulla repressione violenta dei propri sudditi all’interno, e sulla distruzione violenta dei rivali all’esterno. Senza parlare degli orrendi massacri cui procedettero senza tardare, appena proclamata l’indipendenza, i musulmani contro gli indù e gli indù contro i musulmani, in uno scoppio di fanatismo collettivo di cui Gandhi stesso cadde vittima; com’era, per chi consideri la follia intrinseca della cosiddetta Storia, degno destino di quel giusto.
L’ idea della «non violenza» conserva tuttavia qualche prestigio fra i gruppi di dissidenti che hanno cercato e cercano di applicarla, in forma di metodo d’azione non violenta alla lotta per il miglioramento della condizione dell’uomo nella società contemporanea, la quale è erosa non soltanto dal razzismo e da simili forme di oppressione brutale, ma da quel male anche più nefasto che è l’indifferenza al proprio destino e quindi, a maggior ragione, a quello delle minoranze (o maggioranze) reiette che vivono nel suo seno.
Questi movimenti, anche se son stati guardati con simpatia (come quello guidato da Martin Luther King), son rimasti tuttavia marginali: alla fine, sotto la pressione se non della violenza, dell’inerzia sociale, tendono a esaurirsi e, anche se non si esauriscono, vengono oscurati e almeno apparentemente sommersi da movimenti violenti i quali mirano a ottenere risultati tangibili nel minor tempo possibile; e in apparenza anche li ottengono, se non altro con la minaccia di esplosioni sempre più furiose e devastatrici che fanno pesare sulla società. Oggi come oggi, nel campo dei «rivoluzionari» (che è quello al quale si rivolgeva in special modo Tolstoi), la violenza è più che mai in onore, più che mai idealizzata. «Senza violenza, non si ottiene nulla» ha proclamato il capo degli studenti parigini in rivolta, Daniel Cohn-Bendit. Screditate le ideologie macchinose che tenevano il campo fino a pochi anni fa, l’idea della guerriglia, di origine cinese e vietnamita, e ulteriormente teorizzata da Ernesto Che Guevara e dal suo seguace Régis Debray, è quella che sembra affascinare i giovani ribelli europei. E, così com’è concepita attualmente, l’idea della guerriglia quale punto di partenza di ogni azione rivoluzionaria si riduce veramente all’esaltazione della violenza come un bene assoluto, e perdipiù assolutamente efficace, nella lotta contro il male capitalista. O meglio, la questione del male e del bene neppure si pone: si tratta di agire nel modo più risoluto e immediato possibile contro l’ingiustizia. Non per nulla, Ernesto Che Guevara, eroe e martire di quest’idea, ha potuto lasciar scritto: «In qualunque luogo ci sorprenda la morte, sia benvenuta, a condizione che questo nostro grido di guerra sia giunto a un orecchio ricettivo e che un’altra mano si levi per impugnare le nostre armi e gli uomini si apprestino a intonare i canti di lutto con il crepitare delle mitragliatrici e nuovi gridi di guerra e di vittoria».
In parole come queste si esprime un romanticismo della violenza che, quale che sia il rispetto che si deve avere per un uomo che ha testimoniato della sua convinzione sacrificando la vita, non può non suonare antiquato e sinistro al tempo stesso. Certo, esso non sarebbe stato condiviso dagli uccisori di Alessandro II, i quali concepivano la «lotta sanguinosa» come una «triste necessità» e per i quali -come si legge nelle memorie di Vera Figner- l’uccisione di un uomo, per tiranno che fosse, rimaneva tutta la vita un peso soffocante sulla coscienza.
Ma è qui il paradosso: la questione della violenza è in apparenza priva di contenuto, giacché la maggioranza delle persone diranno senz’altro che la violenza è certo deprecabile, ma talvolta necessaria, e crederanno con questo di aver parlato secondo il senso comune più irrefutabile. Ma, appunto, quest’atteggiamento dei più dimostra il contrario di quel che sembra dimostrare: dimostra, cioè, che la violenza, quali che ne siano le circostanze, non comporta, anzi non tollera, giustificazioni. Essa può scaturire da una situazione violenta, o di violenza accumulata e repressa, ma rimane sempre un fatto, non diventa mai un mezzo, per quanto ne dicano i suoi apologeti. Giacché nel momento in cui si parla di mezzo, bisogna anche discutere il fine, e che allora il mezzo appaia in qualche modo commisurato al fine. Ora, il solo fine chiaro della violenza è l’eliminazione fisica del nemico. Ma come si misurerà il male causato da ogni parte per ottenere un fine che da ultimo si rivela puramente fisico? Dov’è, qui, il contrappasso morale senza di cui un’azione umana rimane al di fuori di ogni possibilità di giudizio, quasi un fatto di natura o un «atto di Dio»?
Tale, seriamente parlando, sembra rimanere la violenza, sia considerata in sé e per sé, sia nella forma attuale di azione efficacemente organizzata a fine di distruzione sanguinosa. Ed è per questo -perché intendeva essere azione giusta e non semplicemente scoppio furioso- che a Tolstoi l’uccisione di Alessandro II apparve come «un assassinio di teorici»: una specie di contraddizione in termini, ma più enigmatica che assurda. Non si poteva condannarla o approvarla, solo rimanerne sbigottiti e cercar di capire.
Ci sono nell’uomo fatti più enigmatici della violenza, la quale anzi è uno dei moti più elementari e relativamente più comprensibili: enigmatiche sono le vie dell’amore e quelle dell’odio, la brama di possesso e di dominio, l’ambizione, il tradimento, il gusto del male. Queste sono passioni, e ognuno ammette che la ragione non vi ha parte. Mentre la violenza giustiziera ha questo di particolare, che si vuole razionale sia nei mezzi che nei fini. Nelle forme di violenza che si sentono teorizzare e esaltare oggi, che si tratti del «potere nero», della guerriglia in America Latina o persino del «potere studentesco», c’è poi un’assurdità supplementare: qui, infatti, la violenza viene considerata come l’inizio e l’origine di un atto di giustizia, l’incarnazione attiva di una volontà di riscatto che si rifiuta addirittura di dar conto delle sue operazioni perché si considera semplicemente ideologia in atto, libera finalmente da ogni scolastica e da ogni burocrazia organizzativa.
A questo punto, la violenza assume in pieno il carattere inconcepibile di «assassinio teorico» che sbigottiva Tolstoi, e sfugge a ogni argomento. Eppure, essa non può mai affermarsi fine a se stessa. Anzi, più terribili sono le forme che essa prende, più idealistica (nel senso di omaggio ipocrita al mondo delle idee) è la giustificazione che se ne deve dare.
Qual è, d’altra parte, il punto di vista dal quale la violenza può esser condannata senza che la condanna cada nel vuoto e nel risibile, dato che si tratta di un fatto che sfugge per natura a ogni presa della ragione?
Se continuiamo a seguire le tracce di Tolstoi, vediamo subito che tutta la sua argomentazione contro la violenza e in favore della «non resistenza» si basa sul postulato evangelico che impone di amare non solo il prossimo, ma anche i propri nemici. La parola di Cristo è l’autorità su cui si fonda esplicitamente la predicazione tolstoiana. La quale non si limita -notarlo è importante- a raccomandare l’insegnamento di Cristo come esemplare, ma ne deriva la «non resistenza» come norma d’azione pratica più efficace della violenza (anche se per vie diverse e a più lunga scadenza) ai fini di stabilire una società più giusta. In altri termini, Tolstoi faceva della «non resistenza» un imperativo di carattere universale applicabile non solo da pochi credenti, ma da qualunque individuo volesse comportarsi da vero cristiano, che per lui era sinonimo di vero uomo. Dopo di lui, Gandhi farà dello stesso imperativo un principio praticabile da grandi masse di popolo, e al quale perciò alla lunga nessun potere avrebbe potuto resistere, proprio come, secondo Marx e secondo Lenin, nessun potere avrebbe potuto resistere all’urto finale delle masse organizzate.
È su questo punto cruciale che verte la questione della violenza, oggi. Giacché, evidentemente, l’obiezione secondo la quale opporre il metodo dell’assassinio a un mondo fondato sull’assassinio è una contraddizione in termini, per quanto logicamente giusta, non tocca la questione principale, la quale è quella dell’efficacia, della praticabilità, del valore universale del principio della «non violenza».
Il principio su cui Tolstoi fondava il suo messaggio di «non resistenza al male» si trova espresso con grande semplicità fra gli altri testi in quello che toccò così profondamente l’animo di Gandhi: la «Lettera a un indiano». Si legge in questa, insieme ad argomenti di tolstoiana semplicità e forza, un passo in cui la difficoltà -per non dire la debolezza- principale del ragionamento di Tolstoi si manifesta, per così dire, allo stato puro: «La verità, naturale all’umanità, secondo la quale la vita umana dovrebbe esser guidata dalla sorgente spirituale che è il fondamento dell’umana esistenza e si manifestò nell’amore, per poter permeare la coscienza dell’uomo si è trovata a dover lottare con l’incompletezza della sua espressione e le distorsioni volute o involontarie di essa, come pure con la violenza istituzionale che costringe, mediante punizioni e persecuzioni, ad accettare le spiegazioni della legge religiosa sancite dall’autorità, e la quale contrasta con la verità rivelata. Tale distorsione e tale offuscamento della nuova, ma ancora imperfettamente rivelata, verità, si è verificata dovunque: nel confucianesimo, nel taoismo, nel buddismo, nel cristianesimo, nell’islamismo, come pure nel bramanesimo di cui voi siete seguace».
Si sono sottolineate, in questa citazione, le parole «naturale all’umanità», che non sono sottolineate nel testo, lasciando invece non sottolineata la frase che segue, sottolineata dallo scrittore, al fine di far risaltare la petizione di principio evidente che il passo contiene: è insomma l’umanità stessa che, secondo Tolstoi, ha, per umana perfidia da una parte e debolezza dall’altra, lasciato distorcere e offuscare la verità più naturale di tutte, fondamento di ogni altra, che sarebbe la legge dell’amore.
Dato che Tolstoi annette grande importanza al fatto che la legge dell’amore si ritrova in tutte le tradizioni religiose, ma unita sempre al fatto, pure da lui notato, che fin dal principio della storia conosciuta gli uomini hanno vissuto divisi in tribù e nazioni, discordi e rivali tra loro, e in seno alle quali la forza di coercizione di una minoranza s’imponeva alla gran maggioranza degli individui, egli stesso autorizza a concludere che non v’è ragione di sperare o anche pensare che la «non resistenza al male», corollario di quella legge dell’amore per tanto tempo così efficacemente (e bisognerebbe aggiungere: naturalmente) pervertita, non subirebbe la stessa sorte.
E allora? Da dove verrà la fiducia in un metodo d’azione così paradossale come quello proposto da Tolstoi? Forse dalla fiducia nel progresso morale dell’umanità più che dal messaggio cristiano esso stesso; nella sostanza del quale, tuttavia, Tolstoi certamente credeva, il sentimento d’amore per il prossimo essendo considerato da lui fin dai primi scritti come segno e sinonimo di gioia traboccante. Giacché, mentre l’orgoglio dell’uomo moderno per il progresso materiale non trovava in lui altra risposta che il più sprezzante sarcasmo, gli rimaneva certo tenacemente ancorata nell’animo la fiducia nella possibilità di un progresso morale se non unanime, però almeno generale, dell’umanità. E questa gli veniva, sì, dal sentimento cristiano della vita, ma forse ancor più dalla philosophie des lumieres di cui era profondamente impregnata la sua mente. In questo senso, la «non resistenza» si potrebbe considerare la risposta razionale al fatto irrazionale della violenza organizzata, e a quello ancora più irrazionale e contraddittorio della violenza sistematica concepita come mezzo di stabilire sulla terra il regno di una giustizia concreta.
Tuttavia, se il progresso materiale, fondato sulla scienza e sulla tecnica, appare poca cosa quando lo si confronta al vero problema, che è quello di un mutamento stabile per il meglio della disposizione di intere masse d’individui, i suoi effetti, per quanto grossolani li si giudichi, hanno almeno il vantaggio di essere tangibili. Mentre il progresso morale armonico dell’umanità tutta intera appare, più che improbabile, inconcepibile. Tranne, beninteso, che non lo si voglia postulare come conseguenza automatica del progresso materiale, cosa che Tolstoi non era certo disposto ad ammettere.
Qual è dunque il vero movente della predicazione tolstoiana contro la violenza, e quale il fondamento vero del principio di «non resistenza»?
Per chi legga oggi i suoi scritti morali senza prevenzioni, la risposta non è dubbia: la contestazione veramente globale che Tolstoi opponeva alla societa contemporanea, la quale era secondo lui «fondata sull’assassinio» non solo perché fondata sulla divisione delle genti in tribù nazionali armate le une contro le altre, e ognuna contro i propri soggetti, ma soprattutto perché la violenza ne costituiva l’anima e il principio ispiratore; ed era una violenza che cominciava con l’esercitarsi sull’animo del fanciullo nella cosiddetta «educazione» e continuava con i costumi e i vizi della classe privilegiata, alimentati grazie alla violenza fatta agli «inferiori», per finire in quella delle istituzioni politiche e della scienza stessa, tutta tesa a far violenza sia alla natura che all’uomo stesso, in nome di una supposta razionalità. Al che bisognava aggiungere, secondo Tolstoi, la profonda vanità della cultura ufficiale e dell’arte stessa.
Dal punto di vista di tale contestazione davvero globale, l’idea che, usata contro una società radicata in modo così essenziale nella violenza, la violenza stessa, purché impiegata efficacemente da un determinato gruppo di persone, potesse riuscire ad altro che a perpetuare una tale pessima condizione di cose, non poteva che apparire assurda.
Insomma, quella contro cui Tolstoi si ribellava in nome di una religione che chiamò in un primo tempo cristianesimo, ma per la quale si può dire (sulla base di ciò che si legge nei diari degli ultimi anni della sua vita) che alla fine non trovava più nome, era la falsa religione della scienza.
Nella «Lettera a un indiano» si leggono su questo parole di una virulenza particolare: «Con la parola scientifico -scrive Tolstoi- s’intende la stessa cosa che era implicita un tempo nella parola religione, e cioè tutto quello che si chiamava religione si supponeva fosse sempre indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiamava appunto religione. Esattamente nello stesso modo, tutto ciò che oggi si chiama scienza è presunto essere indubitabilmente vero per la sola ragione che si chiama scienza. Sicché, in questo caso, l’antiquata giustificazione religiosa della violenza, che consisteva nell’unicità e divinità dei personaggi che si trovavano al potere, è stata sostituita dalla giustificazione che consiste nel dire che, siccome la coercizione c’è sempre stata, questa è la prova che tale violenza deve continuare indefinitamente. L’idea che l’umanità non debba vivere secondo ragione e coscienza, ma obbedendo a ciò che è avvenuto da molto tempo a questa parte, si manifesta in quella che la scienza denomina legge della Storia... La seconda giustificazione scientifica della violenza è che, siccome fra le piante e gli animali esiste una continua lotta per l’esistenza che culmina sempre nella vittoria del più adatto, la stessa lotta dovrebbe esistere fra gli uomini... La terza giustificazione scientifica della violenza, la più autorevole e, sfortunatamente, anche la più diffusa è, in realtà, la vecchia giustificazione religiosa leggermente modificata. L’argomento è il seguente: nella vita sociale, l’uso della violenza contro alcuni per il bene della maggioranza è inevitabile; quindi, per quanto desiderabile sia l’amore del prossimo, la coercizione è inevitabile. La differenza fra la giustificazione della violenza da parte della pseudo-scienza e quella della pseudo-religione consiste nelle diverse risposte che esse danno alla domanda: perché certe persone, e non altre, hanno il diritto di decidere contro chi la violenza possa e debba esser usata? La scienza non dice che tali decisioni sono giuste perché pronunciate da persone investite di un potere che viene da Dio, ma che esse rappresentano la volontà del popolo...». E, in un’irruenta perorazione finale, lo scrittore conclude: «L’indiano, come l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, non ha bisogno di Costituzioni, di rivoluzioni, conferenze, congressi, di nuovi ingegnosi congegni per la navigazione sottomarina o aerea, di esplosivi potenti, o degli aggeggi d’ogni sorta per il piacere delle classi ricche e governanti; e neppure di nuove scuole e università che propinino istruzione in scienze innumerevoli, né dell’aumento del numero dei giornali e del libri, dei grammofoni e dei cinematografi, e neppure delle sciocchezze infantili e in gran parte corrotte che vanno sotto il nome di arti. Una sola cosa è necessaria: la conoscenza di quella semplice e chiara verità... secondo la quale la legge della vita umana è la legge dell’amore, e che essa dà sia al singolo individuo sia all’umanità tutta intera la più grande felicità possibile».
La contestazione non potrebbe essere più globale, né l’affermazione più netta. Ma, mentre la contestazione appare oggi in una luce singolarmente vivida, e quasi profetica, l’affermazione rimane soggetta a un grande se, il se supremo, se così si può dire. Tolstoi lo esprime in un’iterazione molto significativa: «Se la gente si liberasse dalla credenza di ogni specie di Ormuzd, Brama e Sabbaoth, con le loro incarnazioni in Krisna e Cristi... nonché dall’idea di un Dio che interferisce nella vita dell’universo; se la gente si liberasse anche dalla fede cieca in ogni sorta di dottrine scientifiche su infinitesimi atomi e molecole, e ogni sorta di mondi infinitamente grandi e infinitamente remoti, i loro movimenti, la loro origine, e le forze relative; se si liberasse dalla fede implicita in leggi scientifiche teoriche cui si suppone che l’uomo sia soggetto: le leggi storiche ed economiche, quella della lotta per vita, eccetera; se soltanto la gente riuscisse a liberarsi da questo terribile accumularsi d’inutile esercizio delle capacità inferiori della nostra mente e della nostra memoria che si chiama "scienza”, da tutte le innumerevoli branche d’ogni sorta di storie, antropologie, prediche morali, batteriologie, giurisprudenze, cosmologie, strategie, il cui nome è legione; se solo la gente si liberasse da questa intossicante e rovinosa zavorra... la semplice, esplicita legge d’amore accessibile a tutti e così naturale all’umanità... diventerebbe naturalmente chiara e impellente».
In altri termini, se l’umanità non fosse quella che è, e non fosse arrivata al punto in cui è arrivata, allora il messaggio tolstoiano sarebbe accolto unanimemente da tutti... Stando le cose come stanno, si potrebbe concludere che è la violenza, e non la legge d’amore, che è «naturale» all’umanità o, per essere più precisi, inerente alla situazione stessa dell’uomo nel mondo, oltre che alla sua «natura»; e che quindi un mutamento radicale -una metanoia- come quello postulato da Tolstoi è impensabile più ancora che impossibile.
Arrivati a una tale conclusione, però, il discorso non può essere chiuso. Se la violenza, infatti, è naturale all’uomo, non meno naturale in lui -o, meglio, in un certo numero di loro- è il disgusto per la violenza bruta, la sopraffazione, la coercizione. Ammesso pure che nessuno dei due impulsi possa esser elevato a legge universale, e con essi nemmeno la cristiana e tolstoiana «legge d’amore», bisogna pur rispondere alla domanda che cosa possano pensare e fare coloro che rifiutano per istinto la violenza come mezzo per rendere più giusta la società in cui vivono.
La conclusione relativamente scettica che si può trarre dal discorso di Tolstoi sulla «non resistenza» è che l’appello all’umanità in genere perché riconosca una volta per sempre la «legge d’amore» e adotti la «non violenza» come mezzo per realizzarla non è sufficientemente giustificato. Dal che consegue che -vigoroso come rimane per la radicalità stessa della tesi- il discorso di Tolstoi diventa però debole nella misura in cui implica l’idea che la «non violenza» sia un mezzo pratico per far fronte alla violenza di cui è capace uno Stato moderno tecnicamente efficiente. La sua autorità rimane, cioè, puramente morale.
Se torniamo al testo su cui Tolstoi fondava esplicitamente la sua tesi, e cioè il Vangelo di Matteo (5, 58-45), notiamo subito che le parole qui attribuite a Cristo non potrebbero essere più chiare su un punto, e cioè che in esse si rifiutano insieme il principio sancito dalla legge ebraica (Levitico, 24, 17-21) «occhio per occhio, dente per dente» e quello greco, non sancito da alcuna legge, ma accettato come naturale anche da Socrate e da Platone, secondo il quale «è giusto fare il massimo bene agli amici e il massimo male ai nemici». «Vi fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici... poiché siete figli del Padre vostro che è nei cieli» risponde Cristo.
Che questa sia, in un certo senso almeno, l’essenza del messaggio cristiano non sembra si possa negare. Si noterà solo che nelle parole di Cristo si avverte anche l’eco di quell’universalismo «umanista» -o «cosmopolita»- già da tempo diffusi nella cultura ellenistica. È comunque certo che nel passo di Matteo si trova anche l’essenza di quella che Nietzsche chiamò con sovrano disprezzo «religione dei deboli».
Sorge a questo punto una delle domande cruciali che si sollevano di solito nel discutere di violenza e di non violenza: «Fino a che punto il debole è debole?».
Da una parte, quando a Tolstoi si obiettava che, non resistendo al male, non si otterrebbe altro che di lasciarlo trionfare, e quindi di lasciarsene distruggere, la risposta era che ciò sarebbe stato pur sempre male minore di una resistenza violenta dei deboli oppressi, la quale, mentre avrebbe causato male e distruzione aggiunti a quelli causati dai malvagi, non avrebbe neppure salvato i deboli dalla disfatta finale, dato che il potere organizzato è sempre più forte di quello che possono improvvisare gli oppressi inermi.
D’altra parte, però, oggi sappiamo bene che, quando si riesca con tecniche opportune a formarli in «masse», i «deboli» possono acquistare una forza insospettata e, scatenata da loro, la violenza può avere effetti alquanto devastatori. I deboli non sono deboli che quando sono oppressi e disarmati. E, d’altro lato, la forza dei moderni mastodonti meccanici non è neppur essa tanto forte quanto sembra. Nel fatto stesso dell’oppressione -di esser costretti a opprimere e reprimere- è implicito il timore di una forza latente incalcolabile, e di una violenza che, una volta scatenata, non ci saranno dighe capaci di arginarla.
Questo per sottolineare che l’argomento secondo cui la predicazione della «non resistenza al male» si fonda sulla debolezza dei deboli e sul fatto che essi sono disarmati è molto superficiale. Nella realtà delle situazioni sociali, debolezza e forza sono comunque dei fatti molto relativi; ed è stolto, in tale materia, fidarsi delle apparenze. Deboli erano i milioni di ebrei massacrati da Hitler; ma deboli anzitutto in quanto furono, per dir così, sorpresi nel torpore di un’esistenza pacifica: la rivolta del ghetto di Varsavia mostra che avrebbero anche potuto essere forti, perlomeno fino al punto da causare seri fastidi ai loro organizzatissimi carnefici. Forti, d’altra parte, contro il più forte Stato del mondo, si son dimostrati i guerriglieri vietnamiti. E oggi, la questione se la forza meccanizzata sia forte quanto sembra è diventata una questione molto seria. Uno dei fatti che sono apparsi chiari dalla gara per la strapotenza atomica è, ad esempio, che le forze contrapposte dei mezzi di distruzione moderni possono paralizzarsi (o atterrirsi come giustamente si dice) a vicenda.
Non si tratta dunque di forti e di deboli, ma di ben altro: di un principio da accettare o da rifiutare. Nel testo di Matteo, la «non resistenza al male» è espressa in forma di precetto universale fondato su una legge ugualmente universale: la legge secondo la quale gli uomini sono tutti figli di uno stesso Dio che fa «levare il suo sole sui buoni e sui malvagi, e piovere sopra i giusti e sopra gl’ingiusti».
Ma appunto per questo è d’altra parte chiaro in primo luogo che, parlando come parlava, Cristo non concepiva la non violenza come un metodo d’azione pratica da opporre alla pratica della violenza. Egli parlava evidentemente agli individui uno per uno, e concepiva le sue massime come norme di condotta individuale, da adottare senza considerazione alcuna d’efficacia. Si può dire, come è stato detto in sede di considerazioni storiche, che le sue parole avevano un senso molto preciso, rivolte com’erano a un popolo che aveva vivo il ricordo di rivolte sanguinose ed eroiche e della loro inutilità ai fini dell’abbattimento del potere di Roma.
Ma, in sostanza, ridotto in prosa esplicativa, il significato da attribuire alle parole di Cristo sembra essere questo: c’è l’oppressore armato e c’è l’oppresso disarmato; ci sono il potente, il ricco, il forte, e c’è l’indifeso, il povero, il debole. L’oppressore opprimerà finché ne avrà la forza. Che cosa potrà fare l’oppresso per rimaner fedele a se stesso e al Dio padre di tutti gli uomini nel quale crede? Non resistere al male perché è male in primo luogo, ma anche, al tempo stesso, perché non ne ha la forza. E non resistere non vorrà dire riconoscere il male e l’ingiustizia, ma anzi separarsi visibilmente dall’uno e dall’altra, mostrare negli atti che si è diversi dal malvagio. Il gesto di porger l’altra guancia a chi vi colpisce sarà appunto testimonianza visibile ed esempio di tale separazione e distanza. Ed esso non vorrà dire lasciare il campo libero al male, anzi fermarlo lì, non perpetuarlo opponendogli altro male, altro odio, altra violenza. D’altra parte, con questo il cristiano non pretenderà neppure di compiere un atto efficace, o di mettere in opera un metodo capace di vincere il male. Egli obbedirà alla legge del Dio in cui crede, e basta.
Qui sta forse la differenza fra il senso originario della parola di Cristo e la sua interpretazione da parte di Tolstoi, la quale assumeva la forma di un imperativo categorico non solo, ma anche di un principio efficace che si poteva validamente opporre al principio di violenza giustiziera predicato dai rivoluzionari. Donde i molti equivoci cui ogni movimento d’azione non violenta, da quello di Gandhi a quello di Martin Luther King, ha dato adito, primo fra tutti il tralignamento nella violenza cui è fatalmente soggetto. Ma più grave ancora dei dubbi e delle obiezioni teoriche è il residuo di impersuasione che permane anche dopo che siano state debellate le obiezioni teoriche.
La ragione prima di tale impersuasione è molto semplice: sta nell’impossibilita di fare appello a un gran numero di individui (anzi, in teoria, al genere umano in quanto tale) perché agisca in un dato modo senza in primo luogo fomentare la speranza di effetti immediati o comunque rapidi e, in secondo luogo -derivazione diretta di ciò- andare incontro a conseguenze imprevedibili: prima fra tutte, in questo caso, lo scoppio «naturale» della violenza nei momenti in cui «forti» e «deboli» si trovino faccia a faccia non individualmente, ma in massa. A questo punto, il diritto del debole a difendersi dalla violenza con la violenza rientra fatalmente in campo, come potè facilmente argomentare Martin Buber in risposta all’articolo nel quale, nel novembre 1938, Gandhi aveva consigliato agli ebrei tedeschi di adottare verso i nazisti il metodo della non violenza, anziché impegnarsi nella lotta per conquistarsi una patria in Palestina. Il che, d’altra parte, non significa che gli argomenti di Buber fossero logicamente più forti di quelli di Gandhi: quella che era forte era l’obiezione di fatto, accompagnata dal sentimento della giustizia offesa.
Ma, per tornare al Vangelo, quel che Cristo raccomanda nel Sermone della Montagna non è un metodo efficace, e neppure un comportamento di uomo «semplice» (il quale obbedisca, cioè, a un impulso irriflesso), bensì una condotta di uomo molto consapevole, dotato di una coscienza viva non solo del male che nasce dall’odio e dalla brutalità, ma anche della natura del vincolo sociale e delle condizioni in cui esso può essere mantenuto e ingentilito: un uomo, in altri termini, altamente «civile», o semplicemente «socievole», che è anche più chiaro. L’idea che Cristo si rivolgesse a folle ignare e rozze è certo fittizia: in primo luogo, egli parlava a pochi («Chi ha orecchi per intendere, intenda») e, in secondo luogo, questi pochi appartenevano a una società talmente provata dall’ingiustizia da una parte, e talmente ricca di fermenti spirituali dall’altra, che l’anelito verso una visione redentrice poteva assumervi forme addirittura febbrili.
Ma non è questo il punto cruciale del discorso. La questione che qui si vorrebbe chiarire per quanto possibile è un’altra, e cioè che senso si possa dare al principio cristiano di non resistenza al male in termini di vita morale e di effetto sulle coscienze.
C’è evidentemente, per primo, il rifiuto di agire come il malvagio e l’oppressore, la volontà di separarsi nettamente da lui: tanto nettamente da non tollerare neppure l’ombra del rancore o il pensiero nascosto della vendetta.
Ma in secondo luogo -sempre che non la si tratti come un’idea generale, bensì come un invito rivolto alla coscienza dell’individuo- c’è nella «non resistenza» il desiderio di preservare quel che è possibile preservare sia della vita fisica che della vita morale: una certa «integrità» non solo della persona singola, ma anche della società aggredita dal male; e il male non è soltanto la violenza vera e propria -quella armata- ma anche la prevaricazione smodata della ricchezza, l’arroganza dell’abilità tecnica (con il suo corollario: l’imposizione forzosa del cosiddetto «progresso»), nonché la presunzione della scienza, con il corollario della «culturalizzazione» coatta.
Si noti che queste conseguenze del principio evangelico riguardano tutte la difesa e la preservazione di una certa libertà «naturale», anzi puramente e semplicemente la libertà dell’animo umano: la dipendenza degli uomini dal Padre comune li affranca da ogni altra dipendenza e li incita a rifiutare ogni servitù temporale. Si noti però anche la parte che, nelle parole di Cristo, rimane paradossalmente «inattiva»: è quella contenuta nell’esortazione ad amare i propri nemici, la quale poi è parte integrante dell’universalismo del messaggio cristiano, del fatto, cioè, che esso si rivolge indistintamente a tutti gli uomini.
Non odiare -essere incapaci di odio- è un fatto morale semplice. Antigone sapeva che cosa fosse, quando si diceva «nata per amare, non per odiare». Ma «amare i propri nemici» che senso può avere, nella realtà dell’esperienza? Non si può amare che ciò che è amabile, e il carnefice, l’aguzzino, il prepotente non sono amabili. L’amante non corrisposto può dimostrare la forza del suo amore sacrificandosi per l’amata, distruggersi nel tentativo disperato di strapparle l’amore che essa non prova. Ma l’oppresso, che cosa puo fare per vincere la brutalità dell’oppressore e renderlo più umano? Solo non resistergli, appunto, tentare di disarmarlo facendo cadere nel vuoto l’impeto della sua furia, della sua rapacità o della sua barbara sicurezza di essere nel giusto e di star esercitando un giusto potere. Ma questo non è un atto d’amore, né c’è necessità alcuna che lo sia. È un esempio di umanità che toccò raramente gli antichi persecutori e non sembra abbia mai toccato i persecutori moderni, ben altrimenti addestrati alla cecità morale.
L’atto di non resistere al male è, a considerarlo nella sua singolarità, un atto negativo che afferma, senza speranza alcuna di riuscire efficace, la presenza, nell’uomo, di una realtà che trascende ogni evento materiale, compresa la distruzione fisica. Tale atto potrà avere l’effetto inatteso di riuscire a stabilire col «nemico» un rapporto umanamente tollerabile, ma non è a tal fine, comunque, che sarà stato compiuto, bensì, come ogni atto umano autentico, per inevitabile necessità interiore. Il suo valore morale non dipenderà certo dal fatto di far parte di un «metodo d’azione» supposto efficace.
Ma, alla fine, che cos’è dunque realmente quest’atto negativo di non resistenza? È un atto col quale si riconosce il fatto della forza maggiore senza per questo umiliarsi a giustificarla o a guadagnarsi il favore del più forte, ma tuttalpiù per ottenere, in cambio del riconoscimento della strapotenza di quello, la nuda sopravvivenza.
Ora, questa era l’intenzione che ritroviamo all’origine del gesto greco del «supplice»: ikétes. Il supplice non si umiliava: era già umiliato dalla sventura, colpito dagli Dei, sacro. Il suo atto era un primo molto umano tentativo di risollevarsi, un chinarsi per poter alzare di nuovo il capo, e si esprimeva nel gesto di abbracciare le ginocchia del vincitore o del potente. Il gesto era considerato già di per se stesso audace, tanto che Ecuba, in Euripide, si domanda se non sia già troppo osare avanzarsi fino a stringere le ginocchia di Agamennone: il gesto comportava infatti un contatto fisico e, con questo, l’evidenza della comune umanità, rendendo empio di fronte a Zeus chi si fosse rifiutato di far grazia.
Se non la si idealizza facendone un principio universale astratto e un metodo d’azione, la «non resistenza al male» finisce dunque col somigliare alla «non resistenza al Destino» che, per il greco, era non già un principio etico, ma un semplice riconoscimento della realtà di fatto. Giacché, a ben riflettere, Destino e Male, che si tratti di azioni umane o di catastrofi naturali, sono la stessa cosa.
Che nell’uomo e nella sua «storia» sia all’opera la stessa necessità che agisce nella natura, e che dunque il male che viene all’uomo dalle azioni dell’uomo stesso sia altrettanto misterioso e inevitabile quanto quello causato dallo scatenarsi delle forze della natura (le quali noi chiamiamo «cieche» unicamente perché non hanno aspetto umano), questa è la verità contro cui recalcitra l’uomo moderno, ostinato com’è nella convinzione insolente che l’uomo è, in ultima analisi, l’autore e l’origine prima delle sue azioni, e quindi anche del suo destino. Ma se si torna a riflettere sul modo di vedere degli antichi greci, secondo cui il fondo delle cose è uno ed eternamente oscuro, e non è neppure possibile dire di che natura sia la necessità che governa ogni moto, allora quello che noi chiamiamo «male» e che consideriamo errore o colpa fatale, sì, ma in teoria pur sempre eliminabile per via d’astuzia, d’abilità tecnica o di opportuna violenza, ci apparirà della stessa natura del Destino; e l’ordine umano, allora, non ci parrà ultimamente meno arcano di quello dell’Universo; e quindi, da ultimo, neppure più docile di esso alla nostra volontà demiurgica. La lezione appresa per questa via sarà una lezione di misura, non di inerzia.
Ma l’uomo contemporaneo rimane, almeno nelle sue dichiarazioni e azioni pubbliche, convinto che la forza dei meccanismi, delle armi e del potere organizzato lo rende ormai capace di opporsi efficacemente sia al Male che al Destino, riducendone progressivamente gli effetti fino ad annullarli del tutto, o almeno a ridurli e contenerli a tal punto da poter dire di averli praticamente eliminati.
L’idea di mobilitare la Forza per abolire il Male sulla terra (e specialmente nella società) è la grande idea moderna. Essa continua a far strage da quasi due secoli, e da cinquant’anni a questa parte a un ritmo pazzamente accelerato. Giacché, facendosi signore della Forza, l’uomo si fa anche signore e arbitro del Male, avanzando di fatto la pretesa di onnipotenza, o almeno di rappresentare lui l’unica potenza efficace, in quanto dotata d’intelligenza. Così egli rischia di far tornare ogni cosa al caos primigenio attraverso lo scatenamento della violenza, dell’ingiustizia e del Male allo scopo finale di far regnare il Bene assoluto.
È di fronte a questa arroganza assoluta che il principio di non violenza, proprio mentre si mostra inefficace come metodo d’azione, viene ad assumere il significato semplicissimo di affermazione di un modo di concepire la vita e di viverla tutt’altro da quello contemporaneo: un modo che non si esprime né in messaggi evangelici né in catechismi né in manifesti politici, ma consiste per cominciare nella fiducia che solo ciò che nasce, cresce e si forma secondo il suo proprio ritmo e la legge inscrutabile che opera in ogni cosa è vera e vale, mentre i mutamenti sono tanto più illusori quanto più repentini, violenti e totalitari. Ciò non significa rifiutarsi di partecipare alle vicende della vita associata, ma solo dare alla politica la sua parte e negarle ciò che non le spetta.
Questo si può esprimere anche nelle parole di Lao Tse: «Chi agisce con violenza può ottenere il suo scopo, ma solo ciò che rimane fermo al suo posto dura». |
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