Susanne Leonhard
Ho rivisto Mussia
Quatrième Internationale, n. 5-7 Anno 9, maggio-giugno 1951
Quando arrivai nel gennaio 1938 a Sowchos Kotchmess seppi che la vedova di Joffe, l’ex ambasciatore sovietico a Berlino, era lì. Adolphe Joffe era stato un amico intimo di Trotsky e si era suicidato il 16 novembre 1927, poco dopo il decimo anniversario della Rivoluzione e due giorni dopo l’esclusione di Trotsky e Zinov’ev dai ranghi del Partito Bolscevico, pienamente consapevole che Stalin aveva già il potere nelle sue mani e che lo avrebbe utilizzato per distruggere definitivamente tutti i suoi avversari. Mi ricordo di un ricevimento all’ambasciata sovietica di Belino, di Unter den Linden, nel 1920. Adolphe Joffe, un uomo ancora di bella presenza, era al suo secondo matrimonio. La sua prima moglie era già di una bellezza rara, di tipo assolutamente classico. La seconda moglie incarnava la grazia e lo charme.
Ad ogni ricevimento all’ambasciata la giovane e brillante Maria Michailovna conquistava i cuori di tutti. Joffe e la sua giovane moglie formavano veramente quello che si dice una coppia, bella e interessante. Entrambi erano ospiti impareggiabili e questo grazie alla loro capacità di conversazione, al loro savoir-faire e alla loro amabilità. Come avrei fatto ora per trovare Maria Michailovna?
Lo avrei appreso il mattino seguente. Percorrevo la nostra tenda e, nell’oscurità di un passaggio, una donna mi venne incontro, vestita come tutti i prigionieri con dei pantaloni foderati e con un berretto con i paraorecchie. Non c’era molto altro da vedere del viso, ad eccezione degli occhi, ma questi mi fecero dire: "Madame Joffe, è possibile?”. Era lei, e si ricordava di me come "la giovane amica interessante di Madame X”. A quel punto entrambe ci mettemmo a ridere, vedendoci ridotte a quel modo.
Fissammo un appuntamento per il giorno di riposo seguente e Maria Michailovna ebbe, così, l’occasione di precisarmi le circostanze della morte di suo marito. Joffe aveva lasciato un testamento politico indirizzato a Lev Davidovič Trotsky. Il Nkvd si era mosso immediatamente per entrarne in possesso, ma Maria Michailovna ne conosceva comunque il contenuto. Joffe scriveva che si era deciso al suicidio perché la sua vita non aveva più senso. La sua malattia gli impediva di riprendere la lotta attiva, che richiedeva ora una ancor più grande forza. Era convinto che la sua morte sarebbe servita molto di più alla causa leninista di quanto non potesse farlo la sua vita. La sua morte avrebbe potuto contribuire a fermare il partito sulla via di Termidoro. Bisognava considerare il suo suicidio come una protesta contro coloro che avevano degradato il Partito fino al punto in cui quest’ultimo non era più in grado di reagire contro l’esclusione di Trotsky. Maria era stata deportata con suo figlio Volodja prima nel Turkestan, poi a Tomsk per essere più tardi arrestata durante l’estate del 1936. Del figlio aveva ancora ricevuto recentemente delle notizie. Il giovane aveva finito la scuola con il massimo dei voti, era risultato il più bravo, ma non aveva ottenuto l’autorizzazione ad entrare all’università. Più tardi la madre non avrebbe ricevuto più alcuna lettera.
Maria Michailovna Joffe, o Mussia, come io la chiamavo, era una persona estremamente coraggiosa, vivace, con rare doti di cuore e di spirito. Si caratterizzava anche per un cameratismo esemplare. Ella prendeva sempre parte, con compassione, alla sorte del prossimo. Era molto apprezzata sul lavoro. Il capo agronomo la designò come brigadiere per la raccolta di primavera ed ella mantenne, de facto, questa carica anche dopo che una disposizione "dall’altro” vietò di dare ai trotzkisti dei ruoli importanti. Nei rapporti ufficiali di lavoro si designò, de jure, qualcun altro come brigadiere. Come era apprezzata sul lavoro dai suoi superiori, era ugualmente amata dai suoi operai. Tuttavia c’erano, come ovunque, dei codardi. La paura di certe donne era così forte che facevano il giro di tutta la tenda pur di evitare l’angolo dove si trovavano le "vere trotzkiste”. Maria Joffe, Vera Glidermann e Rosa Solnzewa.
Al contrario, io cercavo di incontrare queste trotzkiste tanto disprezzate al bagno mattutino per scambiare qualche ricordo personale o politico e rimasi molto commossa quando, un giorno, Mussia mi fece notare che per me avrebbe potuto essere pericoloso esser vista nella società dei trotzkisti.
Non dimenticherò mai la sera del primo maggio. Dovevamo alzarci per ricevere un "ordine del campo”. Alcuni soldati entrarono e uno di loro lesse il "Prikaz” (ordine). Fummo informati che dei prigionieri per crimini di banditismo erano stati trasferiti a Vorkuta e là erano stati immediatamente fucilati. Tra loro alcuni dei vecchi membri eminenti del partito, tra i quali un vecchio amico di Joffe, J., con il quale Mussia aveva vissuto in esilio dopo la morte del marito. Lei restò immobile durante la lettura di questa notizia orribile e non batté ciglio. L’ammirai.
Più tardi Maria Michailovna mi raccontò i dettagli di questa storia. Nel novembre del 1936 a Vorkuta, sotto la direzione di un gruppo di trozkisti ben organizzati, alcuni prigionieri politici misero in atto uno sciopero della fame per far valere alcune rivendicazioni: separazione degli elementi criminali dai prigionieri politici; diritto di ricevere dei giornali, ecc... queste rivendicazioni erano state sottoposte alla terza sezione (Nkvd del campo). Molti morirono durante lo sciopero, che durò circa tre mesi e mezzo; altri furono deportati in altri campi e alcuni, ma pochi, continuarono la protesta fino al febbraio del 1937. Alla fine li nutrirono forzatamente. La repressione cominciò un anno dopo l’inizio dello sciopero. Numerosi militanti nel campo furono arrestati. Tutti i dirigenti dello sciopero e del movimento di rifiuto del lavoro furono mandati, dopo un viaggio di un giorno, nella prigione del campo Kirpitschnyj Sawod. Vennero fucilati più di 300 prigionieri politici nel marzo-aprile 1938. Solo i nomi di alcuni tra i fucilati furono comunicati: quelli dei principali dirigenti trotzkisti.
Un giorno Maria Michailovna prese una storta e fu destinata per qualche giorno alla brigata incaricata della sbucciatura delle patate, che era composta da invalidi e da detenuti temporaneamente inabili al lavoro. Il lavoro non era affatto piacevole poiché le patate erano gelate e dure come delle pietre e bisognava, prima di tutto, metterle a mollo nell’acqua calda per poterle sbucciare. Ma, in seguito, mi sono spesso ricordata con piacere di quei giorni in cui io e Mussia stavamo sedute davanti all’enorme mastello e lavoravamo, mentre le nostre conversazioni ci portavano molto lontano dalle patate gelate e dalla miserabile esistenza dei prigionieri. E importava poco che le nostre colleghe, due contadine russe, ci trattassero da "intellettuali idiote” perché, in questo lavoro insolito, noi restavamo parecchio indietro rispetto a loro, nonostante il nostro zelo e la nostra buona volontà.
All’inizio di giugno, riconosciuta del tutto inadatta al lavoro, fui destinata al campo invalidi di Adka. Secondo la procedura abituale ci facevano sapere solo all’ultimo minuto di un tale cambiamento di residenza. "Mettete a posto rapidamente i vostri effetti!”.
Non ebbi il tempo di dire addio ai miei amici che erano al lavoro. Ancora più grande fu dunque la mia gioia nel vedere Mussia scavalcare dei materiali, correre al binario e saltare nel nostro battello: "Suzanne cara, ho saputo che parte...”. Maria era senza fiato: "Se verrete a sapere che sono stata mandata a Vorkuta saprete che cosa significa...” (Faceva allusione al fatto che spesso alcuni prigionieri erano inviati a Vorkuta solo per essere fucilati). Ci rinnovammo il giuramento che ci eravamo fatte: che colei che tra noi fosse sopravvissuta al campo e liberata avrebbe cercato di trovare qualcosa sul figlio dell’altra. Il mio Volodia e il Volodia di Mussia avevano pressappoco la stessa età. Sarebbe stato un dovere per me, nel caso fosse successo qualcosa alla madre, dare una casa al giovane Joffe e pensavo con serenità che mio figlio, nel caso in cui fossi sparita, avrebbe potuto trovare rifugio da Maria Michailovna.
Quando tornai a Kotschmess quattro anni dopo, Mussia non era più lì. Poco tempo dopo il mio invio al campo di invalidi di Adak, era stata mandata a Vorkuta, ma non fu fucilata. Più tardi fu mandata nel campo meridionale di Tschibiju. Nonostante i miei molti tentativi, non sono riuscita a ristabilire delle relazioni con lei. La corrispondenza tra prigionieri era strettamente vietata. Ma era impossibile evitare che delle piccole missive fossero trasmesse durante gli spostamenti di interni tra un campo e l’altro. Tuttavia questa posta tra prigioni è, come si può immaginare, incerta. Succede spesso che colui che le porta distrugga in viaggio ciò che gli è stato consegnato per paura di una perquisizione, o per bisogno di carta per le sigarette. È dunque assolutamente possibile che Maria mi abbia scritto, o che le mie lettere non le siano mai arrivate.
Seppi, un giorno, che suo fratello era a Vorkuta. Scrissi subito a questo signor Girchestein che avevo conosciuto durante una tappa, ma non ricevetti alcuna risposta. Ugualmente, gli sforzi che feci tra il 1946 e il 1948, direttamente dalla Siberia, non portarono ad alcun risultato. Non sono riuscita a sapere nulla di certo su Mussia o sul suo Volodia.
A Mosca, nel 1948, mi dissero che il giovane Joffe era stato fucilato nel 1938.