Nord e Sud - anno XX - n. 163 - luglio 1973

, NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Luigi Compagna, La nuova destra nel Mezzogiorno - Gino Pallotta, Il 2 5 luglio - Autori vari, Le giustificazioni di Carli - Maurizio Mistri, Multipolarismo monetario - Michele Ributti, Il radicalismo italiano fra Mazzini e Cattaneo · e scritti di Francesco Campanella, Antonino de Arcangelis, Caterina De Caprio, Ugo Leone, Ezio Lucchetti, Ernesto Mazzetti, Lanfranco Orsini, Francesco Ruotalo. ANNO XX - NUOVA SERIE - LUGLIO 1973 - N. 163 (224) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI BibliotecaGino Bianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XX - LUGLIO 1973 - N. 163 (224) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Chiatamone, 7 - 80121 Napoli - Tel. 393.346 Una copia L. 600 - Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, semestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200- Annata arretrata L. 10.000 ~ Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Ediz. Scientifiche Italiane - Via Chiatamone 7, Napoli BibliotecaGino Bianco

SOMMARIO Editoriale [ 3 J Luigi Compagna La nuova destra nel Mezzogiorno [6] Gino Pallotta Il 25 luglio [ 13] Lanfranco Orsini Francesco Campanella Ugo Leone Giornale a più voci Racconti 1neridionalisti [22] Turisnzo teran1ano [24] Il Ministero per l'ecologia [29] Opinioni e dissensi Autori vari Le giustificazioni di Carli [31] Argomenti Antonino de Arcangelis La malnutrizione di Stato [ 40] Maurizio Mistri Multipolarismo 1nonetario [ 46] Saggi Michele Ributti Il radicalismo italiano fra Mazzini e Cattaneo [59] Regioni Ernesto Mazzetti Prospettive della Calabria [74] Inchieste Francesco Ruotòlo Rione Siberia: la casa pro,nessa [94] Documenti Ezio Lucchetti La provincia di Latina e l'industrializzazione del Mezzogiorn.o [ 109] Letteratura Caterina De Caprio Le tante città di Calvino [ 116 J BibliotecaGino Bianco

Editoriale « Che a quarantott'ore dal giuramento il nuovo governo Rumor - si leggeva in un articolo di Carlo Casalegno su « La Stampa» dell'll luglio - abbia dovuto affrontare uno sciopero generale in Sicilia non è una minaccia, né un presagio inquietante, ma un segno dei problemi, delle tensioni, delle forze con cui dovrà misurarsi. Non a caso la prima grande agitazione si è avuta al Sud: è qui che forse si giocherà il successo o la sconfitta del secondo centro-sinistra. Occorre infatti bloccare la disgregazione civile del Mezzogiorno, stroncare il ribellismo alla Ciccio Franco, svuotare l'appello fascista, dare incremento agl'investin1enti e all'occupazione, e soprattutto inserire le terre meridionali in un equilibrato programma nazionale di sviluppo ». E questo vuol dire che il Mezzogiorno, negl'impegni del Governo non meno che nei discorsi di autorevoli commentatori politici, non è più considerato un problema tra gli altri e come gli altri, cui niagari si debba dedicare un particolare riguardo, ma si configura co1ne il punto di riferimento di tutte le politiche settoriali, di tutte le decisioni relative agli investi 1nenti, di tutte le riforme che si potranno realizzare. Anche i sindacati - l'ottavo congresso della C.G.I.L. svoltosi nei giorni scorsi a Bari lo ha confermato - si dicono intenzionati a giudicare il Governo « prima di tutto dal sua programma nei confronti del Mezzogiorno». Afferrnando l'autonomia del sindacato « che per sua natura non ha una vocazione né da oppositore né da compartecipe alla maggioranza », Lama ha offerto la collaborazione della C.G.I.L. a « un diverso tipo di sviluppo » nel quadro d'una « proposta globale » in cui il rilancio della politica di sviluppo del Mezzogiorno possa avere finalmente la priorità sulla difesa di interessi settoriali e corporativi. In questo senso la relazione di Lan1a, soprattutto di fronte al massimalis111.ovelleitario e sotto certi aspetti strumentale che aveva caratterizzato la linea Storti al congresso della C.I.S.L., ha rappresentato· un apprezzabile passo avanti nel processò di revisione critica del movimento sindacale italiano. « L'aver posto il problema del Mezzogiorno al centro del dibattito congressuale - ha · notato l'on. Antonio Del Pennino - e{ pare abbia voluto significare l'esigenza di superare passati errori delle organizzazioni sindacali che, come ha riconosciuto lo stesso Lama, derivano da una impostazione delle lotte nata troppo come proie3 BibliotecaGino Bianco

Editoriale zione degli interessi sociali dei lavoratori occupati senza tenere nel dovuto conto le esigenze dei disoccupati del Mezzogiorno ». Da questo processo di revisione critica, in uno spirito di legittima preoccupazione per le sorti del paese e di accresciuta propensione al realismo che sembra oggi animare partiti, sindacati, opinione pubblica, dovrebbero scaturire le premesse per quella comune assunzione di respinsabilità, tra Governo e sindacati, in cui La Malfa ha sempre indicato, con rigorosa coerenza, la condizione per il successo della programmazione e, ora, d'un secondo centro-sinistra. Da tempo e a tempo i repubblicani avevano richiamato l'attenzione delle altre forze politiche e sindacali sulla necessità e l'urgenza di una ben definita politica delle priorità e delle compatibilità, in grado di servire gli interessi generali della collettività nazionale. Questa politica i precedenti governi di centro-sinistra e di centro, non hanno avuto il coraggio di condurre, fi· nendo così, ora per inerzia ora per demagogia, col maltrattare priorità e compatibilità. Una politica delle priorità e delle compatibilità significa soprattutto una politica delle priorità e delle compatibilità 111.eridionalistiche. Se è vero infatti che il nostro paese si trova oggi a soffrire di tutta una serie di insufficienze e di inadeguatezze nel campo dei cosiddetti servizi sociali (case, scuole, trasporti, ospedali), si deve anche dire che tali insufficienze e tali inadeguatezze si sono aggravate e si aggravano in conseguenza della esportazione della questione meridionale nelle aree metropolitane del Nord. Ecco perché, anche se premuti dalle aggravate insufficienze e dalle aggravate inadeguatezze, non si deve per questo cedere alla suggestione di riforme che contingentemente medichino gli effetti degli squilibri senza incidere sulle loro cause che sono, appunto, tutte riconducibili alla condizione del Mezzogiorno, con la sua disoccupazione, con la sua sottoccupazione e naturalmente con la sua congenita insufficienza di servizi civili e sociali. Non si tratta di inseguire gli squilibri, ma di correggerli. E per correggerli la terapia dell'industrializzazione è più che mai quella giusta, anche se sono oggi diventati di moda dei generici, e talvolta qualunquistici, discorsi sulle « cattedrali del deserto ». Non è vero, come taluni credono, che per inseguire il «mito» dell'industrializzazione siano state trascurate le possibilità di sviluppo agricolo nel Mezzogiorno. Uno studioso di problemi mediterranei deltautorevolezza di Kayser ha recentemente dimostrato proprio quanti e quali progressi abbiano fatto la produzione e la produttività dell'agricoltura nelle zone meridionali grazie alla Cassa per il Mezzogiorno. Resta naturalmente il difficile problema dell'agricoltura nelle strutture del tra4 BibliotecaGino Bianco

Editoriale dizionale minifondo meridionale, più difficile ovviamente di quello delle zone di latifondo non più tali. Ma è evidente che i progressi dell' agricoltura sono condizionati anche, e in misura rilevante, dalla diminuzione della quota di addetti alle attività agricole e perciò alla disponibilità di posti di lavoro in attività extra-agricole nell'industria e in quelle attività extra-agricole: nell'industria e in quelle attività terziarie cui può dar vita la presenza operante e diffusa dell'industria. Si possono comunque individuare - co1ne abbiamo già avuto occasione di dire su « Il Globo » - tre fondamentali punti di attacco sui quali imperniare la strategia meridionalista del nuovo Governo: 1) presentare a Bruxelles un dossier persuasivo sulla politica delle strutture agricole in generale, ed in particolare sulle occasioni che al Mezzogiorno derivano dalla messa a punto, prevista per i prossimi mesi, della politica regionale comunitaria; 2) predisporre pochi ma convincenti progetti speciali da realizzare in tutte le loro parti ed in modo che la formula dei progetti speciali acquisti sembianze e sostanza innovativa, di aggiornamento dell'intervento straordinario in sintonia con la pronunciata programmazione per progetti, di cui da tempo si è fatto fautore Ruffolo; 3) interpretare la fiscalizzazione degli oneri sociali come misura di sviluppo e non co1ne misura di soccorso, e quindi evitare che sia generalizzata dal punto di vista territoriale, ma far sì che sia comunque ·differenziata a favore di coloro che sono « scesi » o che intendono « scendere » nel Mezzogiorno, oltre, beninteso, che a favore di quei piccoli e medi imprenditori meridionali che si dibattono fra mille difficoltà e che tuttavia tengono coraggiosamente il campo. Come si vede, questi tre punti presuppongono una generale ripresa degli investimenti che contribuisca a rianimare quella che ormai può certamente dirsi una crisi strutturale dell'econonzia italiana. Gli investimenti, sopratutto quelli direttamente produttivi, dovranno essere localizzati nella misura del possibile nelle aree industrializzabili del Sud. Ed è appunto la misura del possibile che si deve cercare di massimizzare con una coerente programmazione: è un'occasione che non ci si può permettere il lusso di sciupare, perché se la si dovesse sciupare, allora sì che partiti e sindacati, quale che sia_la fonnula di maggioranza,· sarebbero ancora e più che 1nai inermi davanti al disfrenarsi degli interessi particolari. L'incotrastato disfrenarsi degli interessi particolari scatenerebbe. una crisi irrimediabile della con-vivenza civile e delle libertà democratiche nel Mezzogiorno_ e non solo nel Mezzogiorno. 5 BibliotecaGino Bianco

La nuova destra nel· Mezzogiorno di Luigi Compagna Forse per ricordare a qualcuno l'adunata del '22 e lo spirito che la animò, forse per riportare qualche altro al clima delle platee laurine degli anni '50, certo per approfittare della tremenda disgregazione sociale -ed econo1nica di una città in cui la saldatura del sanfedismo sottoproletario alle frustrazioni della sottoborghesia è, per così dire, un male antico e sempre ricorrente, i missini hanno tenuto recentemente a Napoli una sguaiata ed aggressiva riunione del loro- Consiglio Nazionale. Cinicamente deciso a strumentalizzare l'arretratezza e le paure secolari del Mezzogiorno, ad esaltare la tragedia di Reggio e di tutta la Calabria, ad offendere la legalità repubblicana e l'ordine democratico in nome e per conto di una grossolana quanto provocatoria retorica della nazione e della tradizione, Almirante ha detto che « l'alternativa missina è meridionale perché nazionale, e nazionale perché meridionale ». La protesta meridionale, espressasi nella crescita dei voti missini alle elezioni del 7 maggio, avrebbe dunque un significato meridionalista che le deriverebbe dalla sua capacità di far esplodere (non solo in senso figurato) su scala nazionale la polveriera meridionale. Ad Almirante ha replicato « La Voce RepubbHcana » co:µ fermezza etico-politica ed in un certo senso anche estetica: « I fascisti - si leggeva in un breve corsivo del quotidiano del P.R.I. - meritano disprezzo quando fanno il loro mestiere, impiegando la violenza delle squadre davanti alle scuole, alle fabbriche, nel cuore della città. Quando hanno la sfrontatezza di rivestir-e i panni dei difensori della parte più debole del paese, loro che rappresentano l'oppressione storica del Mezzo~iorno, gli eredi dei mazzieri al servizio di una piccola borghesia famelica di impieghi e di tutela delle rendite, loro che portano la resnonsabilità di un disastro nazionale che ha rischiato di distruggere l'Italia come paese unito e indipendente, allora il disprezz.o si trasforma in disgusto ». È doloroso dover constatare come in questi ultimi anni sia tornata a farsi vedere e sentire la risacca fascista e monarchica che aveva investito le regioni meridionali negli anni cinquanta e che 6 BibliotecaGino Bianco

, La nuova destra nel Mezzogiorno sembrava essersi definitivamente esaurita all'inizio degli anni sessanta. Di qui il richiamo di quello stesso corsivo « agli errori delle forze democratiche, che non sono state capaci di sviluppare una politica rigorosa e coerente, indirizzata anzitutto alla tutela delle zone e dei settori più deboli del paese », e quindi la configurazione del neofascismo nel Sud come grave e drammatico problema nazionale. È vero che i successi dei neofascisti nelle elezioni politiche non sono stati così elevati come essi speravano ed altri temevano nel 1\llezzogiorno; ed è anche vero che la tornata amministrativa del novembre scorso ha fatto registrare un soddisfacente arretramento di quei successi, ma non per questo si può essere d'accordo con quanti si sono sentiti consolati e rassicurati sui pericoli dell'~:ffermazione neofascista nel Sud, confrontando i risultati ottenuti dalle destre nelle elezioni politiche con quelli del passato e osservando che, in definitiva, esse non avrebbero poi superato, anzi talvolta non avrebbero nemmeno raggiunto, i voti che avevano quindici o venti anni fa. Il che vorrebbe dire che le destre non avrebbero ulteriori possibilità di espansione nel Sud, e che l'area della loro incidenza e penetrazione sarebbe sostanzialmente quella del passato: in primo luogo il conservatorismo dei ceti privilegiati sempre più insidiati dal riformismo del centro-sinistra, e poi la tradizionale ignoranza delle plebi e delle masse contadine sempre disponibili, per ragioni sentim.entali e di arretratezza storica e sociale, a votare per il Lauro, il Covelli, il Birindelli di turno. Si tratterebbe insomma di una radicata e radicale volontà e mentalità di conservazione, alimentata dal contrasto più generale in atto nel paese fra una sinistra che vuole andare in fretta e una destra che vuole andare piano. Questa analisi, che è in fondo l'unico contributo di ragionamento delle tante manifestazioni - e spesso esibizioni - di antifascismo della classe politica meridionale, democristiana e socialista, è per la verità assai poco convincente e comunque assai semplicistica. I consensi ottenuti dall'estrema destra nel Sud negli anni settanta sono completamente diversi da quelli che essa raccoglieva negli anni cinquanta, sia dal punto di vista della qualificazione sociale, sia sotto l'aspetto delle motivazioni politiche, sia per la carica di rancori, di protesta indiscriminata e soprattutto di reazione violenta al sistema (altro che conservazione!) che li hanno determinati. . La maggior parte dei consensi i fascisti l'hanno riscossa nei 7 BibliotecaGino Bianco

Luigi Compagna centri urbani dove la inerzia e ad un tempo gli. abusi delle classi dirigenti (altro che riformismo!) si sono aggiunti alla gravità dei problemi sociali, economici e civili creati dall'aumento della popolazione, provocato dall'immigrazione dai comuni poveri della provincia. A Catania, a Reggio Calabria, a Bari e a Pescara i partiti democratici hanno retto all'urto della nuova destra assai peggio che non nelle zone interne del Mezzogiorno, nelle campagne o nei piccoli centri delle « provincie addormentate », segnate e provate dal fenomeno contrario dell'emigrazione. E questo significa che proprio nella realtà dalla quale dovrebbe emergere un Mezzogiorno moderno, la realtà appunto urbana, e proprio nelle inadempienze della nuova classe dirigente, condizione fondamentale di uno sviluppo economico e civile del Mezzogiorno che il centro-sinistra avrebbe pur dovuto contribuire a realizzare, la nuova destra - nera e non più azzurra come ai tempi di Lauro o variopinta come ai tempi di Giannini - ha affondato le sue radici. Si articolava su questi due punti d'attacco, strettamente legati l'uno all'altro, il filo conduttore del meridionalismo democratico che, al discorso sui contenuti meridionalistici di un'incisiva politica di programmazione, ha sempre élbbinato il discorso sul rinnovamento dei quadri della politica per il Mezzogiorno e nel Mezzogiorno. Non era l'accettazione integrale dello schema di Dorso, ma, anzi, il suo approfondimento e aggiornamento crf tico nei confronti di quello « schieramento di fossili », che andava prendendo consistenza nelle regioni meridionali fin dall'inizio degli anni cinquanta, che reclamava la necessità e l'urgenza di una definitiva « epurazione dei fossili ». Lo schieramento delle destre nere ed azzurre che nel Mezzogiorno si erano riorganizza te e cominciavano a raccogliere suffragi cospicui, premendo sulla stessa Democrazia Cristiana per dividere con essa il sottogoverno, era l'espressione di tutta una serie di penose manifestazioni di infantilismo politico e di malformazione civile. Il problema era allora quello di denunciare il pericolo che la politica meridionalista, correttamente impostata nei suoi strumenti d'intervento dai governi democratici, fosse poi snaturata nel momento dell'attuazione, a causa dei rapporti di forza che nelle regioni meridionali si venivano configurando in seguito ai successi elettorali dei fascisti e dei monarchici. Si trattava di denunciare ogni cedimento della D.C. nel Mezzogiorno, ogni apertura a destra, più o meno giustificata da uno « stato di necessità » nelle amministra8 BibliotecaGino Bianco

, La nuova destra nel Mezzogiorno zioni provinciali e comunali del Mezzogiorno, ogni concessione di sottogoverno a monarchici ed affini come contropartita dei voti di parlamentari dell'estrema destra a favore dei governi monocolori della D.C.. Vale forse la pena di ricordare come la ragione di fondo per la quale buona parte dei meridionalisti democratici (si pensi, ad esempio, alla posizione assunta da « Il Mondo ») si disse favorevole alla legge maggioritaria del 1953, stesse appunto nel fatto che, per la situazione che si era determinata nel Mezzogiorno, la legge maggioritaria funzionava pjù contro le destre, isolandole rispetto al P.L.I. ed alla D.C., che contro le sinistre. Tramontate comunque attorno agli anni sessanta, attraverso un'incessante erosione delle posizioni elettorali e politiche della destra, le vecchie élites conservatrici, si apriva nelle città meridionali la possibilità di avere finalmente una leadership efficiente ed intelligente, capace di allargare il respiro politico e culturale dell'azione meridionalista, e se si vuole di segnare un autentico « salto di qualità» - l'espressione è oggi sgradevolmente conformista, ma rende abbastanza l'idea - rispetto alle vecchie classi dirigenti. Una leadership animata da salde convinzioni morali e da rigorosi sentimenti civili, espressa e sostenuta dal nuovo quadro di centro-sinistra, decisa ad instaurare nel Mezzogiorno una diversa concezione della vita politica ed amministrativa. La democrazia, intesa come strumento di progresso ma anche di formazione etico-politica e di promozione sociale, avrebbe dovuto penetrare nei grandi enti pubblici, nelle scuole e nelle università .. avrebbe dovuto ispirare la stampa tradizionalmente dominata da giornalisti di destra e da un tetro conformismo governativo. Si deve dire che in questo senso la delusione degli anni settanta è stata davvero enorme. Non solo non vi è stato alcun « salto di qualità », ma vi è stato altresì un certo spirito di continuità fra le nuove classi dirigenti ed il vecchio schieramento dei fossili. Al di là di ogni spregiudicata e strumentale dislocazione a sinistra, al di . là di ogni petulante aspirazione ad « un nuovo modo di fare politica », al di là di ogni enfatica enunciazione di riforma e di rinnovamento, si è rivista in azione, come notava Nicola Matteucci nel suo intervento ad una tavola rotonda organizzata dalla « Biblioteca della Libertà », « una classe politica ·meridionale che ha portato nella vita ·politica tutti i tradizionali difetti della vecchia classe politica meridionale, e cioè il clientelismo, la corruzione e la politica dei posti, da quelli ben remunerati in enti pubblici a quelli di 9 BibliotecaGino Bianco

Luigi Conipagna bidello. L'attività di governo di molti ministri di sinistra D.C. come del P.S.I. nei passati governi si è ridotta soprattutto a questo ». È una diagnosi grave e sotto molti aspetti anche triste ma che si deve avere il coraggio di fare fino in fondo. « La classe politica, che ha gestito le passate esperienze del centro-sinistra, - dice ancora Matteucci - ha una cultura politica, da un lato, pre-industriale e, dall'altro, estremamente provinciale e anti-europea. Il Partito socialista non ha condotto nessun serio dibattito su quello che è avvenuto o sta avvenendo nei partiti socialisti europei (tedesco, inglese o francese) e si rinchiude nel proprio provincialismo meridionale, ridotto alla faida fra due notabili, sottilmente capaci nei Congressi di delineare grandi strategie di sinistra, ma del tutto imbelli a gestire una modernizzazione nelle loro regioni. La sola cosa importante è apparire di sinistra, non di « governare », e fra l'una cosa e l'altra è salvato lo spazio per il sottogoverno ». Era fatale che su questo terreno si inserisse, riprendendo fiato e vigore, l'offensiva della destra fascista, alla quale la cosiddetta base meridionale potrebbe fornire, oggi più di ieri, l'occasione e lo strumento in grado di sgretolare il tessuto unitario del paese e di minacciare le istituzioni democratiche. Le destre qualunquiste, monarchiche e folcloristiche di ieri erano forze di retroguardia che cercavano di difendersi dalla sfida dei partiti di massa e di contrastare lo Stato democratico per salvaguardar~ privilegi di gruppi che non avevano fatto in tempo o non avevano trovato conveniente collocarsi all'interno dei partiti « costituzionali »; ed erano, quindi, sulla difensiva, e destinate, come si era potuto constatare alle elezioni del 1963 e più ancora del 1968, al tramonto. Il neofascismo di oggi, invece, come si poteva leggere in un editoriale di « Settanta » dell'anno scorso, « è. sorto su un terreno diverso, quello dell'urbanesimo caotico e ancora ignoto nelle sue componenti sociali, un miscuglio di piccola borghesia di paese trapiantata nelle città, di sottoproletariato e di semioccupati che non hanno voluto emigrare al Nord o all'estero ma avevano sperato di trovare nelle città meridionali possibilità di lavoro e di benessere, rimanendo profondamente delusi ». La nuova destra, inquadrata dal M.S.I. che - giova ricordarlo - era in minoranza rispetto alle formazioni monarchiche, qualunquiste e anche liberali nel Mezzogiorno di dieci o venti anni fa, è perciò non sulla difensiva, ma all'attacco, contiene una carica di aggressività sociale rnolto forte ed è in grado, come molti episodi 10 BibliotecaGino Bianco

La nuova destra nel Mezzogiorno dimostrano, di sfruttare stati d'animo di protesta e disperazione per porsi come alternativa di sovvertimento. I suoi nuovi quadri, attivi e spregiudicati, sono il più delle volte usciti proprio ·dalle masse di studenti disoccupati, di piccoli borghesi scontenti, da tutto quel ceto che non ha e non vede prospettive in una situazione di disgregazione sociale e di crisi econo1nica come quella attuale. Mentre si diffondevano i mitj del benessere, del consumismo, della società occidentale, e su questi miti cominciava a soffiare l'irrazionale· ventata della contestazione, nel Mezzogiorno, che è storicamente la parte più debole e più arretrata della nostra società, il divario tra questi « miti » e la realtà è apparso sempre più vasto, drammatico e irridente. Restava la contestazione, non quella che avrebbe voluto « proletari e studenti uniti nella lotta » sotto bandiere mai abbastanza rosse, ma quella che vedeva accon1unati i mancati colletti azzurri (si pensi al1a crisi dell'industrializzazione) e i mancati colletti bianchi (laureati, ragionieri, geometri e quanti altri non riescono a trovare adeguati sbocchi lavorativi) di Pescara, L'Aquila, Reggio Calabria in una odiosa escalation fascista. La nuova destra ha saputo trasformare in ostilità quella sfiducia verso lo Stato democratico cui il malgoverno di questi ultimi anni aveva fornito troppi e troppo significativi pretesti. « Per risolvere il problema del Sud occorre anzitutto un ricambio di questa classe politica e imprenditoriale, un'opera di pulizia generale », ha dichiarato a Reggio Calabria Manlio Rossi Daria alla terza assemblea della Lega per le autonomie e i poteri locali. Ed ha aggiunto con rabbia: « sarebbe necessario che tutti gli emigrati meridionali tornassero a casa e prendessero a calci chi ha accettato, o subito, questa situazione. Poi si potrà far rinascere il l\tlezzogiorno ». Nelle parole di Rossi Doria vi è tutta l'amarezza del meridionalismo democratico, che proprio dalle forze democratiche si è sentito più crudamente tradito: comportamenti politici e n1etodi amministrativi che si ritenevano peculiari delle destre e soltanto delle destre hanno trovato continuatori ed imitatori a sinistra. Sono all'interno, non più all'esterno, dello schieramento democratico coloro che, come scriveva « L'Espresso », « pur mostrando di condividere le diagnosi di Rossi Doria, non sanno o non possono o non vogliono dividere le proprie responsabilità da quelle dei centri di potere più compromessi con le mafie, le camorre e i clientelismi che tengono il Sud nelle attuali condizioni ·di arretratezza e di sfruttamento. Applaudire il discorso di Rossi Doria a Reggio non serve a niente 11 BibliotecaGino Bianco

Luigi Compagna se, dopo, ciascuno seguita a comportarsi come se non fosse stato attento ». Si capisce allora come il problema del buon governo sia oggi nel Mezzogiorno essenziale ed imprescindibile, se si vogliono davvero isolare politicamente e moralmente i fascisti ed avviare a soluzione i problemi dello sviluppo economico e civile. A questo impegno, che potrebbe essere il momento della verità per la democrazia nel nostro paese, il nuovo governo di centro-sinistra deve rivolgersi con la massima serenità, ma anche con la massima severità. LUIGI COMPAGNA 12 BibliotecaGino Bianco

Il 25 luglio di Gino Pallotta « Decisamente la fortuna mi ha voltato le spalle »: con queste parole, affranto, sbiancato in volto, Mussolini co1nmentò, nella notte tra il 24 e il 25 luglio di trent'anni fa, la fine del primo «round» o dibattito al Gran Consiglio del fascismo riunitosi a palazzo Venezia per l'esame della situazione politica e militare. Quasi subito, praticamente dalle prime battute che fecero seguito a una prolissa relazione del capo del fascismo, il Gran Consiglio prese un andamento inconsueto, con la manifestazione, da parte di vari gerarchi, d'una serie di interrogativi, di lamentele e, infin~, d'una vera requisitoria che ebbe il suo apice nell'intervento dell'allora presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, ex Guardasigilli ed ex ambasciatore a Londra, Dino Grandi. Alle 2,30 circa del 25 luglio la seduta si scioglieva. Poco distante da Montecitorio, il ministro della Real Casa, Duca Pietro Acquarone, attendeva che Grandi gli riferisse com'era andata. A quel punto, la parola passava al re: e le decisioni di Vittorio Emanuele, covate a freddo, furono - per i loro sviluppi - diverse da quelle che i gerarchi, almeno per certi aspetti, avevano pronosticato. Preceduto dalla severa condanna politica e morale dell'antifascismo militante che in esilio", in Spagna, nella cospirazione o a cospetto del Tribunale speciale aveva tenuto alti i valori della libertà e preceduto, altresì, dagli scioperi del marzo nell'Italia settentrionale, il 25 luglio, come operazione di vertice, appare il punto d'arrivo d'una triplice trama che fece capo a un gruppo di gerarchi fascisti (Grandi, Bottai, Bastianini, Federzoni, Albini e, quindi, Ciano e altri), a un gruppo di militari (Ambrosia, Badoglio, Castellani) e alla Real Casa. Mussolini e il re, Grandi e Acquarone, ap·- paiono nei ruoli rispettivan1ente rivestiti, i maggiori protagonisti della vicenda che è passata alla storia come il 25 luglio. Ma tra le quinte, e a tratti sulla scena, tutta· una serie di altre figure furono coinvolte nella preparazione del voto del Gran Consiglio, nell'arresto di Mussolini e nella nomina, infine, del governo Badoglio, cioè i tre avvenimenti che, collegati un~ all'altro, fanno parte 13 Biblioteca Gino Bianco

Gino Pallotta della sequenza. E, naturalmente, quanto accadde non è spiegabile se non si tiene conto della situazione militare, ormai ad una svolta decisiva perché, ad una serie di rovesci di per sé già praticamente irreparabili, s'era aggiunto lo sbarco degli Alleati in Sicilia. Appena pochi giorni prima, Mussolini aveva pronunciato il ridicolo discorso del bagnasciuga. « Bisogna - aveva detto - che non appena il nemico tenterà di sbarcare, sia congelato su quella linea che i marinai chiamano del bagnasciuga, la linea della sabbia dove l'acqua finisce e comincia la terra ». Viceversa il 10 luglio ebbe inizio (ed apparve subito, ai più consapevoli, irresistibile) lo sbarco degli Alleati, con la VII armata di Patton e l'VIII di Montgomery. Mussolini fu tra i pochi a non rendersi conto, almeno a quel punto, che la guerra era davvero perduta. A distanza di trent'anni, gli avvenimenti che risalgono alla vicenda centrale del 25 luglio appaiono contrassegnati da significati politici i quali spiegano non solo l'atto quasi notarile, si potrebbe dire, del crollo d'una dittatura ma anche eventi successivi che, in un breve volgere di tempo, portarono al tramonto della monarchia. Il popolo esultò nelle strade dei grandi e dei piccoli centri all'annuncio della caduta del dittatore, era la fine di un incubo. Ma sul piano politico immediato la defenestrazione di Mussolini veniva a restituire anche una « chance » alla monarchia, una carta che invece fu sciupata per sempre con la fuga di Pescara ed altri avvenimenti che costituirono un definitivo distacco tra l'istituzione dinastica e il popolo. D'altronde, già da alcune sequenze-chiave del 25 luglio, si delineava l'ambiguità del re, per quanto astuta possa apparire la sua tattica nel gioco che portò alla eliminazione del1' ormai disfatto « Duce » del fascismo. E i gerarchi? Dinanzi alle sconfitte militari e alla dissoluzione del fronte interno, tra loro si faceva strada l'idea di offrire al re la testa di Mussolini, anche se alcuni avrebbero voluto circoscrivere l'operazione nell'àmbito d'una rinuncia soltanto al comando militare. In sintesi, si può osservare che tra i gerarchi del Gran Consiglio si enucleavano questi orientamenti: 1) Restituzione dei poteri militari al re. Mussolini avrebbe rinunciato alla « doppia greca» sul berretto, ma sarebbe rimasto capo del governo. Una variante di questo progetto era quella di togliere i poteri militari a l\iussolini per trasferirli, di fatto, al Comando nazista. 2) Ripristino dei poteri della Corona, poteri non solo militari ma anche politici. Una specie, si disse, di « ritorno allo Statuto ». 3) Riordinamento degli organi di governo fascisti, difesa del regime e guerra 14 BibliotecaGino Bianco

Il 25 luglio a oltranza. 4) Nel quadro del ripristino dei poteri della Corona, la formazione di un governo guidato da Grandi o da Federzoni. Non mancano versioni secondo cui Grandi aveva proposto al re· un Ministero Caviglia del quale avrebbero dovuto far parte alcune personalità cattoliche nonché parlamentari del periodo pre-fascista. Quindi la nomina di Badoglio, che rientrava nei piano elaborati dal re, colse di contropiede anche i più avveduti tra i gerarchi che, si sa, nutrivano vecchi rancori verso il maresciallo piemontese il quale, ai loro occhi, appariva altrettanto compromesso con le responsabilità del fascismo. Paolo Monelli (Roma 1943), Vaussard, G. Bianchi, Ivanoe Bonomi, le interviste di Montanelli, di Bertoldi e di altri giornalisti, memorie, rievocazioni e studi d' autori diversi (Guarigla, Dolfin, C. Rossi, Deanin, Salvatorelli, Tamaro, Galbiati, Dolfin, Bottai e altri ancora): volumi e documenti sul 25 luglio basterebbero, da soli, per riempire una biblioteca. Alcuni dati, fra tante versioni, appaiono certi: anzitutto i congiurati, che s'erano dati appuntamento al Gran Consiglio, riponevano la loro fiducia nella Corona. Benché appaia una singolare coincidenza, per salvarsi dopo il voto del Gran Consiglio anche Mussolini riponeva le sue ultime speranze proprio sul re. È vero, inoltre, che Grandi informò Mussolini sul proposito di presentare l'ordine del giorno praticamente di sfiducia. Un documento che, parlando con il segretario del PNF, Scorza, prima della riunione, Mussolini ebbe a definire inammissibile e vile. Vale a dire, il dittatore non giunse impreparato alla seduta del Gran Consiglio. Resta ancora da chiarire perché non tentò una contromanovra. Eccesso di fiducia, leggerezza o fatalismo? Continuava ad illudersi, dissero alcuni tenendo presenti anche i colloqui telefonici nei quali prometteva vittorie e promozioni ai comandantj militari in Sicilia; rinuncia, disarmo psicologico, crollo morale, ritengono altri. Comunque fossero andate le cose, il « Duce » era certo che il re non l'avrebbe abbandonato. Faceva assegnamento sulle compromissioni tra fascismo e monarchia che Vittorio Ema~ nuele non poteva ignorare; contava, forse, sulla riconoscenza del ·re a cui aveva dato regni e imperi. Per la cospirazione dei gerarchi si può notare che c'era stata una «incubazione» nelle settimane precedenti la riunione del Gran Consiglio. ·Non si trattò solo di vociferazioni. A mano a mano che sul fronte si subivan9 batoste, si diffondeva la tendenza ad abbandonare la nave in pericolo. Venne così a determinarsi il clima psi15 BibliotecaGino Bianco

Gino Pallotta cologico che caratterizzò, per alcuni aspetti, la «. notte dei lunghi coltelli » di palazzo Venezia, nel riemergere anche di antichi rancori. Tra i dati che confermano la dissoluzione in corso e i dissensi al vertice del regime mentre stava per scoccare rultima ora del fascismo, vengono solitamente citati il fallimento delle adunate regionali ordinate da Scorza dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, il « caso Cini » (piuttosto interessante) e persino il tentativo di aprire uno spiraglio per la pace separata. Il « caso Cini »: un episodio, riferito da G. Bianchi (25 luglio, crollo di un regime), che ci riporta all'ultima seduta del Consiglio dei ministri (19 giugno '43), un organo che da tempo aveva perduto un effettivo rilievo politico. Presa la parola, il senatore Cini, allora ministro delle Comunicazioni, pose inquietanti interrogativi a Mussolini. Parve e fu un dissenso non più sanabile. Alcuni giorni dopo, Cini si dimise. Mussolini reagì velenosamente nei suoi confronti e, a parte ciò, il successivo discorso del bagnasciuga sta a confermare che, davvero, il dittatore restava cieco di fronte all'incalzare stesso degli avvenimenti. Poco dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia ( 10 luglio), il sottosegretario agli Esteri, Bastianini, che appariva convinto dell'imminente crollo del regime, propose un sondaggio per una pace separata. Persino Farinacci, il ras di Cremona, manifestava bollori antimussoliniani benché giurasse che era possibile vincere la guerra e salvare il regime, sicché appare verosimile la tesi (raccolta anche da Alfassio Grimaldi e G. Bozzetti in Farinacci, il più fascista) secondo la quale i nazisti lo consideravano una soluzione di riserva per il caso che il « Duce » avesse dovuto lasciare il governo. Che Farinacci facesse la spola con l'ambasciata tedesca era cosa nota a tutti, per cui né Grandi, né Bottai, né altri scoprirono mai con lui tutte le carte del gioco. Ne derivava che i meno informati fra tutti finivano con l'essere proprio i nazisti i quali con teutonica pertinacia avevano puntato le loro scelte, anche per quel che riguardava le informazioni, sul ras di Cremona. Fedelissimo ai nazisti, Farinacci non si fece scrupolo di mostrare a Mussolini (e, c'è da sospettarlo, anche all'ambasciatore di Hitler a Roma, Mackensen) un biglietto in cui Cavallero, denunciata la cospirazione di Grandi, pronosticava che questi giochi avrebbero avuta misera fine perché Acquarone avrebbe messo tutti nel sacco. L'episodio è noto anche perché Mussolini, per tranquillizzare il ras di Cremona, rispose dicendo di non aver proprio niente da temere dal re. E riferì un episodio. « Caro Mussolini - gli aveva 16 BibliotecaGino Bianco

, Il 25 luglio detto il re poche ore prima, battendogli (particolare non insignificante) una mano sulla spalla - son tempi bructi per lei. Ma sappia che lei ha un amico in me, un vero amico. E se, per assurda ipotesi, tutti dovessero abbandonarla, io sarei l'ultimo a farlo ... ». Parola più, parola meno, è confermato che Mussolini contava ciecamente sull'appoggio del monarca che non gli avrebbe negato, in extremis, una ciambella di salvataggio. E a Farinacci non restava, forse, che dar conto di tale certezza a Von Mackensen con il quale aveva -studiato anche il problema, più specifico e perfido, del passaggio dei poteri militari da Mussolini al Comando germanico, tagliando fuori Vittorio Emanuele, l'art. 5 dello Statuto, il « ripristino » dei poteri costituzionali, ecc. Per la Real Casa agivano invece, intensamente, alcuni ambienti militari, cioè quei generali i quali puntavano su una pace separata e ritenevano urgente sbarazzarsi di Mussolini: specialmente ora che, ad invasione avvenuta della Sicilia, la guerra andava, almeno per l'Italia, ad uno sbocco obbligato. Prima e dopo lo squallido incontro di Feltre tra Hitler e Mussolini e i capi militari (dove s'era mostrato in disaccordo, per la condotta della guerra, con i feldmarescialli tedeschi) il capo di stato maggiore, Ambrosia, aveva cercato di mettere Mussolini di fronte alla gravità effettiva della situazione. Almeno per alcuni aspetti, Ambrosia è un altro dei protagonisti della cospirazione: s'intese bene, pare, con Badoglio e con il generale Castellano che, di lì a poco tempo, avrebbe firmato l'armistizio di Cassibile. Dietro i militari c'era il grande regista, il Duca Acquarone. Attraverso l'ex presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, con lo stesso Acquarone giungevano ad avere contatti quegli esponenti dell'antifascismo che erano soliti riunirsi in casa Bonomi o in casa Spataro. Bonomi sperò nel «placet» del re per un Ministero politico guidato da Badoglio: una formazione ministeriale che separasse subito l'Italia dalla Germania nazista. In altri termini, l'anziano ma ancora valido uomo politico (destinato, peraltro, a succedere a Badoglio - in quanto presidente del Cln - nella leadership governativa) nei giorni che precedettero il 25 luglio proponeva un Ministero apertamente antifascista, con la partecipazione delle varie correnti politiche e pronto a rompere con i nazisti. Ma la Real Casa era orientata per un Ministero di funzionari attorno alla figura ·di un soldato; e, _quanto alla Germania, lo « sganciamento » sarebbe avvenuto per gradi. Comunque, con Bonomi il re non fece trapelare quali fossero i suoi propositi: si mostrò impe17 BibliotecaGino Bianco

Gino Pallotta netrabile, freddo, diffidente. Ed è risaputo che no.n riponeva alcuna fiducia negli esponenti del pre-fascismo giudicandoli, disse, dei morti risuscitati. È stato osservato che il re, nell'estate 1943, attendeva un'occasione, un « espediente costituzionale » per entrare in scena e togliere il potere, militare e politico, a Mussolini. L'atteso voto del Gran Consiglio sarebbe stato dunque l'occasione che il sovrano auspicava: non un colpo di forza ma una soluzione, se non comoda, certamente « indolore », quasi una presa d'atto, la testa del dittatore offerta al monarca. Ci sarebbe di che dire che i gerarchi stavano lavorando per il « re di Prussia». Ma essi speravano di poter avere ancora una parte, anche nel « dopo-Mussolini », senza rendersi conto che, a quel punto, il loro destino si sarebbe fatto quanto mai incerto e precario. Tra i suoi piani, oltre all'arresto di Mussolini, il re aveva anche quello di dare il benservito ai protagonisti della congiura, persino a Grandi, il più abile fra tutti (solo Bastianini infatti ottenne un incarico diplomatico ad Ankara, pur tra le proteste dei circoli antifascisti). Nel frattempo, mentre si attendeva il voto del Gran Consiglio, i militari organizzavano l'arresto di Mussolini, un compito che, concertato con Senise, fu poi rimesso al generale Cerica, nuovo comandante (alla morte di Hazon) dell'arma dei carabinieri. Paolo Monelli (Roma 1943) ci ha dato, praticamente all'indomani della liberazione di Roma, un resoconto della seduta del Gran Consiglio al quale, benché siano passati trent'anni, poco, di sostanziale, hanno potuto aggiungere le successive ricerche. Prima che la riunione cominciasse, Mussolini era passato da uno stato d'animo all'altro. Cosa sarebbe stato, si chiedeva il dittatore, quel Gran Consiglio: una « trappola » o una « riunione confidenziale »? Anche tale incertezza, prova che egli aveva perduto completamente il controllo della situazione. La prolissa relazione, il tentativo di scaricare solo su altri la responsabilità dei rovesci :µiilitari, la puerile autodifesa sulla delicata questione dei Comandi militari (l'ex caporale Mussolini. affermò di non aver mai sollecitato il massimo comando: questo, a suo avviso, era stato un grazioso dono del re, sollecitato, a parere del « Duce », proprio da Badoglio); questi ed altri punti del discorso mussoliniano non fecero che accrescere l'irritazione di chi s'era recato al Gran Consiglio pronto ad attaccare anche se ìa partita appariva incerta per tutti (alcuni dei gerarchi, Grandi stesso, erano entrati nella sala del Mappamondo con un paio di bombe in tasca: meglio vender 18 BibliotecaGino Bianco

Il 25 luglio cara la pelle, se necessario). Ma, soprattutto, con la sua relazione, il dittatore apparve fiacco e vulnerabile. Quella esposizione fu contrastata subito anche da De Bono e De Vecchi, sicché Grandi, quando ebbe a prendere la parola per illustrare l'ordine del giorno, trovò il terreno già arato. E, a questo punto, deve dirsi che le più diverse testimonianze concordano nel sostenere che l'intervento di Grandi suonò come una spietata requisitoria. L'antagonista numero uno vuotò il sacco: sotto il peso di quelle accuse il dittatore apparve, anche fisicamente, disarmato e stravolto. Nessun soccorso gli venne da Ciano che fece una filippica sui rapporti con l'alleato germanico, né da De Marsica, Federzoni e Bottai. Una grossolana difesa dell'alleato germanico, fatta da Farinacci, parve poi rendere ancor più pesante l'atmosfera. La breve sospensione della seduta non servì a placare gli animi. Semmai ne approfittò Grandi per far firmare ad altri gerarchi il suo ordine del giorno. Che a difendere Mussolini, dopo un attacco portato da Bastianini, fosse proprio il presidente del Tribunale speciale, Tringali-Casanova, appare piuttosto indicativo. La verità vera è che ormai il « Duce » stava per essere sconfessato dallo stesso sinedrio che aveva posto al vertice del regime. Un tentativo di riprendere nelle mani gli sviluppi della discussione, rese ancor piii evidente, per la freddezza con cui il nuovo intervento venne accolto, che la partita era perduta. Penoso, in particolare, apparve il riferimento alla « chiave » che avrebbe permesso di risolvere la situazione: non si capì bene se Mussolini voleva alludere alle armi segrete del Reich (una favola a cui nessuno credeva più) o ad una « carta politica» (l'appoggio del re). In ogni caso, faceva male i suoi conti. Si arrivò, senza rinvii (tuttavia tentati), alla votazione: 19 sì al documento Grandi, 7 contrari, 2 astenuti. Una sconfitta schiacciante per il dittatore di palazzo Venezia. Era anche il risultato atteso dalla Real Casa: su quell'ordine del giorno, formalmente, crollò il regime. Il gioco tornava, in pieno, nelle mani del re: en:\. il documento stesso a fare di Vittorio Emanuele l'arbitro della situazione. Come si sa, l'ordine del giorno faceva riferimento al1'« immediato ripristino » delle funzioni della Corona e degli altri organi stata~i, si richiamava alle « leggi statutarie e costituzionali », «pregava» la Maestà del re di_« assumere, con l'effettivo comando delle Forze armate di· terra, di mare e dell'aria, secondo l'art. 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione ... ». 19 BibliotecaGino Bianco

Gino Pallotta E così via. Dunque, stava per avere l'avvio un nuovo atto nella complessa vicenda del 25 luglio. Con autentica dabbenaggine, Mussolini era ancora certo che, dopo la sfiducia votatagli dal Gran Consiglio, avrebbe avuto rinnovata, invece, la fiducia del re. Qualcuno, a palazzo Venezia, gli consigliò di far arrestare i diciannove firmatari dell'ordine del giorno Grandi. Rispose che ne sarebbero andati di mezzo anche dei Collari dell'Annunziata; non aveva l'energia sufficiente, comunque, per tentare una sorta di « notte di San Bartolomeo ». Quando poi, l'indomani mattina, ebbe notizia del ripensamento o pentimento di Cianetti, lo interpretò come di buon auspicio. Nel pomeriggio di quel 25 luglio si sarebbe recato dal re, a villa Savoia, per un chiarimento; certo, avrebbe dovuto rinunciare ai poteri militari ma il potere politico, riteneva Mussolini, non avrebbe subìto sostanziali mutamenti. Il re, insomma, non lo avrebbe mollato a causa di quel documento che probabilmente, pensava Mussolini, non aveva effetto vincolante. Invece, con un colloquio di 20 minuti, Mussolini venne liquidato. Sotto choc, non capì nemmeno perché l'avessero fatto salire su un'autoambulanza posteggiata dinanzi villa Savoia. Tutto accadde nel giro di poche ore: ma se l'operazione-arresto riuscì egregiamente, la sorveglianza, sul Gran Sasso, fu così precaria che bastò assai poco ai nazisti per eseguire il colpo di mano e liberare il fedele alleato ridotto uno straccio d'uomo. Sono comportamenti che già preludono al discorso sulle responsabilità della monarchia per 1'8 settembre. Ma, a parte ciò, si deve dire che i nazisti, i quali liberando Mussolini si prendevano una rivincita, non erano riusciti a capire in tempo, alla pari del « Duce», quale sbocco avrebbero avuto gli avvenimenti che precedettero il voto del Gran Consiglio. All'ambasciata e ai Comandi nazisti non giunse nessuna sicura notizia, prima del 24-25 luglio, su ciò che si stava preparando. La congiura di palazzo, anzi l'incrociarsi di più congiure, li colse di sorpresa, anche se ormai prevedevano un collasso da parte del1' alleato italiano. Anche se Hitler andò su tutte le furie, i Comandi germanici esclusero, all'indomani del 25 luglio, un'azione di forza. Certo, le SS e le forze armate hitleriane si sarebbero mosse se, ad esempio, Galbiati, con la divisione « M », avesse dato battaglia. I nazisti sperarono in qualche iniziativa di Farinacci, ma tutte queste speranze caddero presto. Galbiati, si sa, si fece mettere alla porta senza colpo ferire. E, sempre in quei giorni, Farinacci si recò 20 BibliotecaGino Bianco

Il 25 luglio all'ambasciata germanica, ma per chiedere protezione. Ma è anche vero che, impotenti ad agire all'indomani del 25 luglio, le autorità germaniche, politiche e militari, non si limitarono a rimuginare sui motivi per cui Mussolini, « tradito » dai gerarchi e raggiunto dalla «vendetta» del re, era caduto. Non avevano nessuna fiducia in Badoglio, né credettero alla validità effettiva della locuzione famosa, « la guerra continua», che tuttavia tante proteste suscitò tra gli antifascisti. I gerarchi guidati da Grandi, i militari, la Real Casa, ecco i protagonisti maggiori della complessa matassa del 25 luglio che si dimostrò, è stato detto, un incontro tra più congiure. In quella operazione al vertice, l'antifascismo militante quasi non appare. Operava in altri settori. Ma a Roma i contatti attorno a Bonomi non erano mancati e poi, durante i 45 giorni badogliani, con Bonomi si riunirono ancora De Gasperi, Giorgio Amendola, La Malfa, Buozzi, Salvatorelli, Ruini ed altri esponenti politici, mentre il Mondo, di cui all'indomani del colpo di Stato uscì un numero praticamente alla macchia, diceva per tutti gli italiani: « Viva l'Italia libera! ». GINO PALLOTTA 21 BibliotecaGino Bianco

GIORNALE A PIU' VOCI Racconti meridionalisti I figli del Sud s'intitola un singolare libro di Giovanni Russo, uno dei giornalisti italiani più competenti ed attenti in merito ai problemi del Meridione, alle condizioni esistenziali e sociali del Sud da lui interpretate alla luce di una moderna e consapevole cultura che, com'è stato notato, identifica le sue radici, per la chiarezza e la lucidità della pagina (anche come fatto di stile) e per la visione criticamente europea, nell'illuminismo napoletano e meridionale mediato attraverso il pensiero crociano e la problematica meridionalista del Dorso, del Fortunato e del Salvemini. I suoi servizi su « Il Mondo » e ora sul « Corriere della Sera », i suoi libri che li raccolgono, come Baroni e contadini, L'Italia dei poveri, Chi ha più santi in paradiso, ci davano già una dimensione ideologicamente e culturalmente precisa, ben definita, di impegno sociale e passione umana e razionalità critica contemperati e integrantisi reciprocamente in una misura di grande efficacia conoscitiva. Ma questo nuovo volume or apparso in una collana dei fratelli Fabbri destinata alle scuole medie, e che ha per sottotitolo « Racconti e personaggi del Mezzogiorno d'Italia dal taccuino di un giornalista», possiede indubbiamente, rispetto ai precedenti, la singolarità non solo della destinazione e dello scopo ( « il primo libro di letture per la scuola » si legge nella prefazione « che presenti ai ragazzi con la vivacità della prosa giornalistica e della testimonianza diretta di casi umani il nostro più grande problema nazionale, quello del Mezzogiorno d'Italia ») ma della sua stessa composizione e struttura, raccogliendo pagine che non certo ai ragazzi erano rivolte e che si qualificano e si privilegiano sugli altri volumi del Russo per una più scoperta e quasi sempre vivissima felicità narrativa, con toni e passaggi dj intensa (pur se non mai abbandonata all'effetto, ma contenutissima e vigile) suggestività evocatrice. Si veda in proposito un capitolo come « I tredici briganti», scritto neJ 1947 in pieno periodo neorealistico e pur così assunto in un clima quasi di favola, o certe aperture come la prima pagina del « Teatro di San Carlino » tutta atmosfera ed ambiente, o certi particolari psicologicamente rivelatori più di un'analisi o di un ritratto minuto, come la valigia di cartone aperta col pezzo di pane sulla biancheria in « San Rocco e il mago », o certi episodi di << Incontri in Calabria» come quello del capostazione dì Cassano e i due giovani suonatori, o quello dell'arancia del barone L.; e su un piano più dichiaratamente documentario il capitolo « Un milanese nel Sud» che pur riesce a sbozzare un personaggio ed un clima ed una situazione sociale con pochi tratti e notizie, in un andamento che diventa così cordialmente e naturalmente racconto. 22 BibliotecaGino Bianco

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