Nord e Sud - anno XVIII - n. 139 - luglio 1971

I Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Pagine scelte in occasione del numero 200 della rivista Ugo La Malfa, Mezzogiorno nell)Occidente - Aldo Garosci, ~itorno alla ragio11estorica - Manlio Rossi D·oria, Contadini e agricoltori nell)avvenire del Mezzogiorno - Renato Giordano, Guido Dorso e << L)Azione >> - Vittorio de Caprariis, De Sanctìs) << precursore >> conteso - Nello Ajello, La Sicilia di Brancati - Giuseppe Ciranna, Un << gruppo di · pressione >>: la Coldiretti - Rosellina Balbi, Davide nel reame di Marx. ANNO XVIII - NUOVA SERIE - LUGLIO r97r - N. 139 (200) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Bibliotecaginobianco .. ... .,. . .,.. , .. -

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XVIII - LUGLIO 1971 - N. 139 (200) DIREZIONE E REDAZIONE: Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.346 Una copia L. 600 Estero L. 900 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 5.000, semestrale· L. 2.700 - Estero annuale L. 6.000, se1nestrale L. 3.300 - Fascicolo arretrato L. 1.200 - Annata arretrata L. 10.000- Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via Carducci 29, Napoli Bibliotecaginobianco

SOMMARIO Editoriale [ 3 ] Ugo La Malfa Mezzogiorno nell'Occidente [6] Aldo Garosci Ritorno alla ragio11e storica [ 17] Manlio Rossi Daria Contadini e agricoltori nell'avvenire del Mezzogiorn.o [24] Renato Giordano Guido Dorso e «L'Azione» [36] Vittorio de Caprariis De Sanctis, « precursore » conteso [ 48] Nello Ajello La Sicilia di Brancali [72] Giuseppe Ciranna Un « gruppo di pressione »: la Coldiretti [84 J Rosellina Balbi Davide nel reame di Marx [112] Bibliotecagino· neo

, Editoriale • Quando cominciammo a pubblicare « Nord e Sud» ci propo11evamo di approfondire ed aggiornare la conoscenza della realtà, n1eridionale del nostro paese, nelle sue uniformità, nelle sue varietà, nel suo immobilismo tradizionale e nelle modificazioni che fi11d'allora avevano cominciato ad investirla: « la nostra rivista - scrivevamo nell'editoria.le del dicembre 1954, numero 1 di « Nord e Sud » - si propone appunto di contribuire alla valutazione dei nuovi dati della realtà meridionale e di esercitare u11a pressione costante per adeguare a questi dati l'orientamento dei governi, dei partiti, della stampa, dei gruppi qualificati di pubblica opinione ». Giudichino i lettori fino a che punto abbiamo saputo far fronte al co1npito che ci eravan10 proposti; e giudichino, altresì, se sia1110 riusciti a portarci e a restare all'altezza « di quella tradizione di cultura meridionale che storicamente si è realizzata soprattutto come tramite fra la moderna coscienza ci'vile dell'Europa e l'arretratezza clella società meridionale »; di quella tradizione liberale, « la sola tradizione di cui l'Italia meridionale possa trarre intero vanto », alla quale ci siamo sen1pre riferiti, per tradurne sul terreno politico « la continuità e la vitalità ». Noi ci sottoponiamo con serenità a questo g·iudizio, perché ritenian10 di essere stati coerenti: coerenti soprattittto co11 il nostro impegno anticonformistico, fatto valere polernicamente sia contro il conformismo di destra, che è stato dilagante 11egli anni '50 e nella prima metà degli anni '60, e che potrebbe tornare a manifestarsi con invadenza negli anni '70, sia contro il conformismo di sinistra, che ha contaminato negli ultimi anni quello spirito critico che dovrebbe essere il connotato permanente della sinistra, e che con1unque è l'orgoglio della sinistra seria e politicamente responsabile, quale che sia la sua specifica matrice etico-cultitrale, crociana, salveminiana o gra1nsciana. D'altra parte, a questo giudizio dei nostri lettori, noi ci sottoponiamo nel momento in cui ci è consentita la constatazione di aver pubblicato duecento numeri della rivista. Ed è certo motivo di intima e legittima soddisfazione, per i fondatori di una rivista, poter constatare che alcuni dei collaboratori e parecchi dei lettori frequentavano ancora la scuola elementare qua11do, fra molte speranze ad altrettante apprensioni, essi, i fondatori, riuscirono a pubblicare il primo numero. Si sono voluri ricordare i fonda tori perché due di essi sono 3 Bibiiotecaginobianco

Editoriale presenti soltanto nella nostra memoria con ricordi incancellabili: l'uno di essi non ha visto pubblicato il numero 100 e l'altro non vede pubblicato il numero 200; ma senza l'uno e senza l'altro, « Nord e Sud » non sarebbe nata e non sarebbe cresciuta; e senza di loro è stato ed è molto difficile tenersi all'altezza della dignità culturale e pubblicistica che la rivista aveva raggiunto quando poteva avvalersi di contribilti come quelli che le assicuravano Renato Giordano e Vittorio de Caprariis. Con i fondatori, nel mome11to in cui pubblichian10 il duecentesimo numero di « Nord e Sud », vogliamo ricordare con gratitudine tre amici che ci sono stati sempre molto vicini: V go La Malf a, che ha, per così dire, tenuto a battesimo la nostra rivista ( e non solo qitando ha scritto l'articolo di fondo del primo nun1ero, ma anche prima, quando disse a Raffaele Mattioli, che a sua volta lo disse ad Arnoldo Mondadori: « questa rivista s'ha da fare »); Aldo Garosci, che, così come ci ha elargito preziosi consigli, non ci ha risparmiato i suoi sempre intelligerzti rilievi critici (e degli uni con1e degli altri è testimonianza eloquente l'articolo che pubblicammo proprio nel nun1ero doppio che commemorava Vittorio de Caprariis, tln anno dopo la sila scomparsa); Manlio Rossi Daria, che dai lontani giorni del 1945 ha irLsegnato a noi come « dipanare » quello che Guido Dorso chiamò « il mitico filo d'Arianna della questione meridionale » e che poi, anno dopo anno, lo ha « d_ipanato » insieme a noi, mai facendoci mancare il suo contributo di scritti, di idee e più ancora di sentimenti. Né ci si stupisca che questi tre nomi richiamino oggi tre partiti politici della maggioranza democratica di centro-sinistra: sono qi1ei partiti che insieme, e sia pure in una controllata concordia discors, dovrebber_o assicurare sul versante laico l'equilibrio democratico e che comunque, sommandosi, danno luogo alla massima consistenza possibile della componente laica di questo equilibrio; e sono tre nomi che ritornano tutti nella cronaca e nella storia del Partito d'Azione come nei sommari del « Mondo » di Mario Pannunzio. Ecco: « Nord e Sud » ha sempre riconosciuto nel Partito d'Azione un suo fondamentale punto di riferimento, come lo lza sempre riconosciuto nel << Mondo » di Pannunzio; ed ha sempre sentito il problema dell' eqitilibrio politico in Italia come proble1na di equilibrio fra la componente laica e la componente cattolica dello schieramento democratico, adoperandosi per l'unità d'azione fra i laici e contro le divisioni che troppo spesso e troppo dolorosamente l'hanno insidiata o addirittura compromessa. 4 Bibiiotecaginobianco

Editoriale Perciò, quando abbiamo deciso di dare al nostro duecentesimo numero un'impostazione che valesse, per così dire, a ricordare, se non a celebrare, la nostra anzianità, e proprio pensando ai più giovani fra i nostri collaboratori e lettori, abbiamo scelto i nomi di La Malf a, di Garosci, di Rossi Do ria, per aprirne il somniario. Ed accanto a questi nomi, abbiamo naturalmente collocato quelli dei due fondatori: un articolo di Renato Giordano su Guido Dorso ed un articolo di Vittorio de Caprariis su Francesco De Sanctis: due articoli che dicono molto, proprio se si accostano i nomi degli autori rispettivamente a quello di Dorso (del quale Renato Giordano, giovanissimo, fu segretario di redazione) ed a quello di De Sanctis ( le cui opere de Caprariis aveva frequentato molto intensa1ne11te quarldo aveva scritto il suo libro su Guicciardini). A completamento di questo sommario del nostro duecentesimo fascicolo, abbiamo quindi scelto contributi che alla rivista hanno dato Nello Ajello, Giuseppe Ciranna, Rosellina Balbi. Nello Ajello, oggi vicedirettore dell'« Espresso », è stato il primo redattore-capo di « Nord e Sud» e, quando emigrò al Nord, fu Giuseppe Ciranna, venuto da Potenza, a succedergli. Da quando Ciranna si è trasferito a Ronia, dove dirige le « Edizioni della ' Voce ' », è infine Rosellina Balbi che regge il peso redazionale della rivista, aggravato negli ultimi tempi dalle assenze del direttore ed alleviato dalla soddisfazione di- 1;eder continuata ed arricchita u11a funzione etico-politica che consiste anche, se non soprattutto, nel cercare nuovi « talenti » e lanciare nitove <, firme ». A questo proposito, alcuni anni or sono, in una « autobiografia » della rivista, scritta dal direttore e dal condirettore (Francesco Compagna e Giuseppe Galasso, Autobiografia di « Nord e Sud », gennaio 1967), scrivevamo che con giovani e nuovi amici avrem1no tentato di « continuare ». Ci siamo riusciti e tocchiamo ora il traguardo del ditecentesimo numero; e più che mai contiamo di poter a11dare anche oltre questo traguardo, grazie ai nuovi talenti, grazie alle nuove firme. Ma sempre ancorati saldamente alla collocazione politico-culturale che abbiamo scelto e definito nel dicembre del 1954: alla confiuenza dei due grandi filoni che lianno concorso a qualificare ed a nobilitare la moderna cultura politica in Italia; alla con-fluenza, cioè, del filone che da Francesco De Sanctis conduce a Benedetto Croce con il filone che da Carlo Cattaneo conduce a Gaetano Salvemini. F. C. 5 Bibliotecaginobianco

Ugo La Malfa Mezzogiorno nell'Occidente Che cosa è questo problema del Mezzogiorno, questa drammatica insufficienza del Mezzogiorno, questo sforzo del Mezzogiorno di uscire dalla sua stagnazione, se no11 il problema che i giovani intellettuali meridionali portano nel loro spirito, hanno vissuto fin dal loro primo affacciarsi ad u11a vita consapevole? Non intendo con ciò dire cl1e altri no11 avvertano il problema, che i contadini, cl1e la piccola borghesia, che gli eterni disoccupati e gli eterni derelitti del Mezzogiorno, non siano martori8:ti da quei problemi e da quella soffere11za, non siano essi i protagonisti del dramma. Intendo soltanto dire che la qualità di intellettuale ha servito a rendere spietatamente chiari i termini del problema, a farli entrare in tutti i dominii ci.ella vita spirituale, oltre che economica e sociale. E se, qualche volta, i giovani intellettuali del Mezzogiorno possono « nordicizzarsi » ed emigrare, partecipare cioè· ad una diversa condizione di vita, essi non potranno mai dimenticare le caratteristiche, singolari condizioni ambie11tali nelle quali sono cresciuti. Da questo punto di vista, la qualifica, la parola « meridionale » ha un senso ben preciso. Essa definisce u11a particolare condizione di vita, una maniera di essere di alcuni milioni di italiani; essa presuppone un particolare stadio di civilizzazione umana e, per ciò, stesso, un confronto ed un paragone. Quando oggi noi parliamo, con linguaggio ultramoderno, di aree depresse o di zone arretrate o sottosviluppate, esprimiamo molto di meno, e di più generico, di quel che il termine « meridionale » esprima. Poiché aree depresse o zone ad economia arretrata o sottosviluppata possono considerarsi l'India o l'Egitto, la Cina o il Messico o non so quanti altri paesi, ma manca a tali vasti territori una condizione che appartiene più propriamente al Mezzogiorno d'Italia: l'essere cioè. questa un'area sottosviluppata o di depressione, nell'ambito di una civiltà nazionale e internazionale caratteristica dei paesi dell'Europa occidentale. Noi possiamo parlare dell'India o dell'Egitto, come di paesi al di fuori della storia interna dell'Europa; non possiamo parlare 6 Bibiiotecaginobjanco

I Mezzogiorno nell'Occidente della Sicilia o dell'Abruzzo, della Campania o delle Puglie nello stesso senso. Il Mezzogiorno ha partecipato al moto civile e culturale dell'Europa occidentale, anche se non gode oggi delle condizioni economiche e sociali, morali e culturali, di questa più vasta area. E in ciò non può essere interamente assimilato alla Jugoslavia o alla Turchia, come ha fatto, nel suo rapporto, la Commissione Economica per l'Europa 1 , tanto meno all'Egitto o all'India; bensì può dividere la sua drammatica singolarità con la sola Spagna o, con riguardo a un'età che è ormai troppo storicamente lontana per caratterizzare problemi attuali, con la Grecia. Ma se Mezzogiorno non vuol dire soltanto area depressa e sottosviluppata, ma vuol dire area depressa e sottosviluppata nel1' ambito di una storia e di una civiltà delle quali si è fatto diretta parte, per comprendere il Mezzogiorno è essenziale non trascurare questa peculiarità. Il Mezzogiorno non può, a differenza di tante altre regioni, avere l'onore e l'onere di una civiltà autonoma, distinta dalla civiltà della quale fa parte storicamente. L'India può attuare i progressi tecnici, economici e sociali della civiltà europea e rimanere India, così la Cina, e così, per molti versi, la Russia. Ma così non può essere per il Mezzogiorno italiano. D'altra parte in tutti i paesi che oggi si pongono, in termini di attualità, il problema della .realizzazione di un tipo di civiltà « non arretrata», qual'è ad esempio la civiltà occidentale europea, vi è un elemento di orgoglio nazionale e di emulazione insieme. Essi i11tendono conseguire la modernità della loro vita economica, sociale e culturale, così come l'Europa occidentale ha saputo conseguirla, ma vogliono nello stesso tempo contrapporre una loro civiltà a quella civiltà (è soprattutto la tesi comunistico-nazionalistica dei paesi orientali); hanno insomma l'obiettivo della emulazione e della contrapposizione insieme. Il Mezzogiorno 110nè in questa condizione. Esso è l'Occidente senza le condizioni economiche, sociali, culturali che caratterizzano l'Oc1 Del resto la stessa Comn1issione economica per l'Europa ha riconosciuto ciò quando ha affermato, in altra parte dello stesso rapporto, che l'essere il Mezzogiorno « la parte depressa di una più grande entità nazionale .. rende l'Italia meridionale un caso del tutto specifico, non facilmente comparabile con i problemi degli altri paesi dell'Europa meridionale » (Economie Survey of Europe in 1953, pagina 137); o quando, collateralmente, ìn contrapposizione ai paesi dell'Europa orientale. afferma che « la regione n1edi terranea è stata la culla del] a civilizzazione europea e alcuni paesi europei meridionali· furono fiorenti e potenti solo pochi secoli fa. Essi sono paesi di sviluppo economico arretrato piuttosto che paesi che non hanno conosciuto la civiltà moderna ». Gli aspetti con1plessi di una civilizzazione sono presenti nel rapporto, anche se si tratta di un rapporto econo1nico. 7 Bibiiotecaginobianco

Ugo La Malfa cidente. Esso non è un Oriente occidentalizzato:· è un Occidente orientalizzato. Questo elemento caratteristico del Mezzogiorno, questo essere il Mezzogiorno un Occidente decaduto, è stato sempre chiaro ed univoco nella coscienza più avanzata del Mezzogiorno. Si può dire che tutta la storia politica sociale e culturale del Mezzogiorno ha visto contrapporsi una coscienza moderna occidentale allo stato di arretratezza generale del paese, alla ignoranza e all'oppressione dei ceti più ricchi, al clientelismo e al provi11cialismo delle orga11izzazioni politiche, economiche e sociali locali. L'opera delle minoranze meridionali ha potuto avere maggiore o minore successo (dal Risorgimento in poi essa ha avuto, per lo meno, il merito di aver posto il problema all'attenzione dell'Italia), ha potuto essere più o me110 feconda, ma essa era univoca riel suo indirizzo, ed era u11ivoca perché tutta la storia del Mezzogiorno si lega ad una esperienza occidentale. E del resto, in un campo specifico, come quello culturale, questa capacità del Mezzogiorno di legarsi all'Occide11te ha raggiunto le forme più alte e più impegnative. Il crocia11esimo, come fenomeno di grandissima cultura, non rapsodico, non occasionale, ma frutto di lunga tradizione e maturazione, è lì a testimoniare una capacità di circolazione occidentale ed europea del Mezzogior110 che, se non rispeccl1ia direttamente la vita dei co11tadini meridio11ali, come rilevano alcuni dogmatici censori, rispecchia una maniera di essere della vita meridionale che non può essere né trascurata, né sottoval11 tata. Si è affermato di recente che l'opera di queste rninoranze è stata economicamente e socialmente improduttiva, che la democrazia politica, ideale dell'Occide11te, non ha saputo dare nulla al Mezzogior110. Da Matteo Renato Imbriani a De Viti De Marco, da Giustino Fortunato a Salvemini, a Dorso, il pensiero democratico meridionale si è battuto sul terreno delle idee, della conosce11za spregiudicata e profo.nda dei problemi meridionali, ma non ha organizzato né forze, né soluzioni organiche dei problemi. La democrazia gioli~tiana non è stata influenzata dall'azione di queste minoranze, che anzi sono state osteggiate da quella o l'hanno osteggiata; e tanto meno ne è stato influenzato il fascismo. È su questa aspirazione mancata, su questa volontà tesa del Mezzogiorno culturale verso l'Occidente, non realizzata sul terreno economico e sociale, che si è inserito il grande tentativo comunista. Il comunismo ha avuto il merito, nel Mezzogiorno, di rendere politicamente attivi 8 Bibliotecaginobianco

I Mezzogìorno nell'Occide11te molti strati sociali tra i più miseri e sprovveduti, di sapere dar loro un'orga11izzazione, di sottrarli all'oppressione, al clientelismo, al provincialismo, alla corruzione. Ma il limite obiettivo al comunismo, la sua reale difficoltà di conquista della vita italiana è dato, anche nel Mezzogiorno, anche 11ella desolazione economica e sociale della vita meridionale, dal1' esistenza di una tradizione storica e culturale di carattere occidentale. In altre parole, se il comunismo, come propagazio11e di una dottrina e di una esperienza proprie di un grande paese orientale, trova il suo limite obiettivo nelle condizioni di civiltà della Valle Padana e di altre zone d'Italia (e questo consente a scrupolosi osservatori di parlare di una saturazione del movimento comunista nel Nord e nel Centro d'Italia) e 11ella struttura, quindi, prevalentemente occidentale di quell'economia, un analogo limite esso trova nel Mezzogiorno, anche se l'ambiente economico è qui più arretrato e alcune condizioni più favorevoli. E lo trova, ripeto, o dovrebbe trovarlo, perché anche nel misero, nell'arretrato, nell'incolto, nel feudale Mezzogiorno, l'Occidente ed il suo spirito di libertà, la sua cultura, i suoi ordinamenti economici e sociali sono prese11ti, almeno come termini di paragone. Il contadino meridionale non è il milgik, anche se misero ed oppresso come quello. Del resto, la stessa celebre tesi gramsciana, sulla quale si fonda l'azione ideologica e politica del comunismo, la tesi secondo cui il rinnovamento della società scaturirà dall'incontro e dall'unione degli operai del Nord e dei contadini del Sud, mostra nei confronti, oltre che del Nord, del Mezzogiorno, la sua astrattezza dogmatica e il suo semplicismo schematico. La struttura econornica, sociale, culturale dei paesi dell'Occidente è troppo complessa perché si adatti allo schema operaistico con il quale Gramsci vede la realtà del Settentrione d'Italia. La differenziazione dei ceti, il relativamente alto livello di vita di alcu11i operai, l'articolazione della vita sociale nelle stesse campagne, costituiscono il limite all'espan., sione comunista, che più sopra abbiamo individuato. Ma quando si passa al Mezzogiorno, la distanza dal Nord, malgrado sia a11c0Ta troppo grande per assicurare una stabilità politica e sociale, è tuttavia troppo piccola perché elementi di confronto e di paragone non esistano, e perché la tesi strettamente classista conservi la sua validità in confronto ad altre valutazioni ben più complesse e ricche. Il contadino del Sud, e non s·olo il co11tadino, ma l'artigiano, l'operaio, il piccolo borghese, sentono istintivamente che l'operaio del Nord vive, proprio come operaio, in una condizione, in un am9 Bibiiotecaginobianco

Ugo La Malfa biente, in una possibilità che non sono i loro· ed ai quali essi aspirano. Mezzogiorno e Piemonte non sono sullo stesso piano, anche pensando ai soli operai della Fiat; e il Mezzogiorno aspira, in primo luogo, a diventare Piemonte. E Pal1niro Togliatti, per dare una qualche validità allo schema gramsciano, ha dovuto inventare, nel suo discorso di Napoli del 30 maggio scorso 2 , la stagnazione generale della vita economica milanese per vedere cominciare ad affiorare qualche « elemento di somiglianza fra due condizioni italiane (Nord e Sud) profondamente diverse ». l\lla non si possono certo ridurre le condizioni di Milano alle condizioni di Napoli, per assicurare allo schema gramsciano una validità dottrinaria e alla rivoluzione comunista probabilità di attuarsi. Dunque il comunismo incontra o dovrebbe incontrare il suo limite a11che nei riguardi di una struttura economica e sociale arretrata, ma di una civiltà storica ricca, quale è quella del Mezzogiorno. Ma limite fino a quando e rispetto a quali forze? Non certo rispetto alle forze tradizionali, clientelistiche, paternalistiche o addirittura oppressive e reazionarie del Mezzogiorno; non certo rispetto alle minoranze intellettuali eroiche, che l1anno arricchito la vita culturale del Mezzogiorno, ma sono rimaste isolate ai fini delle realizzazioni pratiche. Il limite all'azione comunista nel Mezzogiorno d'Italia, come in tutta l'Europa occidentale, può essere segnato dai postulati ideali, dalla capacità di azione, dalle concrete realizzazioni di una democrazia moderna. Se il comunismo ha avuto partita vinta rispetto a tl1tte le forme di reazione sociale e fascistica, rispetto a tutte le manifestazioni della democrazia formale, esso dovrebbe avere compito ben più difficile rispetto alle manifestazioni della derpocrazia moderna, che nel mondo occidentale sono espresse dal new dealismo rooseveltiano o dalle realizzazioni lab11ristiche e dal socialismo di marca scandinava. Questa è l'alternativa della quale abbiamo avuto scarsa consapevolezza in questi anni, della quale bisognerà avere piena consapevolezza demani. Così la lotta fra democrazia moderna e comunismo, lotta che non è soltanto contrapposizione, e anzi importa poco che lo sia, ma ·emulazione fra due ideali, fra due visioni del mondo, fra due forme di civiltà, ha la sua validità anche per l'Italia meridionale, anche per il misero, per l'arretrato, per il feudale e, nello stesso tempo, per il civilissimo Mezzogiorno. 2 Integralmente riprodotto ìn Cronache n:,,eridionali, anno I, n. 6, giugno 1954. 10 Bi ol iotecaginobi.anco

I Mezzogiorno nell'Occidente Ma se comunismo e democrazia moderna si scontrano e debbono scontrarsi più che altrove nel Mezzogiorno, quali sono le armi della seconda in confronto ai miti formidabili agitati dal primo? In questo campo tutto il processo di affinamento della democrazia moderna, del suo pensiero economico, della sua capacità di modificare le condizioni sociali degli uomini, deve farsi valere. La redistribuzione del reddito attraverso l'intervento dello Stato è un dato della democrazia moderna, così come la politica dei massicci investimenti pubblici e la politica delle aree depresse. Parallele a questa polìtica sono la teoria del pieno impiego e della sicurezza di lavoro, come le dottrine sulla previdenza e sull'assistenza. Chi esamini la storia delle realizzazioni economiche e sociali della democrazia moderna troverà una capacità di rivoluzione della vita tradizionale che nulla ha da invidiare al comunismo, pur salvando il principio fondamentale di libertà che caratterizza la civiltà dell'Occidente. Abbiamo applicate queste nuove concezioni della democrazja alla vita del Mezzogiorno in questi anni, almeno dopo la liberazione? Abbiamo fatto uno sforzo per difendere la civiltà dell'Occidente sul solo terreno sul quale può essere difesa, combattendo l'arretratezza, la miseria, la paura sociale? Ritengo di sì. Se si pensa alle concezioni democratiche di Imbriani o di De · Viti De Marco, di Nitti o di Giustino Fortunato, e se si pensa alla maniera con cui oggi l'Italia democratica ,rede il proble1na del Mezzogior110, il passo è enorme. Alle concezioni democratiche di Giustino Fortunato e di De Viti De Marco, al loro intellettualismo un poco astratto ed aristocratico, il comunismo ha potuto contrapporre il suo attivismo, la sua capacità di organizzare le forze contadine e degli operai, la sua vocazione ad agitare continuamente problemi concreti. Ma gli intellettuali democratici delle nuove generazioni, eredi di un grande pensiero meridionalista, possono contrapporre, a loro volta, al comunismo alcune grandi realizzazioni concrete: la riforma agraria, la Cassa per il Mezzogiorno, la liberalizzazione degli scambi. Il valore rivoluzionario che, per· la vita del Mezzogiorno, hanno queste tre grandi realizzazioni della democrazia del dopoguerra, sfugge alla valutazione immediata. Siamo troppo vicini alle pole1niche sulla riforma agraria, sulla Cassa per il Mezzogiorno, sulla liberalizzazione degli scambi, perché se ne vedano, in prospettiva, tutti i risultati e soprattutto perché possa cogliersi l'intima connessione che tra queste tre grandi realizzazioni esiste. D'altra parte 11 Bibiiotecaginobianco

Ugo La Malfa il Partito comunista, nella sua intensa azione diretta a svalutare ogni capacità riformatrice di carattere democratico, ha impegnato tutta la sua macchina propagandistica per ridurre il significato di queste realizzazioni o a puri fatti elettoralistici (riforma agraria, Cassa per il Mezzogiorno) o a decisioni politiche contrarie a fondamentali interessi economici nazionali (liberalizzazione degli scambi). Da ciò la diffusione di uno scetticismo, di una opinione qualunquista, che ha degradato il Mezzogiorno ed immiserito lo sforzo nazionale, nel momento stesso nel quale si proponevano le condizioni di una grande rinascita. Tuttavia, ad un esame pacato ed obiettivo, l'aspetto profondamente innovatore e vivificatore della 11uova politica del Mezzogiorno non può alla lunga sfuggire. E non è sfuggito agli stessi osservatori imparziali che la critica comunista cita in appoggio alle proprie tesi 3 • Del resto, tale aspetto congloba esigenze che la letteratura meridionalistica aveva affacciato. Il problema della proprietà terriera e del latifondo, il problema della carenza assoluta di capitali di investimento nel Mezzogiorno, il problema della pressione che il protezionismo ha esercitato sull'economia meridionale, sono stati momenti importanti della critica meridionalistica, motivi frequenti ed intensi di indagine e di esame. È mancata all'antica critica meridionalistica la valutazione della connessione- fra questi problemi, ed è mancata soprattutto l'idea centrale che deriva da u11'esperienza prettamente new dealista: quella cioè che una grande concentrazione di capitali di investimento, attraverso l'intervento dello Stato, può modificare le condizioni strutturali di una economia depressa. L'esperimento della valle del Tennessee, legato a tutte le teorie del 11ew deal, non poteva essere conosciuto e valutato né dal liberista De Viti De Marco, né da Giustino Fortunato. Mancava soprattutto, ai meridionalisti insigni del passato, la cognizione del come lo Stato possa essere un formidabile redistributore di reddito e di risparmio e come la concentrazione di capitali d'investimento in certe zone, ed in spazi di tempo relativamente ristretti, possa modificare condi3 Afferma la Commissione econon1ica per l'Europa (op. cit., pag. 140) che un « ca1nbiamento rea]mente significativo nell'atteggiamento e nella politica italiana verso il Mezzogiorno depresso ha avuto luogo in anni recenti. Per mezzo secolo la questione del Mezzogiorno è stata all'ordine del giorno della politica italiana, ma l'azione intrapresa è stata fiacca e sporadica. La nuova politica, iniziata con la creazione della Cassa per il l\tlezzogiorno, è assai più vigorosa e comprensiva ed indica una chiara e cosciente rottura con la tradizione dei passati decenni». 12 Bibliotecaginobi.anco

I Mezzogiorno nell'Occidente zioni ambientali, altrimenti caratterizzate da processi lentissimi di trasformazione. Questa connessione è oggi coraggiosamente attuata, superando - e questo sa di miracolo - le violente opposizioni ed i violenti contrasti di interesse che almeno due degli aspetti della politica meridionalistica (riforma agraria e liberalizzazione degli scambi) avrebbero determinato. E che la connessione fosse elemento fondamentale di ogni azione nel Mezzogiorno, si può dedurre dal semplice fatto che senza un massiccio investimento di capitali, non solo sulla terra espropriata, ma anche nell'ambiente economico generale nel quale opera l'esproprio, la riforma agraria non avrebbe avuto senso alcuno. Ma anche la Cassa per il Mezzogiorno, con1e grandioso organo di sviluppo degli investimenti, sia nel campo agricolo e dei lavori pubblici, che 'nel campo industriale, avrebbe perduto gran parte del suo valore. La liberalizzazio11e degli scambi, sopravvenuta nel 1951, a qualche anno dalla riforma agraria e dalla Cassa per il Mezzogiorno, ha chiuso il cerchio. Da una parte, calmierando il costo dei beni di investimento attraverso la libera importazione, ha ampliato il volume stesso degli investimenti possibili. Dall'altra parte, aprendo i mercati alla nostra esportazione, in contropartita alla liberalizzazione delle nostre importazioni, ha non solo frenato il processo autarchico di molti paesi esteri, dannoso soprattutto all'economia meridionale, ma ha posto una ipoteca sull'economia di consumo dei mercati del Centro e del Nord Europa, in favore della probabile espansione della produzione meridionale 4 • Il complesso dell'azione predisposta in questo secondo dopoguerra a favore del Mezzogiorno, e quella che dovrà svilupparsi domani, tende, naturalmente, non solo a diminuire lo squilibrio fra Italia del Nord e Italia del Sud, ma ad i11tegrare l'economia del Mezzogiorno nell'economia dell'Europa occidentale, chiudendo un processo che ha già avuto largo svolgimento sul terreno culturale e spirituale. Ma, a questo proposito, no11 posso ignorare la grave posizione di critica che un intellett:uale ex azionista, e di recenti convinzioni socialiste, ha assunto rispetto a questo processo e rispetto al giudizio della Commissione eco~omica per l'Europa. Intendo 4 Questo significato di una politica degli scambi rispetto al problema del Mezzogiorno è riconosciuto· dalla Co1nmissione economica per l'Europa, quando essa afferma (op. cit., pag. 140) che la « capacità di ilnportazione è il limite al quale la politica economica italiana esplicitamente adatta la velocità di sviluppo del Sud ». 13 Bibiiotecaginobianco

Ugo La Malfa alludere allo scritto pubblicato recentemente da Vittorio Foa sul settimanale Il Contemporaneo (8 maggio 1954). Secondo il Foa, la Commissione economica per l'Europa, nel suo rapporto, si sarebbe espressa in termini critici rispetto a questo processo integrativo, ed egli cita una quantità di rilievi tecnici che dovrebbero suffragare l'affermazione. Ma noi abbiamo visto che la Commissione economica per l'Europa, non solo ha compreso esattamente il problema del Mezzogiorno d'Italia, ma lo ha addirittura differenziato dal caso generale dei paesi mediterranei, come ha differenziato questi ultimi, che hanno goduto nel passato di condizioni di alta civiltà, dai paesi d'Europa orientale. La Commissione economica per l'Europa ha, cioè, avuto una sensibilità rispetto a valori storici e di civilizzazione che i nostri intellettuali della sinistra socialcomunista, legati all'ideologia e alla esperienza politica e sociale di un paese orientale, non hanno. Ma la Commissione per l'Europa ha fatto di più. Nel suo capitolo introduttivo all'esame delle condizioni dell'Europa meridionale 5 essa sostiene che « i paesi dell'Eu~opa meridionale sono strettamente connessi, da un pur1to di vista geografico, culturale, politico ed economico, col resto dell'Europa occidentale ... Il problema dello sviluppo dell'Europa meridionale è parte e porzione del problema della integrazione economica dell'Europa occidentale. Il rapporto tra E1.1ropa meridionale ed Europa occidentale ha qualche analogia - su di una assai più vasta scala :___col rapporto tra Italia meridionale e Italia settentrionale». Se un rapporto d'integrazione e di interdipendenza esiste, secondo la citata· Commissione economica, fra Europa meridionale ed Europa occidentale, a maggior ragione esso si pone fra Mezzogiorno d'Italia ed Europa occidentale. E tt1tto l'artificio della tesi degli intellettuali della sinistra comunista e paracomunista, che in questi problemi poco rispettano i canoni del marxismo, si rende di esemplare evidenza. . · Del resto, quando Foa cita, spulciando dal rapporto, l'affermazione secondo cui « la integrazione politica, come è pacifico, limita severamente la libertà di stimolare la crescita e l'impianto di imprese .nei paesi sottosviluppati » 6 , cita una considerazione che la Commissione fa a proposito dei danni economici che l'unità politica dell'Italia avrebbe prodotto all'economia meridionale. Con che 14 5 Economie Survey of Europe in 1953, pag. 77. 6 Economie Survey of Europe in 1953, pag. 137. Bibliotecaginobianco

I Mezzo giorno nell'Occidente evidentemente Foa non vorrà concludere che, per evitare tali danni, l'Italia meridionale non avrebbe dovuto unirsi all'Italia settentrionale! Molte considerazioni della Commissione economica riguardano l'impossibilità di correggere gli squilibri fra zone altamente sviluppate e zone sottosviluppate in base alla semplice economia di mercato, e queste considerazioni sono troppo ovvie e troppo legate al riesame critico che i teorici della democrazia moderna hanno fatto di vecchi schemi e di vecchie dottrine, perché valga la pena per il' Foa di citarle e per noi di discuterle. Il rapporto è pieno di rilievi del genere e rappresenta un utile strumento di studio per chi voglia condurre una politica di lotta contro la depressione delle aree sottosviluppate. Ma il Foa non si arrende per questo. E, a sostegno di una tesi, che più arbitraria e malfondata non potrebbe essere, cita infine l'affermazione della Commissione secondo cui una politica per le aree depresse trova un limite nella capacità di importazione. I più convinti meridionalisti di parte democratica sapevano ciò e hanno voluto una politica di liberalizzazione degli scambi proprio per una preoccupazione del genere. È ovvio, d'altra parte, che la capacità di importazione viene estesa non solo da una politica di liberalizzazione degli scambi, ma da una maggiore esportazione. È banale, tuttavia, servirsi di questo argomento per riprodurre il consueto problema degli scambi fra est e ovest. L'i11cremento degli scambi fra est ed ovest è un elemento del problema, e io non voglio affatto trascurarne l'importanza; ma è un elemento secondario. L'incremento principale al quale bisogna badare, è l'incremento degli scambi fra zone sottosviluppate e zone altamente sviluppate: l'incremento, cioè, nell'ambito dell'Europa occidentale. È questa elementare constatazione che porta la Commissione a comparare il problema dell'Europa meridionale rispetto all'E11ropa occidentale al problema del Mezzogiorno d'Italia rispetto al Nord. Nel rapporto, l'Europa orientale è considerata, nel complesso, area sottosviluppata. E le integrazioni non si fanno fra due aree sottosviluppate, ciò che avrebbe risultati assai modesti, ma si fanno tra un'area sottosyiluppata ed un'area di alto sviluppo; ciò che si attua nel caso di rapporto tra Mezzogiorno ed Europa occidentale, tra Europa meridionale ed Europa occidentale. Ho citato il lungo articolo di Foa perché esso è impressionante testimonianza dell'artificio col quale è affrontato, dal Partito comunista e dagli intellettuali alleati, il problema del Mezzogiorno 15 Bibiiotecaginobianco

Ugo La Malfa e dell'azione da condurre. Quando si afferma, come afferma Foa, che « integrazione e sviluppo del Mezzogiorno sono incompatibili tra loro », si è al di là di ogni obiettivo esame del problema, e si professa un atto di fede che non ha nulla da invidiare alla credenza nei miracoli di Lourdes. Voler risolvere il problema del Mezzogiorno guardando all'Est e alle civiltà dell'Est, significa ignorare i dati fondamentali della geografia, della storia e della civiltà del Mezzogiorno; significa costruire, sulla depressione del Mezzogiorno, un'altra depressione che sarebbe, in questo caso, di ordine soprattutto intellettuale. Tuttavia, se i fatti esposti danno ragione alla tesi fondamentale degli intellettuali democratici, e se la via da loro seguita si può considerare la via giusta, occorre domandarsi dove sono le forze che possono alimentare questa posizione, che possono spingerla avanti, che possono dare al Mezzogiorno un volto moderno. La carenza di organizzazione, di spinta, di proselitismo, di propaganda di un ideale concreto, storicamente vero, è uno degli aspetti più gravi della crisi democratica del. nostro paese. Ripeto, il problema del Mezzogiorno è stato visto, in questo secondo dopoguerra, in maniera esatta; ma è stato visto illuministicamente, come riformismo dall'alto. Sorgeva, sì, la Cassa per il Mezzogiorno, ma l'opinione locale continuava ad oscillare tra la fede acritica nel partito di Alicata e le parate azzurre di Lauro e di Covelli. Il Mezzogiorno si apre a nuova vita, ma i giovani meridio11ali democratici sono, nei confronti dell'opinione pubblica meridionale e delle forze meridionali, nelle condizion.i in cui sono stati De Viti De Marco o Giustino Fortunato o Guido Dorso. Minoranze che combattono una giusta battaglia, che hanno, a differenza dei primi, provocato una polit.ica di riforme da Roma, ma che non hanno potuto raccogliere, nel Mezzogiorno, le forze di appoggio all'ideale di t111a democrazia moderna, di un new deal italiano. Mi auguro che questa grave lacuna possa essere colmata e che i giovani meridionali possano acquistare la coscienza alta della civiltà della loro terra e di un suo possibile inserimento nel mondo della democrazia moderna; senza l'adorazione di miti e forme, che appartengono ad altre civiltà e ad altre esperienze storiche e sociali, e senza il ristagno in una vita senza ideali e senza scopo. UGO LA MALFA (dicembre 1954) 16 Bib1iotecaginobi.anco

, Aldo Garosci Ritorno alla • ragione • storica Se c'è un tratto nella storia di questo dopoguerra in cui mi sembra che tutti, tacitamente o no, convengono, questo è il venir meno delle ideologie: delle ingombranti, prepotenti, 011niabbraccianti ideologie che, nell'altro dopoguerra, sembravano imporre a chi le avesse adottate una rigida linea di conseguenze; e a cl1i non le avesse adottate, lo sterminio, in un mondo tutto fatto di forze totali schierate per lo scontro. Le testimonianze sono, in proposito, molte. Fu, se non vado errato, Carlo Antoni, che anni fa a Milano, in un Co:nvegno della Associazione Italiana per la Libertà della Cultura, annunciò la fine dell'era dei « grands simplificateurs » paventati dal Bruckhard con l'autorità, disse argutamente, che gli veniva dal professare filosofia della storia, cioè una disciplina alquanto profetica. Poi è venuto Raymond Aron ad annunciare la fine delle ideologie, e tanti altri minori; e tutti possono constatare come oggi sia più difficile che l'anno scorso, e ancora piu che dieci anni or sono, predire dalla generale posizione di un personaggio quel che sarà il suo modo di decidere in un caso particolare. Grandi sistemi autoritari non solo esistono ancora, ma sono sempre pronti a farsi valere contro i dissidenti; senonché, entro la loro stessa compagine, si insinua, come suol dirsi, il disgelo; che poi non è altro se non la confessione del sistema che non basta a se stesso, che c'è qualcos'altro fuori di lui cui bisogna consentire di esprimersi. Tutto resta intatto, come prima, in teoria; ma qual~ che cosa è mutato. È quasi ozioso parlare di tutto questo; ma, poiché siamo in pochi ad appartenere ormai alla generazione che ha vissuto l'altro dopoguerra, dobbiamo ricordare come tutto fosse diverso allora. Era a quel tempo grande virtù l'intransigenza; non nel senso de-Il'ovvia fedeltà alle proprie idee e del desiderio di affermarle in competizione con le altrui, bensì l'intransigenza aspra, quella dello scontro e del reciso urto frontale, da cui solo avrebbe dovuto scaturire la rigenerazione morale di un popolo corrotto. Georges Sorel aveva scavato profondamente con la sua morale della « scissione»; pareva gran ·che, pur a nobili spiriti come Gobetti, che l'Italia non avesse avuto la sua Riforma (vedemmo poi quel che 17 Bibiiotecag inobianco

Aldo Garosci successe in Germania, che l'aveva avuta); un altro nobile spirito come Gramsci si interdiceva di pensare a qualsiasi intermediazione tra il suo programma e le cose; sarebbe stata la storia, e non la pretesa socialdemocratica dell'accomodamento, che avrebbe reso a ciascuno il suo, fermando la linea intermedia. Ora non dico che questi atteggiamenti siano scomparsi, che non ce ne sia una nostalgia tra i giovani (su ciò ritorneremo); ma ciò accade solo perché nessun atteggiamento scompare mai totalmente. Oggi l'intransigenza va tra uomini intelligenti difesa e giustificata caso per caso, . proprio come toccava fare a Filippo Turati per la sua linea moderata nel 1919. E, quel che è più notevole, non c'era, nella difesa, beninteso oratoria, dell'intransigenza, nessuna differenza tra il buono e il cattivo, ma generale era l'atteggiamento chiuso: alla eroica solitudine di Gobetti, da una parte, corrisponde, dall'altra, il vanto di Mussolini che ,< chi non è con noi è contro di noi». :È un miglioramento questo generalizzarsi dell'atteggiamento non ideologico, questo ritorno di empirismo? Miglioramento o no, è facile vedere quel che l'atteggiamento ideologico, o religioso, o rnitico, aveva prodotto in certi problemi vitali per l'Europa del primo dopoguerra; quando era pressoché inconcepibile che si muovesse all'assalto dei problemi se non si era forniti di una formula di semplificazione totale, senza un concetto o mito o idea che implicasse anche l'azione prossima. C'erano i miti del collettivismo e del capitalismo che impedirono agli Europei del primo dopoguerra di vedere le realtà degl'investimenti, della distribuzione, della produttività; che impedirono persino di scorgere a tempo quel che andava maturando nei rapporti tra le classi. C'era un mito della guerra passata che, mentre tra le classi dirigenti d'Occidente mise capo alla rivendicazione della guerra totale, nell'orrore delle masse per le sofferenze subìte mise capo al mito opposto del grande paese che solo aveva messo fine alla guerra, l'Unione Sovietica, diverso per natura da tutti gli altri, anticipante sul futuro. E, naturalmente, l'orrore massimo tra i mostri che pretendevano all'assoluto era riservato al più chiuso di tutti i miti, quello razzista hitleriano, che isolava il seguace di esso da ogni riconoscimento della propria identità con quella di un avversario, che lo ricacciava per programma al livello della bestia, imbestiando intanto se stesso. « Tantum religio potuit suadere malorum ». Quello che la nostra generazione ha visto di orrori in fatto di religioni laiche ci ha per sempre guariti dall'orgoglio verso le passate religioni teocratiche; anche le convinzioni fondate sulle filosofie umanistiche, 18 BibliotecaGino Bianco

Ritorno alla ragione storica quando diventano riti, quando cessano di essere sottoposte alla critica, generano gli stessi mostri. Di qui quel senso di sollievo, quasi di soddisfazione, che proviamo nel vedere distruggere la sicurezza dei sistemi che ci hanno governati per un cinquantennio. In che consisteva la simpatia che - malgrado le evidenti lacune dell'uomo, la sua incuranza dei valori intellettuali, l'arroganza nel liberarsi delle obiezioni con prepotenze e battute, la volubilità - aveva circondato Krusciov? È ovvio: nella distruzione del mito monolitico di Stalin e inoltre, malgrado il ritorno a Lenin, nel dubbio sparso contemporaneamente su tutti gli altri elementi del sistema. In che consiste la soddisfazione per l'atteggiamento preso dalla Chiesa Cattolica al Concilio? Non certo in una particolare passione per la liturgia nelle lingue nazionali, anziché in latino; ma nella sensazione precisa della rivincita del modernismo, del profondo mutamento sopravvenuto nella Chiesa della Controriforma. Persino per alcuni miti che ci sono cari, perché a essi è legata qualche parte della nostra vita della quale non abbiamo da vergognarci, dobbiamo dire che l'esperienza dell'ultimo ventennio ci ha aiutato a non rimpiangerli. Per esempio, malgrado noi non fossimo molto affezionati a un'idea di « Resistenza tradita », confessiamo che ci è stato sempre amaro pensare che a un regime di ispirazione profondamente riformatrice sia succeduto un regime di così lenta capacità nel liquidare gli aspetti più turpi e più pigri della vita italiana. E, naturalmente, non abbiamo da ritirare nessuna di quelle critiche in quanto critica politica. Il regime democratico si presta a numerose critiche; i difetti dello Stato ereditato dal fascismo sono ancora lì (le sentenze con le quali, contro la Corte costituzionale, la vecchia magistratura conferma il suo attaccamento alle procedure più inquisitorie ci sembra rientrino in questo attaccamento al peggio nel passato italiano). Ma il mito di una Resistenza la quale si espandesse direttamente nella riforma sociale, tutta insieme e senza ripassare per la fase faticosa che stiamo attraversando, ebbene quello incominciamo a non sentirlo più neppure noi. Meglio una Resistenza italiana che abbia ceduto il potere a forze meno nobili (non, tuttavia, senza influenzarle) che una Resistenza diventata regime della Resistenza, una Resistenza trapassata nella « nuova classe» denunciata da Gilas (e così visibile in quasi tutti gli Stati di nuova indipendenza). Non sono soddisfatto del mio paese, ma neppure sarei soddisfatto di un'Italia di tipo jugoslavo o algerino, solo per prendere due paesi che dalla Resistenza eroica sono passati al regime della Resistenza. 19 BibliotecaGino Bianco

Aldo Garosci D'altra parte, i movimenti cl1e hanno una· profonda ispirazione di libertà non mettono capo su regimi monolitici, su regimi di unanimità, ma su una varietà di esperienze. Perché il senso della libertà dovrebbe conservare la stessa lama affilata adesso che si tratta di discriminare l'atteggiamento di uomini e di partiti in un complesso equilibrio, nel quale le esigenze profonde sono in relazione sempre mobile - e tra loro, e con la vera, profonda ispirazione, e con il programma e il mito ufficiale - la stessa lama che esso aveva quando, invece, si trattava di tagliare la cancrena di un sofisma capitale? I motivi ideali che ci hanno spinto a operare e a pensare la nostra storia continuiamo a sentirli vivi, senza bisogno di riaffermarli in generale, mentre andiamo, invece, riaffermandoli nel particolare dei nostri studi e delle nostre polemiche. E tuttavia mi pare che la reazione contro le ideologie, i miti, le superstizioni sia andata anche oltre il segno; che essa possa aver intaccato gl'ideali, la ragione, le religioni. Certo, i partiti, non solo in Italia, ma nel mondo, abbandonano gli schemi. È possibile un'esperienza autoritaria, in Francia, senza che ci sia fascismo, senza che la sostanza vitale del paese sia toccata. È possibile che noi abbiamo in Italia i più grandi partiti i quali si richiamano a ideali o trascendenti o materialistici e che la libertà e il pensiero non corrano vero pericolo, ma la nostra cultura sia viva e vivace. È possibile che sul suolo renano calpestato da Hitler alligni l'americanismo. È possibile che l'etichetta dei partiti sia diventata una indicazione storica, la quale designa piuttosto il nome degli antenati cl1e l'identità individuale; e che essi stessi si sentano come qualche cosa di relativo (fatta per ragioni di tattica, oppure no, la dichiarazione di Amendola sulla non necessità del suo partito, è qualche cosa un tempo inconcepibile). Eppure, sotto a questo venir meno di dogmi, non si sente ancora scorrere il fiotto vivo di un qualcosa di diverso: di una vita veramente nuova. Ci seinbra piuttosto di essere in un periodo di pausa che in un periodo di irrompenti energie; e l'orizzonte prossimo è dominato da troppe linee piatte per essere soddisfatti. Va bene la demitizzazione; va bene la demistificazione; va bene la destalinizzazio11e; va bene il Concilio; ma sotto che segno si muove tutto questo, che non osa dire il proprio nome? Quando si passerà dai cauti accomodamenti, all'asserzione· positiva della forza che li giustifica? Sarebbe forse troppo facile fare, in proposito, dei richiami politici in una rivista che, come « Nord e Sud », fa la critica della 20 Bioliotecaginobia_nco

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