Nord e Sud - anno XV - n. 105 - settembre 1968

. ' . .. - . .. . ---~ - - . . ~ . '-:. --~ . . .. . . . Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Dino Frescobaldi, Rilanciare l'Europa - Lanfranco Orsini, Narrativa meridionale e problematica di cultura - Stanislav Kirschbaum, I cartali della rivolta nel!' Europa orientale - Roberto Pane, Il Movimento studentescoe le Facoltà di Architettura - Leone Iraci, Dall' << opulenza » al benessere e scritti di Claudio Alhaique, Sergio Antonucci, Adriana Bich, Mario Canino, Ermanno Corsi, Ugo Leone, Ferdinando Virdia. ANNO XV, - NUOVA SERIE - SETTEMBRE 1968 - N. 105 (166) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Biblioteca Gino Bianco

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I NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO XV - SETTEMBRE 1968 - N. 105 (166) DIREZIONE E REDAZIONE: ·via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393.347 An1-ministrazione, Distribuzione e Pubblic~tà : EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S:p.A. Via Carducci, 29 - 80121 Napoli - Telef. 393-346-393.309 Una copia L. 400 - Estero L. 700 - Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 4.000, semestrale L. 2.100 - Estero annuale L.- 5.000, semestrale . L. 2.700 - Fascicolo arretrato L. 800 - Annata arretrata L. 8.000 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6..19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via Carducci 29, Napoli -BibliotecaGino Bianco

SOMMARIO Editoriale [3] Dino Frescobaldi Rilanciare l'Europa [7] Lanfranco Orsini Narrativa meridionale e problen1atica di cultura [18] Note della Redazione I coniunisti e gli stu.denti - Rivoluziorte o repressione - I testimoni di accu.sa [31] Giornale a più voci Ermanno Corsi Da Sorretzto senza ritorno [ 40] Mario Canino Dieci a11ni d'i ritardo [ 47] Adriana Bich La « 1naturità » in1matura [ 49] Ugo Leone La Carta eitropea dell'acqua [56] Sergio Antonucci L'azienda e gli studenti [59] Frontiere Stanislav Kirschbaum I canali della rivolta nell'Eitropa orientale [65] Argo in enti Claudio Alhaique La «contrattazione» titristica [82] Documenti Roberto Pane Il Movimento studentesco e le Facoltà di Architettura [96] Ferdinando Virdia Il libro di cultura, la sta1npa e la RAI-TV [ 101] Saggi Leone Iraci Dall'« opulenza» al benessere [109] - BibliotecaGino Bianco

Editoriale Destalinizzazione, desatellizzazione, liberalizzazione: sono i tre gradini di tin'escalation cui aspirano le forze progressiste di ogni paese dell'impero staliniano, mentre le forze progressiste della stessa Unione Sovietica sarebbero disp·oste a pagare con la desatellizzazione degli altri la destalinizzazione e liberalizzazione nel prin10 paese del co11zunismo. Le forze progressiste della Cecoslovaccl1ia, emerse da iLna liLnga notte staliniana cfLe sembrava avere sperzto anche gli itltimi bagliori di una nobile tradizione democratica, avevano conquistato il potere nel ge11naio di quest'anno e si era110 consolidate al potere in primavera: in qitesti pochi mesi, coraggiosa1nente e coerentemente, avevano intrapreso non solo una politica di destalinizzazione e di desatellizzazione, piit o meno ricalcata sitlle linee della destali11izzazione e desatellizzazione già avviate dalla litgoslavia prima e dalla Romania poi, ma a11che una politica di liberalizzazione quale né la Jugoslavia, né la Romania avevano finora tentato di avviare. Non si pitò dire, tuttavia, che le forze progressiste della Cecoslovacchia no11 si fossero p·oste realistica1nente il problema dei limiti sia della politica di desatellizzazione che della politica di liberalizzazione. Per quanto rigitarda i limiti della politica di desatellizzazione, Dubcek e gli altri comunisti « liberali >> di Praga avevano sempre dichiarato di voler n1a11tenere quell'adesione al Patto di Varsavia che l'Ungheria di Nagy, a suo ternpo, aveva invece messo in discussione, con una dichiarazione d'i neutralità che aveva scatenato, e for11ito la giustificazione, alla repressione sovietica. E per qita11to riguarda i li111iti della politica di liberalizzazione, il revisionismo cecoslovacco non aveva ,nesso in discussione immediatamente e direttan1ente il pri11cipio del partito unico, 1na soltanto il principio del monolitismo del partito unico. È anche vero, però, che la spinta alla liberalizzazione si manifestava, sitlla via cecoslovacca al socialismo, nella ricerca cecoslovacca del « socialismo dal volto itn1ano », tanto prepotente da far ten1ere alle forze conservatrici che detengono il potere nella Ger1nania orientale, in Polonia, in Bulgaria, in Ungl1eria, che il « morbo di Praga» si potess·e diffondere e potesse qui11di 1ninare le basi sulle quali ancora si regge il potere di quelle forze in questi paesi. E sono state probabilmente anche le pressioni delle forze conservatrici operanti nei paesi dell'Europa orientale ad alimentare le crescenti preoccupazioni dei conservatori sovietici, 3 · BibliotecaGino Bia co

Editoriale onde questi conservatori hanno potuto imporre la loro linea e la sinistra decisione di o·ccupare la Ce~o·slovacchia: evocando il fantasma della controrivoluzione in Cecoslovacchia, i conservatori hçinno voluto creare in Cecoslovacchia le condizioni della controrifor1na. Sembra che da tutta la vicenda si debba dediLrre che il Cremlino fosse disposto a tollerare anche un alto ,grado di destalinizzazione ( come nel caso della Jugoslavia) e un certo grado di desatellizzazione (come nel caso della Romania), ma non sarà mai disposto a consentire neanche un grado minimo di liberalizzazione in un paese dell'Est europeo; e poiché i cecoslovacchi avevano intrapreso una politica di liberalizzazione, i conservatori del Cremlino, dopo avere imposto la controriforma a Praga, cercano ora di imporre (e nel 1nomento in cui scrivian10 non sappiamo ancora a quali mezzi estremi siano disposti a ricorrere) limiti ben più rigorosi che tiel passato alle politiche di destalinizzazione e di desatellizzazione persegitite da Belgrado e da Bucarest. Non c'è dubbio, d'altra parte, che la decisione di dare una risposta repressiva al nuovo corso cecoslovacco abbia sanzionato non solo la crisi dei processi di destalinizzazione e di desatellizzaziorze in tutto l'Est europeo, ma anche la crisi del « disgelo » nell'Unione Sovietica; e, in pari tempo, quella decisione, il « tragico errore» denunciato dai co·munisti occidentali, da itn lato ha portato un c·olpo durissinio alla teoria dellevie nazionali al socialis1no e dall'altro ha bloccato il processo della distensione internazionale che mai come nei mesi scorsi era sen1brato ben avviato. Di tutto questo si deve prendere atto. E innanzitutto si deve prendere atto di quello che è il dato· nuovo della situazione nel campo coraitnista: la controffensiva delle forze conservatrici è per il momento vittoriosa. Questa co-ntroffensiva è cominciata nell'ottobre del 1964, dopo la liquidazione di Krusciov; e non è possibile prevedere se tale controffensiva, oggi vittoriosa, potrà essere in un prossimo futuro efficacemente contrastata dalle forze progressiste, oggi sconfitte. Così come non è possibile prevedere se la controffensiva dei conservatori si spingerà .anche oltre la risposta repressiva data al nuovo corso cecoslovacco. È stato detto, prima del 20 agosto, che ogni tentativo di « ristabilire l'ordine» in Cecoslovacchia con un ricorso alla forza, e cioè all'occupazione militare, avrebbe saldato intorno ai dirigenti del niLovo corso non solo il partito comunista della Cecoslovacchia, ma anche tutto il popolo cecoslovacco; e di questo si è avuta una prova molto persuasiva dopo il 20 agosto: tanto che l'operazione di polizia dei paesi del Patto di Varsavia voluta dai falchi del Cre1nlino si è rivelata molto più odiosa di 4 BibliotecaGino Bianco

.. Editoriale quanto i falchi non prevedessero; tanto che l'emozione suscitata nel mondo per il modo con il quale è stato imposto il « compromesso » di Mosca, « liberando » Dubcek, è stata anche maggiore di quella suscitata per il modo con il quale la Cecoslovacchia era stata violentata, deportando Ditbcek. Ma è stato detto anche, prima del 20 agosto, che, qualora i sovietici f assero ricorsi alla forza per domare i « liberali » di Praga, rLe sarebbero derivate certamente itna più grave divisione del movimento comunista internazionale ed una diminuzione dell'infiuenza sovietica nel mondo; ed ancl1e queste altre previsioni risultano provate dalle reazioni seguite alle notizie che nell'ultima decade di agosto hanno turbato come mai prima d'ora gli animi di tutti, .anche, e forse soprattutto, della gran parte dei comunisti che non sono comitnisti conservatori. Si deve ancora verificare, tuttavia, in clie misura e in che modo si manifesterà, dopo la vittoriosa controffensiva dei conservatori in Russia e in tutto l'Est europeo, la diminuzione dell'infiuenza sovietica nel mondo; in che misura e in che modo si potrà contare su questa diminuzione di influenza ai fini di una eventuale riscossa delle forze progressiste 11el campo con1.unista; in che misitra e in che 1nodo la diminuzione dell'infiuenza sovietica nel mondo sarà bila11ciata dalla riaffermazione della disciplina sovietica nel/1Est europeo; in cJze 1nistlra e in che modo la diminitita influ.enza sovietica nel 1nondo potrà domani attenuare quel pericolo per la sicurezza europea che oggi risulta aggravato. Per il niomento, noi sianio investiti direttamente da questa condizione di aggravato pericolo; e lo siamo in una condizione di particolare debolezza. E a questo proposito va rilevato quanto pretestuosa sia l'affermazione dei coniunisti italia1-1i, che i partiti democratici vorrebbero approfittare dell'occasione, del « tragico errore » sovietico, per un rilancio dell'oltranzismo atlantico e per abbandonare la politica della distensione. Ma - a parte il fatto che, a prendere iniziative ( e quali iniziative!) in contrasto con la politica della disterzsione sono stati per ora i dirigenti sovietici e di altri paesi del Patto di Varsavia - vien fatto di osservare che oltretutto il Patto atlantico serve a tutelare il diritto dei comitnisti italiani di poter deplorare i « tragici errori » dei dirigenti sovietici carne certo non è co11sentito ai comu:rzisti dei paesi che fanno parte del Patto di Varsavia e che in questi paesi detengono il potere; e natitral'niente il diritto dei comunisti italiani e francesi di battersi contro il Patto atlantico come certo non è conse11tito ai comunisti polacchi o ungJ1,eresi, e nemmeno cecoslovacchi o ro111eni, di proporre qualche allentamento dei vincoli del Patto di Varsavia. Inoltre, nel momento in cui risultano ostruite le vie nazionali al socialismo, e risulta1io ostruité non soltanto in quanto portano alla liberalizzazione, ma 5 BibliotecaGino Bianco

Editoriale anche in quanto portano alla destalinizzazione e desatellizzazione, i comiLnisti italiani, co111eha giustamente osservato La Malfa, devono risolvere nuo1;e o più palesi contraddizioni; e soprattu,tt~ si trovano « nella strarza silt,tazio11e di dover fare una rivolu_zion:e socialista per poi renderla indipende11te dal sisten1a sovietico»: il che sarebbe loro impedito, alla fine, dai carri arnzati! lnfi11e, i com.u-11isti italiani e francesi non. passarlo più co11trapp·orre - almeno fino a quando durerà la tensione interna nell'Est europeo - il disegno gollista dell'Europa dall'Atlantico agli Urali al disegno democratico dell'Eziropa comunitaria, dell'europeis1no clie resta la sola alternati-va al naziorialis1no ted·esco (e non solo tedesco), la sola possibilità di fer1nare il decli110 dell'Europa, la sola strada siLlla quale l'Europa ptiÒ ritrovarsi, il solo stritmento che può restituire all'Eitropa u11a più incisiva presenza internazionale. Non si vitale rilanciare l'oltranzisnio atlantico: si vitale rilanciare l'oltranzismo europ·eista. Come ha scritto efficaceniente Alberto Ronchey, « è necessario domandarsi finaln1ente sul serio se i piccoli paesi d'Europa - gli stati nazionali - abbiano qitalche sicurezza di conservare divisi la sovranità di cui sono gelosi». E quanto al Patto atlantico, c'è un'altra lezione che tanto gli europei quanto gli an1.ericani dovrebbero dedurre dagli avvenime11ti cecoslovacchi: l'area principale dei co11fronti internazionali, rzella quale si pongono ancora, e· più che mai, i problemi decisivi per l'avvenire del mondo, non è in Asia, in Africa, in A1nerica lati11a, nel cosicldetto Terzo n1ondo. Qitest'area è l'Europa, o, quanto 1neno, soprattittto l'Europa. E l'Occide11te non ha tanto da preoccuparsi dell'interessamento an1erica110 per l'Europa, quanto del disinteressamento americano per l'Europa: di u11a certa eredità dell',isolazionismo, di cui si ravvisano gli errori tradizionali di prospettiva politica sia nella presenza asiatica, in itn certo senso prioritaria, del governo di J ohnson che in un certo modo di atteggiarsi dell'opposizione di Mc C1arthy e della nuova sinistra americana in generale. Gollismo eitropeo ed isolazionismo americano, dovunqtle siano annidati, sono oggi i nemici che i den1ocratici, di qua e di là dell'Atlantico, devo110 ide11tificare e combattere; mentre, all'Est ed all'Ovest, i comunisti che si dicono progressisti devono fare i conti con i risitltati cui è approdata la controffensiva dei coniunisti che sono coriservatori. Noi intanto non diciamo di essere tornati ai gior11i della guerra fredda, ma dobbiamo ben d'ire che giorni difficili ci attendono e che la sicurezza deltEuropa è di nuovo in discitssione: non garantita certo dalla bomba di De Gaulle. Questi giorni difficili che ci attendono saranno anche i giorni dell' esa1ne di coscienza per tu.tti gli europei? 6 Bibti·otecaGino Bianco

I Rilanciare .l'Europa di Dino Frescobaldi Che cosa ha voluto dire per il nostro paese la « scelta europea » fatta oltre dieci anni fa? Coloro cl1e in questo frattempo hanno vissuto la vita delle istituzioni comunitarie ci danno una prima risposta. « Lavoriamo -accanto a burocrazie più moderne, più funzionali - ci dice un nostro alto funzionario distaccato a Bruxelles -, abbiamo dovuto prendere il ritmo degli altri: per noi è stata senz'altro una buona scuola ». Per molti anni gli italiani di Bruxelles sono stati afflitti - e in minor mis11ra lo sono ancora - dal « complesso dell'usciere ». Se si guardava gli organici delle Comunità, si poteva avere la sensazione che gli italiani impiegati presso di esse fossero in buon numero, quasi in prevalenza. l\tla un'a11alisi più approfondita ci offriva minori motivi per soddisfare il nostro orgoglio: gli italiani erano quasi sempre occupati nei gradi più bassi, alla base della grande piran1ide della burocrazia comunitaria. Ai posti di responsabilità e di direzione stavano gli altri. Era colpa di questi ultimi - francesi, tedeschi, olandesi eccetera - se Bruxelles non attirava i migliori fra i nostri funzionari? E· se, a conti fatti, avevamo scarsità di uomini capaci da prop.orre? Qualcosa - ci dicono - sta cambiando : il quadro non è oggi più così nero. Per cert11ni, sta cominciando proprio da Bruxelles una graduale riforn1a delle nostre strutture burocratiche. Saremo obbligati a modernizzarci, a « europeizzarci ». « l11 Italia - sostiene il medesimo funzionario - si sentono sovente criticare i regolamenti comunitari. Nove volte su dieci non sono i regolamenti a essere fatti male: è solo la nostra inefficienza che ci dan11eggia, che ci impedisce di applicarli correttamente e tempestiva1nente ». Non c'è da perdere tempo•. Il 1 ° luglio è stata realizzata l'unione doganale: potremo trovarci davanti da un momento all'altro ai suoi effetti pratici. Facciamo un esempio. Conosciamo la lentezza con cui l'amministrazione italiana esegue i rimborsi fiscali all'esportazione. Passano mesi dal giorno in c11i il prodotto è uscito dalle nostre frontiere. In altri paesi tutta .la pratica si svolge in un solo tempo, contemporaneamente al momento in cui si esporta. Le dogane effettuano il rimborso nel mentre danno il via alla merce. Se il nostro sistema non sarà modernizzato, potrà succedere cl1e gli 7 .Bibtioteca Gino Bianco

Dino F1 rescobaldi esportatori italiani trovino un giorno più conveniente servirsi di porti stranieri. L'unione doganale non sarà unione economica finché esisteranno certe differenze, finché esisteranno « sistemi rapidi » e « sistemi lenti ». C'è chi pretende che il maggiore guadagno fatto dall'Italia col mercato comune consista proprio, nell'aver messo a contatto i nostri tecnici e funzionari con sistemi operanti con un passo più veloce e più agile. Si voglia o no, saremo anche noi forzati a « rispettare i tempi ». Un altro esempiò tipico· è dato• dai rimborsi del Fondo di orientamento e garanzia agricoli, il FEOGA. « Le stesse procedure che richiedono una settimana nei Paesi Bassi, impiegano in Italia diciotto mesi. Inerzia dei funzio·nari? Niente affatto. Tre ministeri devono dire la loro: Affari Esteri, Finanze, Commercio estero. Ne derivano conflitti di competenza senza fine », nota « Agenor ». L'amministrazione italiana si è raramente resa co,nto in passato di questa rivoluzio•ne silenziosa a cui lo sviluppo del processo comunitario l'avrebbe portata. Come criticarla se nemmeno molti dei nostri uomini di governo ne ebbero· per molto tempo la percezione? Bino Olivi, portavoce della Comunità, ricorda un ministro italiano che, ai piedi della scaletta dell'aereo che lo· aveva portato a Bruxelles per un importante negoziato, gli dichiarò esplicitamente che· lui « a tutte queste cose non ci credeva», ·cioè non credeva al MEC. Il 1 ° luglio è destinato a restare una « parificazione teorica » se le macchine dei varii Stati procederanno a velocità diverse. Gli industriali italiani hanno mositrato coraggio, intraprendenza e spirito di adattamento. Agli agricoltori italiani si chiedono trasformazioni radicali e soprattutto si chiede di abbando,nare una mentalità individualistica. Ma prima di tutto spetta allo Stato italiano dare l'esempio di aver compreso la nuo-va realtà in cui dovremmo operare,. uscendo dal « tempo della diligenza ». Si ha un bel smantellare le dogane e parlare di « basi di partenza uguali»: il paese che riuscirà ad assicurare servizi migliori sarà avvantaggiato. Si tratta di demo'1ire. le « dogane invisibili » dell'apparato burocratico dove questo funziona. male, di eliminare certi « protezionismi all'incontrario » che sì verificano• quando un operatore ha a che fare co11 mancanza d'informazioni, con comunicazioni difettose, eccetera. C'è chi dice che alla scuola degli altri « partners », forzata dal pro·cesso comunirtario, anche l'amministrazione italiana si metterà al passo. Come si presentano i protagonisti dell'unificazione del 1 ° luglio? La Germania ha superato la fase della « recessione psicologica », quando per un certo- tempo il consumatore tedesco si è astenuto dal comperare. Ora le industrie tedesche vendono più che negli anni d'oro del primo· mira8 BibliotecaGino Bianco

Rilanciare l'Europa colo, sia all'interno che all'estero. L'industria tedesca è la sola che può vantarsi con ragione di « non aver paura dei giapponesi ». Nel momento attuale il marco è la moneta più forte del mondo, garantita da otto miliardi di dollari di riserva. Procedendo con questo ritmo la Germania federale dovrebbe poter disporre fra tre anni di riserve valutarie per quattordici miliardi di dollari, pari cioè alla riserva degli Stati Uniti prima dell'emorragia del dollaro. A questo quadro si aggiunga che l'amministrazione tedesca sa far ricorso a metodi d'intervento molto efficaci, manovra con grande accortezza lo strumento delle commesse pubbliche. Il Belgio, paese di vecchia tradizione industriale, vede assicurato il suo alto livello di reddito dai « servizi che producono ». Sia nel ramo finanziario che in quello assicurativo la solidità delle s11e attrezzature è provata. L'Olanda si presenta di fatto saldata alla Germania, quasi come una st1a « funzione ». Il suo « europorto » di Rotterdam, che supera qualunque termine di confronto in Europa e fuori, è la più potente dimostrazione dell'interdipendenza strettissima col retrostante mondo tedesco. Il panorama sullo stato di salute della Comunità po1 rta a dare sulla Francia un giudizio differenziato. Per reddito pro capite è ancora il paese più ricco del Mercato comune. La sua industria ha alcuni settori di punta avanzati come quelli aeronautico e nucleare. La sua debolezza si avverte nel settore tradizionale dove si è rimasti sovente attaccati al concetto dell'impresa familiare. Così la struttura dell'industria francese finisce in molti campi col risultare poco adeguata. Da un lato si hanno infatti mancanza di concentrazione, frazionamento; dall'altro· lato un'arretratezza di metodi e di concezioni testimoniata dall'insufficiente attenzione prestata al mercato. « In troppe nostre industrie - rileva un osservatore francese - il capo del settore produzione è più importante del capo del settore vendite. Risultato: si ve11de quel che si produce invece di produrre quello cl1e si vende ». È anche il paese meno dedito alla mobilità del lavoro. Ottanta anni di protezionismo fanno sì che in Francia « i riflessi protezionistici sono rapidi a risvegliarsi ». E lo si è visto anche di recente. Visto dall'osservatorio di Bruxelles, il nostro paese appare « disordinato e vitale ». Spirito d'iniziativa della classe jmprenditoriale - di quella giovane in particolare -, eccellenza della manodopera - da noi i ritmi di lavoro sono i più alti -, lentezza della burocrazia, arretratezza dell'agricoltura ancora legata a criteri di « sopravvivenza »: questi i punti su cui il giudizio degli eurocrati tende a fissarsi. Fino alle ultime misure francesi l'Italia si presentava come il paese più « lanciato » nelle esportazioni entro l'area del MEC. Un dato: prima della crisi i11 Francia gli 9 -Bibl"iotecGaino Bianco

Dino Frescobaldi industriali italiani avevano esportato più prodotti dei loro colleghi di quel paese. Tra i sei soci il risultato del l\tlercato comune, fin da prima clella data del 1° luglio, è stato un rnaggiore benessere. Nel decennio il const1mo privato è aumentato in Italia del 107 per cento mentre i prezzi so110 sa}iti del 36 per cento. Sensibiii differenze anche negli altri paesi: 99 per cento contro 39 in 012.. nda, 90 per cento contro 39 in Francia; in Germania e in Belgio i co11sumi sono cresciuti rispettivamente del 70 e del 63 per cento, mentre i prezzi hanno segnato un salto pressoché uguale del 23 per cento. La riuscita del Mercato comune è provata da u11 altro confronto: il volume degli scambi tra i sei soci è aumentato del 138 per cento, mentre nello stesso periodo l'interscambio 1nondiale registrava un progresso dell'89 per cento. Nel campo industriale, il Mercato comu11e ha prodotto solidarietà e legami sovranazionali per cui oggi la mjnaccia di una reversibilità del processo getta il panico in certi ambienti del mo11clo degli affari. Gli cspone11ti dei grandi complessi e11ropei hanno i loro uomini a Bruxelles. Tra loro la parola d'ordine è « difendere il ~Aercato comune ». Si ha r>iì1fiducia nella Commissione degli « apatridi » e degli « eurocrati » che in certi governi nazionali i quali, insieme al ritorno ad un'economia chiusa, pron1ettono la « partecipazione » degli operai 11elle aziende. Per la voce del capitale la Commissione è in fondo garanzia di liberalismi, mentre ogni nazionalismo contiene il pericolo di un dirigismo e di un « riformismo demagogico ». Certo il Mercato comune ha fatto conoscere fi11ora, per gli industriali, « più rose cl1e spine » seco11do la formula del bancl1iere fra11cese Chalando11. A Bruxelles i si11dacati sono virtualmente assenti. Esiste una politica indt1striale di fronte alle Co1nunità; non esiste una politica sindacale. L'idea di contratti collettivi st1l piano europeo trova mille difficoltà, ma anche 1nolta i11comprensione fra coloro che dovrebbero essere i primi a sentirsi interessati. Se l'industria ha marciato e marcia nel se11so dell'integrazione, l'agricoltura ha tirato il freno. La politica agricola co1nunitaria è stata sempre dettata da qualche « emergenza ». Non si è fatta finora « politica » nel senso più vero e alto del termine. Si son trovati dei rimedi, delle soluzioni empiriche. Il risultato è stato cl1e a momenti si è finito col perdere il filo della logica. La politica dei « prezzi unici » per i prodotti agricoli dell'area dei sei è stata una politica di mercato .a corto respiro. L' « Europa verde » non può nascere su queste basi. Occorre passare coraggiosamente alla trasformazione delle strutture. E qui il l\1ercato comu11e troverà il st10 banco di prova. Non si può concepire una riforma della strutture agricole se11za penetrare nel 10 Bibli"otecaGino Bianco

·' Rilanciare l'Europa campo minato della politica regionale. Sarà la Commissio11e capace di tanto? Questo significhera incidere nella sovranità nazionale degli Stati, avocare a sé poteri d'indirizzo e di decisione che i governi si son sempre tenuti per sé (pur adoprandoli a volte male o non adoprandoli affatto). Verranno dunque le « spine» del MEC? « Il Mercato comune resta da fare » si dice a Bruxelles. Non c'è dubbio che questo è esattissimo. L'« operazione 1° luglio» è stata solo la traccia di un cammino che dev'essere lastricato e liberato di moltissimi ostacoli prima di esser reso percorribile. I settori dove c'è da creare un'tlnione effettiva, una equiparazione reale sono ancora molti, praticamente tutti all'i11fuori di quello doga11ale. «Si comincia sempre a mangiare il pane da dove è più bianco» dice il vice-preside11te Raymond Barre a proposito di ']tlanto finora ha fatto la Comunita; cioè essa si è preoccupata di procedere nel campo più «morbido» e appariscente. Accanto a quelle doganali vi sono altre barriere che devono scomparire. Esistono barriere amministrative e tecniche all'eliminazione delle quali si sta lavorando, anche se l'opera si presenta più difficile di qt1anto si creda, non fosse altro per gli interessi che essa può colpire. Numerosi sono i prodotti sottoposti a « controlli tecnici » al passaggio delle frontiere: farmaceutici, alime11tari, elettrici, chimici, tessili, veicoli a 111otorp, cristalli eccetera. Esistono barriere veterinarie e sanitarie cl1e po ano e ser cl1iu e per intralciare la strada a quei prodotti a cui l't111ione doganale l1a inteso aprirla. I11fine esistono barriere fiscali: le pit1 ardue da rimuovere in qt1anto « la fiscalità costituisce uno d gli clementi essenziali della sovra11ità dei paesi ». Procediamo per son1mi capi al fine di dare 1111'ideadel « da farsi ». Una comune politica dei trasporti va stabilita se i vuole tradurr\.,, nella realtà le « condizio11i uguali ». Se1npre allo tes o fi11 si deve affrontare la materia delle norme rivolte a disciplinare la concorrenza, di quelle che assicurera11no la libertà d'ins dia1nento e di movimento sia delle societa cl1e delle persone. Quando l'Et1ropa rit1scirà ad avere t1n solo corpo di doganieri? Che cosa si è fatto nel campo della politica sociale comunitaria? Lionello Levi-Sandri, cl1e 11clla Com1nissione si occupa del settore delle questioni sociali, ammette che i11 questo campo si è proceduto solo sul piano della politica e degli accordi tra governi. L'Italia si è battuta perché venisse affermato il pri11cipio della libera circolazione della manodopera accanto a quella delle merci. Ma le di,,ersità frenano l'attuazione di quel principio. La Francia, per esempio, ha già introdotto la parità tra salari maschili e femminili. Le clausole sociali so110 finora passate solo in funzione dell'integrazione economica. Questo, secondo Levi-Sandri, l1a alimentato l'opinione che il Mercato comune sia: l'espressione della politica della grande industria. La sola 11 ·BibliotecaGino Bianco

Dino Frescobaldi Europa è « l'Europa dei padroni ». Bisogna battersi contro tutto ciò. I sindacati dovrebbero fare ammenda dei loro errori - gravissimi - del tempo p•assato. D'altra parte la Comunità deve se])tire il bisogno di associare i lavoratori al suo procedere, e lo può fare solo con una politica sociale più avanzata. Associare i lavoratori, associare i giovani: la Comunità no,n ne può fare a meno. L'Europa non è fatta solo di forze economiche. Aprire il dialogo a tutte le forze che si agitano nel nostro contine~te diven,ta imperativo se si vuole tradurre l'integrazione nella vita. Questa necessità sta all'origine dei grandi « colloqui » che il manifesto della Co·mmissione per il 1° luglio ha annunciato per la fine di quest'anno. Nel momento in cui raggiungeva il suo primo importante traguardo l'Europa ha avuto la folgo,razione della crisi e delle sue insufficienze. Le misure francesi « notificate » alla Commissione senza chiederne il parere non hanno fatto che sottolineare un disagio che in realtà ha cause più profonde. Politica e ideologie non marciano più di conserva con il lavoro del grande apparato comunitario. Burocrati e tecnocrati sentono di non poter da soli costr11ire l'Europa. Nei grandi e moderni edifici del quartiere del Cinquantenario, non tutti ancora ultimati, che Bruxelles ha destinato agli « eurocrati », si sforna110 regolamenti, la macchina burocratica gira indefessamente, rria a momenti si ha quasi l'impressione che giri in folle, che la marcia non sia ingranata. ·La marcia è la « politica », è il sostegno ideologico. Ci dice un funzionario: « È passato il tempo in cui ci sentivamo dei sacerdoti di un ideale, in cui ci sentivamo sostenuti e spronati da una co,scienza politica ansiosa di bruciare le tappe, da 'un'attesa che permeava governi e partiti ». Oggi gli eurocrati avvertono che il dibattito politico li sfiora appena, che il ce11tro -dell'jnteresse dei movimenti che si dicono d'avanguardia si è spostato verso altri obiettivi. Questo porta a riesaminare tutti i vizi della costruzione europea, come nacque nei giorni del fervore e della tensione politica. « Europa atlantica », « Europa carolingia » erano delle formule evidentemente legate alle circostanze di un momento. Quando le circostanze sono cambiate le formule non hanno più corrisposto. « L'Europa paga oggi il prezzo del colore po•litico con cui venne alla luce » è il giudizio di un membro della Co,mmissione. Come rimediare a questa crisi d'ideologia? I « sacerdoti » dell'europeismo si sono appunto per questo trasformati in burocrati, in « eurocrati >?. Ham10 cercato di dare al loro lavoro un carattere tecnico e amministrativo, di realizzare giorno per giorno un'integrazione nelle cose, un'« unificazione strisciante ». Non aveva forse J ean Monnet, uno dei pa·dri ideologici dell'europeismo, parlato lui stesso di un'« Europa fun12 BibliotecaGino Bianco

·' Rilan,ciare l'Eurova zionale »? Non aveva egli così dato l'avallo della sua autorità a quella tattica fondata su realizzazioni silenziose, che avrebbe un giorno messo davanti agli occhi di duecento milioni di europei la nuova realtà? Ora gli eurocrati tendono a dividersi in due correnti di pensiero. C'è chi afferma cl1e l'Europa dei sei ha già compiuto il lavoro più vistoso, che la macchina è già avviata sul binario della normalità, che occorre solo trovare e conservare la « velocità di crociera ». Non che l'unificazione sia fatta: questo nessuno lo dice. Ma si punta l'accento sul fatto che il periodo dell'avviamento, la fase della messa in moto - « sempre i momenti più difficili », vien ripetuto - sono stati superati. A questo punto sarebbe quasi impossibile tirarsi indietro. Si tratta di consolidare con un costante sforzo quotidiano le conquiste già compiute, di portare tutta la realtà europea sulla stessa linea delle posizioni acquisite. Le strutture portanti sono state poste: adesso occorre riempire i vuoti, gli spazi lasciati scoperti per quanto larghi al fine di completare la costruzione dell'edificio. Crisi dell'ideologia europeista? Si risponde: non una crisi ma un normale passaggio dai grandi pri11cipii alla realtà. L'Europa non è più oggetto· d'ideali? Ma perché è ormai oggetto di studi: nelle università francesi le tesi di gran lunga più frequenti sono quelle dedicate ai molti aspetti della lunga strada comunitaria già percorsa. Sulla base di un'indagine compiuta in coincidenza col 1° luglio dalla SOFRES (Società francese d'inchieste e di sondaggi) risulta che il 67 per cento dei francesi interrogati è favorevole all'unificazione politica dell'Europa. Solo un otto per cento si è dichiarato contrario. I favorevoli si trovano non solo fra gli indt1striali, i grandi commercianti, i rappresentanti delle professioni liberali, ma anche fra i seguaci dei partiti normalmente critici dell'europeismo classico. Il 77 per cento degli elettori gollisti e il 56 per cento di quelli comunisti si augurerebbero la costruzione dell'Europa. Il 66 per cento dei francesi interpellati è disposto ad attribuire ad un organo federale europeo la competenza sulla ricerca scientifica, il 61 per cento la politica estera, il 41 per cento la politica sociale. Un 53 per cento contro un 30 per ce11to approva l'idea di una moneta unica europea; maggioranza, per quanto minore, di sì pure per un esercito europeo: 42 per cento contro 36 per cento. Cinquantanove francesi su cento sarebbero favorevoli a eleggere anche subito un Parlamento europeo. Dall'inchiesta il nazio,nalismo sembrerebbe confinato anche in Francia al campo dello sport e dei simboli: un 53 per cento· è contrario a veder sostituire nelle competizioni la squadra nazionale francese con una squadra europea, mentre il 70 per cento non vuol rinunciare ai colori della bandiera francese. Questa indagine darebbe dunque ragione agli' ottimisti, per i quali l'importante per l'Europa è di proce13 iblioteca Gino Bianco

Dino Frescobaldi dere al passo di un'amministrazione quanto più agile ed efficiente possibile. La tendenza che si contrappone a quella concezi~ne reclama invece per l'Europa il « salto qualitativo », il passaggio ad un secondo tempo. Si chiede, anche come garanzia di quanto è stato già fatto, un « ritorno alle origini, cioè alle finalità veramente politiche ». Se no•n si fanno passi avanti, si osserva, corrian10 anche il rischio di mettere in pericolo i risultati già ottenuti. Sul Mercato comune pesa la minaccia dei « soprassalti di protezionismo ». Chi parla così cita a conferma i recenti provvedimenti del governo di Parigi e la maniera come sono stati comunicati agli altri soci. Per completare l'unificazione economica dell'Europa, per colmare i grandi spazi vuoti e i pro.fondi fossati, che l'operrazione del 1° luglio ha lasciato nell'integrazione tra i sei, occorre una spinta politica. Il punto della irreversibilità non è stato affatto superato dal momento che il lavoro della commissione può essere praticamente bloccato in ogni istante dalla volontà di uno dei partners. Fin quando non ci sarà sovranazionalità non ci sarà irreversibilità: questa in poche parole la conclusione da trarre. Anche le difficoltà tecniche, i cozzi d'interessi particolaristici s'ingrandiscono e si acuiscono quando si sa che è sempre ·a disposizione la strada del veto, del ritiro sull'Aventino. Il veto che blocca tutto, la « man- - canza di unanimità » che paralizza l'azione sono le armi per fare di ogni piccolo ostacolo un incaglio insuperabile. Uno dei commissari, l'ambasciatore Guido Colonna di Paliano, definisce il nazionalismo quel « brivido nella schiena » che i soci possono sentire davanti al cattivo esempio di uno di loro e cl1e fa pensare « quello che hai fatto tu lo posso fare anch'io ». Per lottare appunto contro questi « brividi nella schiena », questi ritorni all'irragionevole l'Europa avrebbe bisogno di un grande rilancio ora che l'integrazione è scesa sul terreno degli interessi e dei problemi sempre più concreti. L'arresto sulle attuali posizioni vorrebbe dire la rinuncia a impostar,e i problemi che ·la seconda rivoluzione industriale po11e al nostro continente. Lo sviluppo dell'industria a tecnologia avanzata presuppone gara11zie di ordinativi che solo gli Stati possono dare ai privati. E solo piani di vasto respiro evidenteìnente fa11no al caso. In altre parole è necessario che i governi si mettano d'accordo per stabilire gli « indirizzi di sviluppo ». Non si è fatto niente. Ed è logico, purtroppo; per arrivare a quel livello dj coordiname11to in u11 settore che avrà sempre maggiore potere di condizionamento sugli Stati occorrerebbe fin d'ora un'intesa basata su una solidarietà politica irreversibile. Mancando questa, si perde del tempo. I grandi progetti in coml1ne sono stati per forza messi da 14 Bibli·otecaGino Bianco

.. Rilanciare l'Europa parte. Basterà ricordare esemplificativamente la sorte dell'Euratom. Il divario tecnologico si allarga. Contro questa te11denza delle cose si battono ormai in pocl1i. Rey, il belga che De Gaulle ha « scelto » come presidente della com1nissione dopo aver imposto il ritiro di I-lallstein, si affida alle sue arti diplomatiche per far navigare il vascello comunitario senza urtare nessuno. Non da lui possono venire iniziative di rilancio. Per De Gaulle è lì per questo. Si batte Sicco Mansholt, il socialista olandese che ha la paternità della politica agricola comunitaria. Non è un utopista e la maniera come l1a trattato la questione agricola, scendendo a costosissimi compromessi, lo dimostra. Dice: « Noi vediamo come determinati fattori, quali lo Statonazione ed il nazionalismo vecchio stile, possano frenare lo sviluppo; uso l'immagine del freno piuttosto che quella di un'inversione di marcia, poiché il freno può essere il risultato di un atteggiamento negativo, di mancanza di volontà d'agire. L'azione frenante può essere n1antenuta fino a che tutto giunge ad un arresto completo. Ciononostante ho fiducia che l'azione da noi avviata sarà continuata per la semplice ragione che non esistono alternative. I proble1ni che stiamo studiando non possono essere risolti applicando i vecchi metodi di cooperazione tra Stati. Essi sono troppo interdipendenti, troppo complessi sotto gli aspetti non soltanto economici e sociali, ma anche, e principalmente, politici. La crisi del 1965 nella nostra piccola Comunità ha dimostrato che non esistono più alternative di qualsiasi genere ». Sono i governi, anche quelli che non perdono occasione di professarsi europeisti, pronti a prendere l'iniziativa del rilancio politico? Troppe volte inerzia, provincialismo, politica del giorno per giorno si sono nascosti dietro la scusa di dare la colpa a De Gaulle. Il nostro governo ha anch'esso la sua responsabilita se l'Europa si è fermata. A parole i governi italiani si son sempre dichiarati europeisti, hanno, pagato sempre quello che gli anglosassoni dicono un « tributo labiale » alla causa sovranazionale. Pu11tualmente ci siamo indignati tutte le volte che De Gaulle ha messo in crisi la Comunità. Salvo poi a « lasciare che le cose andassero per il loro verso ». Quando certi problemi si son presentati con un carattere politico 11n po' « delicato », i governi italiani hanno preferito sempre non affrontarli. L'Europa poteva aspettare. Per diverse legislature non è stata rinnovata la rappresentanza italiana al Parlamento europeo di Strasburgo. C'erano dei posti vuoti lasciati da deputati defunti. Altri posti erano ancora occupati da « deputati » non più eletti nel parlamento nazionale. C'erano i fascisti ma non i socialisti. La politica italiana non poteva essere più contraddittoria. Da un lato Roma si batteva per l'elezione a suffragio diretto di un Parlamento 15 BibliotecaGino Bianco

Dino Frescobaldi europeo; dall'altro lato si chiudevano gli occhi di fronte alla necessità di includere anche i comunisti nella rappresentanza parlamentare italiana. Quando De Gaulle ha bloocato l'« allargarp.ento .al nord » della Co.. munità, l'Italia ha bloccato l'« allargamento, al ·sud», verso l'area mediterranea. Semplice gesto di puntiglio e di rivalsa o decisione politica meditata? Tra i paesi del b·acino mediterraneo che avevano chiesto forme diverse di associazio,ne e di accordo con la Comunità c'è la Spagna franchista come la Jugoslavia, ci sono i paesi di recente indipendenza del M·agreb verso i quali sosteniamo di voler seguire una politica di « comprensione ». Nel nostro comportamento hanno pesato pregiudiziali politiche verso certi regimi, oppure vi ha influito la preoccupazione di difendere determinati interessi particolari da produzioni concorrenziali? « Ci sono stati pochi santi fra i sei del Mercato comune » scrivono Merry e Serge Bro·mberger nel loro Les Coulisses de l'Europe. Scomparsa la prima spinta idealistica, venuta meno la solidarietà politica, tutto il negoziato tra i sei si è ridotto ad un continuo « contemperamento di interessi ». L'Italia ha chiesto la sua parte soprattutto nel quadro della trattativa in materia agricola, ma a11che gli altri partners non sono da meno. Perfino il Lussemburgo - trecentomila persone che oltretutto l'esperienza delle due guerre mondiali dovrebbe aver « traumatizzato » circa i pericoli delle politiche nazionaliste - ha fatto a momenti resistenza all'integrazione, si è barricato dietro la « protezio,ne degli interessi nazionali » quando si è parlato di agricoltura e di libertà di movimento della manodopera. I lavori del « gruppo Marechal » nel campo tecnologico sono arrivati poco lontano: stavolta la responsabilità di averli bloccati spetta agli olandesi che, di fronte alla politica di Parigi verso Londra, hanno creduto essi pure di poter esercitare il loro « diritto » di veto e di rappresaglia. Un miracolo dunque se tra scosse e sussulti l'Europa ha ancora «tenuto» e anzi è arrivata alla data del 1° luglio? A momenti, di fro·nte al riapparire di tanti particolarismi, c'è quasi da pensarlo. In verità solo a condizione di non accontentarcene ci possiamo rallegrare dei risultati. « L'osmosi è più avanzata di quanto si pensa. L'economia tedesca prende il raffreddore; la Francia comincia a tossire. Il miracolo italiano si compie; le esportazioni tedesche aumentano verso la penisola del trenta per cento. Gli alleati della Francia si irritano contro l'antiamericanismo del generale; questi a sua volta se la prende con l'alleanza germano-sovietica all'interno del Mercato comune. Ma i sei fanno fronte comune un giorno su due contro l'inflazione del dollaro »: è il giudizio che sottoscrivono i due Bromberger. I giovani dimostrano una mancanza d'interesse verso la costruzione 16 Biblioteca Gino Bianco

Rilanciare l'Europa dell'Europa unita? Come spiegare che nessuno dei movimenti « alla ricerca di qualcosa di nuovo » ha ritenuto che l'unificazione del vecchio continente fosse un obiettivo valido? Si può comprendere come a molti il sogno di un'Europa unita si presenti « immiserito nei problemi di uno snervante do ut des economico », come ci sia più « passione » nelle lotte di popoli e di continenti che attraversano la loro « fase ottocentesca ». Questo non significa che l'europeismo sia sconfessato dai movimenti giovanili. Al contrario, per molti di loro l'europeismo sembra essere un dato di fatto più che per gli anziani. Il superamento delle frontiere, sintetizzato in un celebre giudizio di Cohn-Bendit, è stato t1na delle caratteristiche dell'agitazione giovanile. Può darsi che la crisi investa solo la concezione dell'Europa a sei. Ma in realtà nessun europeista ha mai pensato di fare di quella formula il suo schema fisso, il suo ideale ultimo. Essa è il 11ucleo, non il corpo; il mezzo, non il fine. Oggi si avverte l'esigenza che a quel disegno partecipino e rechino il loro contributo altri popoli e altre forze politiche. Questo sì. E la crisi dei vecchi scl1ieramenti sembra già consentirlo. « Lo slancio deve venire dal basso: i vertici, i governi l1anno dato tutto, ora sono in fase di regresso » afferma uno dei vice-presidenti della Commissione. Più che nei risultati ottenuti, l'ideale europeo va misurato nel suo potere di rilancio. DINO FRESCOBALDI 17 · BibliotecaGino Bianco

Narra ti va meridionale e problematica di cultura di Lanfranco Orsirii I Se ne tolgano alcuni eccessi sentimentali e utopistici, e si colga nelle righe seguenti nient'altro che una rappresentazione icasticamente efficace di uno stato d'animo che l'intellettuale napoletano o del Sud più di una volta ha provato: « Una striscia azzurra che tocca paesi e città: Nuova York, Londra, Parigi, Zurigo, perfino Roma! Ma lì la striscia vira di botto, anzi arretra spaventata, e fila verso Milano. E poi più su, al Nord. Eh, il Nord! Per Vienna Berlino Svezia Norvegia Olanda Copenaghen Russia, fino alla Cina, fino alla Corea, scorre la fresca. stimolante grande corrente, gulfstream della Storia, dando vita alla vita dei fortunati abitanti delle terre che tocca. Lì industrie, sesso, stipendi, pensieri, facce, viaggi, guadagni, l'amore di una donna, piani quinquennali e personali, perfino le guerre, tutto possibile e reale perché tutto toccato e avvolto· dalla fresca stimolante corrente che dà senso a ogni cosa. E noi qua, nel cuore di una vasta area indistinta, zona depressa subitaliana, mai toccata dalla fresca stimolante corrente, con la Foresta Vergine che cresce senza senso insensatamente avvolgendo vita e pensieri ». È la nota pagina di Ferito a morte di Raffaele La Capria; e il miglior merito, se non letterario, civile di questo libro ci appare tuttora di aver rappresentato nel personaggio di Gaetano una siffatta coscienza intellettuale e morale di Napoli, che risc11iava altrimenti di restare nella sua narrativa unicamente come la patria de~ « bassi » e degli « scugnizzi » e della piccola o piccolissima borghesia. E non è senza intenzione che da una simile pagina prendiamo le mosse per questo rapido sguardo su un carattere che sembra a noi peculiare della letteratura meridionale, e che è appunto il suo essere tenacemente isolata o estraniata, nelle sue costanti contenutistiche di personaggi e di temi, da quella problematica culturale, di idee, che è tanta parte delle narrative straniere, e particolarmente tedesca, inglese e francese: carenza che tuttavia si riscontra, sia pure con meno immediato risalto, nella narrativa italiana in genere. 18 Biblioteca Gino Bianco

Na1 rativa meridionale e problematica di cultura E vogliamo qui fare, all'inizio, una dichiarazione di principio che potrà anche parere in certo qual modo personalistica, ma che in effetti concerne un problema di valutazione e di metodo la cui soluzione, in un senso o nell'altro, allarga o restringe la stessa nozione, e la conseguente portata ideologica e culturale, della narrativa e della letteratura del Sud. E cioè che di essa, da parte di critici e storici, si suol conservare un'interpretazione troppo restrittiva e categorica, per cui scrittore meridionale è ritenuto soltanto chi narra di personaggi e di ambienti tipicamente e anagraficamente locali: confondendo quindi « meridionale» con « meridionalistico ». Ma anche le « eresie » (per dirla secondo il titolo del libro di Guido Macera, L'eresia meridionale) co11corrono a determinare un aspetto, se non altro per anomalia, della società e della letteratura del Mezzogiorno. Si tratta comunque di rare, di troppo rare eresie; e come già si è detto più sopra, la considerazione si allarga a quasi tutta, nel tempo, la narrativa italiana. Se guardiamo ai romanzi di un Thomas Mann, di un Resse, di un Broch, di u11 Musil (e per non limitarsi a tedeschi sì potrebbe citare anche un Gide, un Camus, un Huxley), opere così intimamente nutrite della tematica intellettuale, filosofica e psicologica della più alta cultura europea, e poi consideriamo nel suo insieme la produzione dei narratori nostrani, essa ci sembra tenacemente ristretta alla fattualità più immediata e quotidiana dell'esjstenza come sentimento, azione, socialità, quasi mai sollevandosi a contenuti e problemi intellettuali, verso cui si dimostra, al contrario, sostanzialmente disinteressata ed estranea. Ed è proprio negli scrittori meridionali che ciò più si nota ed avverte, contraddicendo nell'apparenza a un ambiente che è stato forse il più denso storicamente di fervori e fermenti ideologici. Si pensi al Vico e alla Napoli illuministica del Filangieri e del Cuoco sul finire del '700, al De Sanctis e alla sua scuola nell'800 anche per ciò che essa significò sul piano civile, e poi a un Labriola e alla presenza di un Croce. E per l'appunto un saggio del Croce, La vita culturale a Napoli dal 1860 al 1900, documenta l'intensità e la vivezza di questa cultura napoletana alla fine del secolo scorso; ma gli scrittori meridionali, dalla Serao ai più recenti, hanno quasi del tutto ignorato tale realtà « superiore », si sono dedicati esclusivamente a rappresentarci il mondo del popolino o della piccola borghesia, mondo che è ancora al di qua di ogni interesse culturale e intellettuale: un mondo i cui problemi principali sono quelli del pane, dello stipendio, delle più elementari passioni. Ora è chiaro: se uno scrittore realista rispecchia necessariamente l'ambiente, se certi fattori storico-sociali, di base, in una letteratura realistica contano, il fenomeno ha una sua interna necessità che lo intona 19 BibliotecaGino Bianco

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