Nord e Sud - anno X - n. 39 - marzo 1963

' Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Ernesto Mazzetti, I giornalisti e la paura della libertà - Franco Fiorelli, Programmazione regionale e Comunità Europea - Raffaello Franchini, Si sbarca stt Croce? - Gio,ranni Coda-Nunziante, L' ammodername11to del mercato ortofrutticolo Rosellina Balbi, L'esilio dalla realta. e scritti di Tarcisio Amato, Sergio Antonucci, Alberto Aquarone, Aldo Canonici, Vittorio De Caprarijs, Paolo Foglia, Mirella Galdenzi, Giorgio Granata, Augusto Graziani, Michele Novielli, Sisinio Zito. ANNO X - NUOVA SERIE - MARZO 1963 - N. 39 (100) EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI Bib,liotecaginobianco

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[ '~ < I NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO X - MARZO 1963 - N. 39 (1()()) DIREZIONE E REDAZIONE: N a p o 1i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei. Mille, 47 - Napo 1 i - Telef. 393.346-393.347 Una copia L. 400 - Estero L. 500 .. Abbonamenti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 4.000, semestrale L. 2.100 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli Bibliotecaginobianco

SOMMARIO Ernesto Mazzetti Franco Fiorelli Raffaello Franchini Michele Novielli Paolo Foglia Sergio Antonucci Editoriale [3] I giornalisti e la paura della libertà [7] Progranimazione regionale e Comunità Europea [18] Note della redazione Televisione e politica - Un'occasione perduta « Bontà di Napoli» - L'Acropoli [34] Giornale a più voci Si sbarca su Crac?,? [ 43] L'infanzia d'u11a cooperativa [ 47] Libri « gratuiti » per le elementari [54] Due convegtzi sugli immigrati [58] Gior11ali e riviste Rosellina Balbi L'esilio dalla realtà [72] Argomenti G. Coda-Nunziante L'an1modernan1ento del mercato ortofrutticolo [82] Tarcisio Amato Augusto Graziani Alberto Aquaro·ne Giorgio Grar1ata Mirella Galdenzi Aldo Canonici Recensioni Storici e storia del Risorgiraento [98] Scienza economica e razionalità [ 103] Roma, una lurLga battaglia [107] I settimanali di sinistra in Fran.cia [ 110] « Caracciolate » e « biribissi » [ 113] La polemica dei tests [116] Lettere al Direttore Sisinio Zito La riforma delle istituzioni [ 121] Vittorio de Caprariis Ettore De Giorgis Moro e Fa11fani [125] Libri ricevuti [ 127] Bibliotecaginobianco

Editoriale se· i partiti democratici europei non trovassero il coraggio di scendere in campo per condurre una decisa battaglia antigollista, non resterebbe più nessuna speranza per l'europeismo, per le istituzioni europee, per gli sviluppi comunitari; non resterebbe, cioè, nessuna speranza di ridurre alla ragione i francesi. Ma se, dal piano delle schermaglie diplomatiche, i democratici europei trasferiranno la reazione alle pretese golliste sul piano della lotta politica, allora, forse, queste pretese, inaccettabili, rientreranno o per lo meno si ridimensioneranno. Questo ha avuto il merito di aver capito Vgo La Malf a, la cui decisa reazione al gollismo ha sollevato tante discussioni. Ed è significativo che certi giornali italiani che si erano dati molto da fare per dimostrare che la fedeltà alla politica atlantica del nostro paese era seriamente insidiata dai discorsi dell'on. Forlani, si sono poi dovuti arrampicare sugli specchi per convincere anzitutto sé stessi che De Gaulle aveva le sue buone ragioni per prendere certe posizioni e che queste posizioni devono essere -interpretate e discusse con « prudenza », p~rché, a volerle contrastare con « iniziative avventate », si rischia di provocare una crisi irrimediabile in sede atlantica ed europeista. Ma quando ci si ostina a voler convincere anzitutto sé stessi per la paura 'di dover affrontare la realtà così com'è, diversa da come era, non è strano che si finisca addirittura per cedere alla tentazione di truccare le carte. Ad un certo punto, quindi, dal disperato tentativo della stampa moderata e benpensante di trovare giustificazioni a De Gaulle e di addebitare, soprattutto, e comunque, una qualche colpa al centrosinistra (reo, questa volta, di non essere stato la causa della crisi che nella politica atlantica ed europeista è stata provocata proprio dalla destra europea) è venuta fuori la tesi polemica che un « colpo di testa» c'era stato, non da parte di De Gaulle, ma da parte di La Malfa, che, per « dispetto» a De Gaulle, aveva proposto in una lettera a Fanfani che l'Italia uscisse dal Mercato Comune. Quando poi il testo di questa lettera di La Malfa a Fanfani è stato ~eso noto da La Malfa stesso . (al convegno degli « amici del 'Mondo ' » sui problemi europei), ne è risultato che all'origine di essa era proprio la preoccupazione di correre ai ripari per evitare che la spallata gollista facesse crollare del tutto l'impalcatura del Mercato Comune. 3 Bibliotecaginobianco

Editoriale Si è detto pure che La Malf a aveva fatto una sortita di politica estera per correggere certi sbandamenti della maggioranza, per motivi, cioè, di politica interna. Ma La Malfa, dopotutto, aveva implicitamente anticipato le reazioni che poi sono state quelle di tutti i democristiani europei e degli stessi uomini che possono considerare il MEC come una loro propria creatura, Monnet in primo luogo. E quindi sia gli attacchi scoperti o subdoli a La Malf a, sia i tendenziosi tentativi di dimostrare che le sue prese di posizione antigolliste suscitavano contrasti più o meno unanimi, o per lo meno perplessità, all'interno del governo, e da parte dei rtzinistri dorotei in particolare, sia le corrispondenze dei quotidiani ed i comunicati d'agenzie scritti allo scopo di sminuire quelle prese di posizione o addirittura di alterarne il senso, sono stati dettati, questi sì, da nzotivi di politica interna (vale la pena di ricordare, a questo proposito, itna corrispondenza di Piero Ottone al « Corriere della Sera » perché tale corrispondenza, scritta peraltro alla vigilia della conferenza-stampa di De Gaulle, ha rappresentato un casolimite di irresponsabile settaris1no). E così, quando ci si domanda, più o meno stupiti, perché uo1nini come l'on. Gonella e l'on. Scelba, che erano stati con De Gasperi f aittori di solitzioni europeistiche interpretate in senso rigorosan1ente antinazionalista, si sono ritrovati ora non dalla parte dei democralici, non dalla parte dei Monnet e dei La Malfa, ma dalla parte dei fascisti, degli irriducibili reazionari e degli incalliti nazionalisti che praticano un europeismo tutto strumentale e inaccettabile nelle sue pre,nesse e nei suoi fini, quando ci si domanda, cioè, quali sono le ragioni del filogollismo di questi uomini non si può trovare altra risposta che questa: essi ubbidiscono oramai a rifiessi poliiici che sono esclusivamente condizionati dall'avversione al centrosinistra, e più ancora agli i1omini del centro-sinistra. E allora non è lecito dire che La Malf a ha fatto itna sortita di politica estera per motivi di politica interna. Si è detto, infine, che il Ministro del Bilancio non può « mettersi a fare il Ministro degli Esteri ». E questo è giusto. Ma La Malf a si è guardato bene dal « mettersi a fare il Ministro degli Esteri », Ogni ministro che partecipa all'opera di un organo comunque collegiale, ha il diritto e il dovere, però, di prendere posizione quando si deve decidere di questioni che, anche se non di sua esclusiva competenza, coinvolgono chiaramente interessi politici di ordine generale. È nella piena coscienza di questo diritto e di questo dovere che La Malf a ha scritto a Fanfani e per conoscenza a Piccioni e a Colombo, il nego·ziatore di Bruxelles, comunicando, cioè, a chi era specificamente competente per le questioni sollevate dai difficili negoziati con la Gran Bretagna, il 4 Bibliotecaginobianco

Editor-ial~ proprio punto di vista, _poiché ne aveva uno, evidentemente, e aveva capito che ci stavamo avvian·do verso una crisi assai grave, come la conferenza-stampa di De Gaulle intervenuta pochi giorni dopo doveva chiaramente dimostrare. Ma lasciamo stare la campag11a di stampa scatenata contro La Malfa e vediamo, per concludere, perché la sola cosa che resta da fare è di raccogliere le forze in tutti i paesi etlropei per una battaglia d'arresto contro i nazionalisti francesi. Il Mercato Comune è in crisi. Ma non si dica che la colpa di questa crisi è degli olandesi o degli italiani che frappongono ostacoli e difficoltà al varo di provvedimenti cl1e erano stati già negoziati fra i Sei, . provvedimenti per l'agricoltiLra e per i paesi d'oltremare. La colpa è tutta dei francesi, è tutta di De Gaulle. È a De Gaulle, quindi, che si deve ora far capire chiaramente che così non si può andare avanti, così si rischia di sfasciare tutto, perché non c'è più convenienza a portare avanti una costruzione di cui De Gaulle pretende di servirsi per fini che non possono essere condivisi dagli altri paesi della Comunità. E questo lo si può far capire non con la «prudenza» raccomandata dai diplomatici, non con lo « spirito accomodante » cui fanno appello i giornali moderati, ma con una serie di reazioni politiche concatenate e quanto mai risolute. Con la «prudenza» e con lo « spirito accomodante » siamo arrivati al punto cui siamo arrivati, alla crisi gravissima che De Gaulle ha deciso di aprire. Se è venuto il momento, quindi, di itno scontro frontale fra i democratici europei ed i naziona- , listi francesi, è De Gaulle che lo ha voluto. Tra l'altro, se i democratici europei si sottraessero a questo scontro cercando soluzioni dilatorie e interlocutorie ai problemi creati da De Gaulle, cercando di tener buono quest'ultimo, cercando di salvare il salvabile, come suol dirsi, non salverebbero proprio niente. Scontro frontale, dunque, davanti a tutta l'opiniotie pubblica europea. Si tratta di affermare chiaro e forte che nessuno è disposto, fra i democratici europei, a consetztire che il MEC - che doveva essere la tappa fondamentale per il traguardo dell'Europa unita sotto il reggimento di istitiLzioni sovranazionali - diventi niente altro che uno degli strumenti del nazionalismo di De Gaulle. Si tratta di creare una C<:Jmunepiattaforma politica antigollista ed europeista fra tutti i partiti democratici dei sei paesi del MEC. Si tratta di isolare De Gaulle, isolando la Francia perché gollista e in, quanto gollista. Come ha scritto « The Eco11omist » del 9 febbraio, « il generale De Gaulle raggiunge i suoi obiettivi non solamente mediante la sua audacia... ma anche attraverso il corrispondente scarso coraggio dei suoi 5 Bibliotecaginobianco

Editoriale oppositori ». E infatti, quando qtlalcuno trovçi questo « coraggio », e capisce che si deve fare tutto quello che è possibile per ferma re De Gaulle, e che solo così si può salvare il salvabile, escono fuori subito coloro che riducono il tutto a «dispetti» o a manovre artificiose per salvare maggioranze di governo in pericolo. La posta in gioco non· consente, tuttavia, di nutrire dubbi. O il « coraggio » che è necessario a ferma re il generale-presidente viene trovato o ciò che andrà perduto non sarà semplicemente un modo diverso da altri di concepire l'Europa, ma la possibilità stessa di mantenere in vita tutto. ciò che di veramente europeo si è costruito finora. E sia betz chiaro che il « coraggio » di cui parliamo è tanto una questione di coscienza o di volontà democratica quanto un problema di grande strategia politica. L'opposizione a De Gaulle, cioè, deve avere le sue ragioni non solo in una pregiudiziale difesa e salvaguardia della fisionomia liberale della nascitura convivenza europea, ad ogni livello dell'attività e del dibattito politico, ma anche nella retta intelligenza della congiuntura storica di cui due grandi guerre mondiali hanno determinato\ l'avvento per l'Occidente europeo e per il mondo tutto. 6 B"bliotecaginobianco

I giornalisti e la paura della libertà di Ernesto Maz1etti Sulla Gazzetta Ufficiale del 20 febbraio scorso è stata pubblicata, ed è contemporaneamente entrata in vigore, la legge sull'ordinamento della professione di giornalista. Disse il Cavour al Parlamento Subalpino nella tornata del 5 febbraio 1852: « Fra i problemi che presenta la moderna legislazione, e l'ordinan1ento delle libere istituzioni, io credo che il più difficile, il più malagevole a sciogliersi in modo soddisfacente sia quello della libertà di stampa... Il conciliare l'esercizio della libertà con la repressione degli abusi che ne po1ssono nascere è impresa nonché difficile, oso dire impossibile: quindi la necessità di contentarsi di leggi imperfette ... E non esito a confessare che in fatto· di stampa a,,remo sempre una legislazio·ne imperfetta». Di questa legislazione imperfetta è senza dubbio t1ltimo, e non più piccolo esempio, appunto la legge che istituisce l'ordine dei giornalisti. Anche se l'o·n. Nenni ha citato, davanti agli interessati, la legge in questione come una posta attiva del lavoro di governo in questi ultimi mesi della legislatura, resta il fatto che è stato creato un complesso di disposizioni che non recano un servigio alla libertà di stampa né risultano aderenti nella nusura necessaria alla realtà delle cose. E di questo nessuno ha parlato. La prima, pregiudiziale obiezione verte sulla stessa refrattarietà dell'attività giornalistica, così come si svolge oggigiorno, a lasciarsi inquadrare nei confini d'un ordine professionale. Non vogliamo riferirci, dicendo questo, ad una affermazione di Luigi Einaudi, che pur condividiamo, secondo la quale « l'albo obbligatorio è immorale perché tende a porre un limite a quel che limite non ha e non deve avere, la libera espressione del pensiero »; ma vogliamo in primo luogo porre in rilievo un contrasto abbastanza evidente tra le caratteristiche del lavoro svolto da ogni giornalista professionista cl1e componga oggi l'o.rganico d'un quotidiano o d'un periodico e la natura d'un ordine professionale, così come essa è venuta ·storicamente delineandosi e com'è determinata dalle leggi e dalla prassi. Gli « ordini » attualmente esistenti si riferiscon,o tutti a professio·ni cosidette libere, e i loro iscritti so,no per la grande maggioranza liberi professionisti, cioè persone le quali - per adoperare la definizione d'un ap·prezzato giurista - 7 Bibliotecaginobianco

Ernesto Mazzetti esercitano una « attività lavorativa prevalente~ente. di carattere intellettuale posta in essere se11za vincoli di subordinazione e con ampia discrezionalità tecnica ». Chiunque abbia esperienza giornalistica sa che il lavoro del giornalista molto stentatamente potrebbe rientrare in tale definizio·ne: ogni redattore, cronista, corrispondente di quotidiano o rotocalco agisce - con maggiore o minore maestria a seconda della sua sensibilità, cultura, esperienza - in conformità delle disposizioni ricevute dal redattore capo o dal capo servizio, i quali, nell'impartire siffatte disposizioni, non fanno che eseguire quelle a loro volta ricevute dal direttore responsabile. A questo punto sembrerebbe d'aver identificato, nel direttore, l'unico giornalista in condizione di svolgere « senza vincoli di subordinazione e con ampia discrezionalità tecnica » una attività lavorativa di carattere intellettuale. In realtà anche il direttore è vincolato; e lo è in virtù del contratto che lo lega alla proprietà del giornale. È chiaro che, nella maggioranza dei casi, il vincolo è solo relativo dal momento che il direttore condivide le tesi politiche e gli indirizzi tecnici che la proprietà intende far seguire al foglio, chè un contrasto permanente tra editore e direttore rappresenterebbe un assurdo; ma, nell'ipotesi in cui il direttore non condivida né tesi né indirizzi della proprietà, non gli resta che assoggettarsi o abbandonare la direzione. È certo, comunque, che medici, ingegneri, architetti e avvocati hanno, nei confronti delle opinioni e delle decisioni dei loro clienti, un margine d'indipendenza di gran lunga maggiore di quello di cui fruisce un giornalista nei confronti del suo principale cliente, ovvero l'editore. L'istituzione di un ordine professio,nale risponde soprattutto a un interesse pubblico: garantire che quanti intraprendono attività di particolare rilievo per la collettività, quali la tutela dei diritti dei cittadini innanzi ai tribunali, la cura dei loro corpi, la costruzione e la progettazione di edifici ed opere pubblicl1e, abbiano effettivamente un minimo di capacità per svolgere tanto delicate mansioni. A tal fine gli « ordini » disciplinati dalla legge prevedono l'ammissione solo di coloro che .hanno conseguito una laurea e superato un esame pubblico dopo un certo periodo di pratica professionale. Qual'è l'interesse della collettività in ordine alla professione giornalistica? Evidentemente quello di essere inforrr1ata tempestivamente e in modo veritiero, e orientata attraverso la critica che, in base alle informazioni assunte, il giornalista fa di avvenimenti, persone e cose. 8 Bibliotecaginobianco

I giornalisti e la paitra della libertà È ovvio che tale interesse può trovare soddisfacimento solo nella misura in cui viene garantita piena e assoluta libertà alla stampa: se non c'è libertà, non c'è critica, né, tantomeno, possono esservi informazioni attendibili. Vi saranno soltanto « comunicazioni » relative a ciò che le forze dominanti, le stesse che limitano la libertà d'espressione, desiderano che l'opinione pubblica sappia. Usciamo da una troppo· recente e dolorosa esperienza dittatoriale per non conoscere appieno cosa significhi l'asservimento degli organi d'informazione alla volontà dell'esecutivo; e non vogliamo alludere solo all'impossibilità dell'esercizio della critica politica, ma al controllo capillare, ottuso, oppressivo che il fascismo esercitava sulla stampa, impedendo la circolazione di notizie del genere più disparato, di cronaca nera, pubblicitarie, culturali; e all'ostracismo decretato a quei giornalisti che serbassero una condotta politica eterodossa: ovvero che « abbiano svolto una attività in contraddizione co-n gli interessi della Nazio,ne », per usare il suggestivo linguaggio della Legge sulla Stan1pa fascista. ' V'è dunque un interesse della collettività in o,rdine alla professione giornalistica: ad esso corrisponde - e costituisce la condizione pregiudiziale per il suo soddisfacimento - un diritto di ogni singolo componente la collettività stessa: il diritto - sancito dall'art. 21 della Costituzione - alla libera manifestazione del « proprio pensiero attraverso la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusio·ne ». Purtroppo, com'è felicemente detto nella premessa a un libro in cui sono raccolte tutte le disposizioni inerenti all'attività giornalistica \ (Assante, Cerillo, Tranfaglia), « la norma ha esplicato scarsa efficacia, principalmente per due ragioni. Prima di tutto in quanto è stata co•nsiderata una norma direttiva, un principio di cui curare l'attuazione (com'è noto, i giuristi s11ddividono le norme costituzionali in precettive, cioè di immediata attuazione, con efficacia abrogativa nei riguardi di precedenti disposti legislativi in contrasto con esse; e direttive, come quella citata, con un valore, quindi, assai meno tangibile). In secondo luogo, la legge del febbraio 1948... che avrebbe dovuto disciplinare in modo organico e unitario tutta la materia - applicando le direttive che scaturivano dall'art. 21 - per i contrasti che ne caratterizzarono l'approvazione è costituita soltanto da uno stralcio del testo originale, .e riguarda per lo più misure urgenti in quel particolare momento». La conseguenza è stata che le precedenti 1101 nne sulla stampa, che risalgono quasi tutte al periodo fascista, no1 n sono considerate abrogate in quanto non so1 stituite da altre: « Il caso più evidente - continua il testo sopracitato - è rappresentato dalla legge fascista 26.2.1928 n. 38 contenente le norme che regolano in Italia la professio·ne giornalistica ». 9 Biblio ecaginobianco

Ernesto Mazzetti Ora, la legge istitutiva dell'Ordine dei Giornalisti; entrata in vigore 1o scorso febbraio sostituisce appunto il testo fascista del '28 e le modificazioni (molto marginali) ad esso apportate dal decreto luogotenenziale 23.10.1944, n. 302. Rappresenta questa nuova legge una sostanziale novità rispetto alla legge fascista? O, cosa di gran lunga più importante, reca essa un maggior contributo alla libertà di stampa? Cerchiamo di rispondere alla prima domanda. La legge del '28 affermava che per esercitare la professione di giornalista bisognava essere iscritti all'albo professionale, co·mposto da tre elenchi, dei professionisti (ovvero coloro che esercitano esclusivamente l'attività giornalistica), dei praticanti, dei pubblicisti (coloro che collaborano in forma continuativa e retribuita ai giornali, pur svolgendo un'altra attività), e d'un elenco speciale in cui potevano trovar posto quanti, pur non essendo giornalisti, dirigevano pubblicazioni tecniche o di categoria, escluse le sportive e le cinematografiche. Il DLL 1944 stabiliva poi che la tenuta degli albi fosse affidata a una commissione di giornalisti no.minata dal Ministero di Grazia e Giustizia. Per diventare giornalisti professionisti, in base alla vecchia legge biso1 g11ava aver svolto 18 mesi di pratica presso una redazione ed aver ricevuto, al termine, un'« attestato di ido1 neità » dal direttore. Con la nuo-va legge la tenuta degli albi spetta all'Ordine e non più alla Commissione Unica. Il praticante no,n fa parte dell'Ordi11e, ma è iscritto in un apposito registro. Per esservi ammesso· egli deve esibire una licenza di scuola media superiore; in mancanza di questa egli viene sottoposto ad un esame di cultura generale da parte di una commissione composta da un professore di liceo (che la presiede) e da qt1attro giornalisti. La no·vità rispetto alla legge del '28 è l'esame di cultura generale, prescritto in assenza del titolo. Superati i 18 mesi il praticante richiede al direttore una « dichiarazione motivata dell'attività gio,rnalistica svolta »: è qualcosa di diverso dalla « dichiarazione di idoneità » prevista dalla legge del '28, che implicava un giudizio di merito. Ma anche questa nuova e più felice formula non esclude che il direttore {e, attraverso, di lui, l'editore) sia arbitro del passaggio del praticante tra i professionisti. Questo passaggio, e qui è la maggiore novità rispetto alla legge del '28, può avvenire solo se il praticante con oltre 18 mesi d'anzianità supera un esame nazionale, che si tiene a Ro·ma due volte l'anno innanzi ad una commissione composta da cinque giornalisti con oltre 10 anni d'anzianità professionale, da un magistrato di tribunale e da un magistrato d'appello (che la presiede). L'esame consisterà in una prova scritta e orale di 10 Bibliotecaginobianco

I giornalisti e la paura della libertà tecnica e pratica del giornalismo, integrata dalla co,noscenza di norme giuridiche attinenti alla stampa. Una volta iscritto all'albo, e quindi divenuto membro dell'Ordine, il giornalista dovrà attenersi, nello svolgimento della sua professione, all'art. 2 della nuova legge, che recita: « E' diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà d'informazione e di critica, limitata dall'osservanza delle norme di leg.ge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede. Devono essere rettificati le notizie che risultino inesatte, e riparati gli eventuali errori. Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto pro~ fessionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto, dal carattere fiduciario di esse, e a promuovere lo spirito di collabo·razione tra colleghi, la cooperazione fra giornalisti e editori, e la fiducia tra la stampa e i lettori ». Al di la di tutte queste esortazioni alla collaborazione generale, qual'è il senso delle norme sull'Ordine? In primo luogo, esse rendo·no assai più difficile l'accesso alla professione, ponendo, innanzi al praticante lo sbarramento dell'esame, ma non creando, nel co,ntempo co1 ndizioni e garanzie per una migliore e organica preparazione dei giornalisti. Infatti, secondo la nuova legge, può diventare gio1 rnalista anche chi non è in possesso d'alcun titolo di studio: basta ch'egli superi uh esame di cultura generale (e ci si consenta obiettare, di culturaccia, vertente cioè su un affastellamento di nozio11i disparate) per diventare , praticante, e un esame di teènica, pratica e legislazio,ne sulla stampa alla fine dei 18 mesi. Si può, nel co,rso di quest'ultimo esame, stabilire l'idoneità d'un giovane ad assumersi il difficile compito di soddisfare l'interesse della collettività ad essere informata tempestivamente, onestamente, e ad essere orientata attraverso la critica che chi scrive fa di avvenimenti, persone e cose? A nostro modesto avviso no! E questa opinione negativa ci porta a ritenere preferibile anche il poco felice sistema stabilito dalla legge del '28, quello, cioè, che affidava alla « dichiarazione di idoneità » del direttore il compito di decidere circa il passaggio tra i professio·nisti del praticante. Se non altro il direttore ha modo di seguire per diciotto mesi l'aspirante giornalista, di apprez- ~ame il lavoro, conoscerne il temperamento, valutarne le possibilità, ricavandone quindi una idea della sua personalità assai più approfondita di quanto non sia in grado di conseguire la commissione d'esame. E vale fino a un certo punto l'o,biezio,ne che la « dichiarazione d'idoneità » esponeva il praticante a possibili arbitri da parte della direzione e dell'amministrazione. Se queste ultime prima potevano rifiutargli 11 Bibliotecaginobianco

Ernesto Mazzetti la dichiarazione (magari in obbedienza a una po~itica q.i lesina, toccando al praticante solo il 75% del minimo di stipendio che spetta al professionista), oggi potranno o rifiutangli l'attestato o licenziarlo non appena egli abbia superato l'esame. Uno dei punti più criticabili della nuova legge consiste, dunque, proprio nel fatto che essa conferisce all'ordine un poco simpatico aspetto di corporazione, senza garantire (l'osservazione è del Weiss: « Politica dell'informazione», Comunità, Milano 1961) una adeguata istruzione agli apprendisti, il che era appunto il pricipale n1erito delle corporazioni medievali. La natura corporativa viene fuori da numerose norme della nuova legge: sono i giornalisti (quattro contro un solo elemento esterno·) a decidere chi può diventare praticante; son sempre i giornalisti (cinque contro due magistrati) a stabilire chi è in grado di diventare professionista. È vero che anche gli avvocati - tanto per fare un esempio - sono in maggioranza nelle commissioni che esaminano· gli aspiranti procuratori: ma no•n ci pare questo un discorso valido anche in materia di libertà giornalistica. In tema di stampa c'è l'articolo 21 della Costituzione che parla d'un diritto alla libera espressione del proprio· pensiero attraverso lo scritto. Certo solo parzialmente l'esercizio della professione giornalistica si può ritenere rientrante nel caso contemplato da tale articolo. Però nella misura in cui esso vi rientra, è ovvio che ogni norma che stabilisca limitazioni o remore all'accesso all'attività giornalistica implicitamente nega, o sminuisce, questa fondamentale libertà. E di limiti, la legge istitutiva dell'Ordine ci pare ne ponga parecchi : essa conferisce alla commissione d'esame un'ampia discrezionalità, anche perché non esiste in Italia, al cont~ario che in altri Paesi dai quali abbiamo parecchio, da imparare in materia di stampa libera, una laurea in giornalismo, e quindi un corpo di insegnamenti cui la commisione stessa possa fare preciso riferimento 11ell'esaminare i praticanti. Tale discrezionalità può poi portare, ove si verifichino nel mondo giornalistico temporanee o· durature crisi con conseguente disoccupazione di professionisti, ad una maggiore severità della commissione, ad una stretta di freni, insomma, tendente a limitare l'afflusso_ di nuove leve nella categoria. Nuove limitazioni, la legge sull'ordine, pone poi anche in materia di accesso all'elenco dei pubblicisti. Essa richiede, infatti, per l'ammissione, una « attività giornalistica non occasionale e retribuita», che venga « svolta per almeno due anni ». Mancava, 11ella legge del '28, quest'ultima condizione. 12 Bibliotecaginobianco

/ I giornalisti e la paura della libertà In conclusione, non è assolutamente possibile manifestare il proprio pensiero attraverso organi di stampa senza passare sotto le forche caudine dell'Ordine. La legge del febbraio scorso avverte, però, il pericolo di varcare i confini della incostituzionalità, e ritiene di poter ovviarvi ammettendo (art. 47) che la direzione di quotidiani o periodici di partito, o di movimenti politici, o di organizzazioni sindacali, possano venir diretti da persone non iscritte all'albo dei giornalisti, purché, però, venga nominato un vicedirettore che sia professionista, nel caso si tratti di pubblicazione quotidiana, o pubblicista, nel caso si tratti di un periodico. È molto poco, certamente, per parlare di rispetto pieno dell'articolo 21 della Costituzione. Purtroppo i contrasti tra la nuova legge e una benintesa libertà di stampa non si fermano qui. Infatti, anche a voler ammettere l'infondatezza di tutte le riserve sinora formulate, bastano due articoli della Legge sull'Ordine a motivare le più ampie perplessità circa le conseguenze che la nuo·va disciplina della professione giornalistica potrà avere sulla libera attività di chi la pratichi. L'art. 11 attribuisce al Consiglio dell'Ordine la vigilanza « sulla condotta e sul decoro degli iscritti » mentre l'art. 48 afferma: « Gli iscritti nell'albo, negli elenchi o nel registro che si rendano colpevoli di fatti non conformi al decoro e alla dignità professionale o di fatti che compromettano la propria reputazione o la dignità dell'Ordine sono sottoposti a procedimento, disciplinare ». Tra le sanzioni disciplinari previste sono la sospensione dallo \ esercizio della professione da due mesi a un anno, e la radiazione dallo albo,, ovvero l'inibizio 1 ne all'esercizio della professione. Anche qui v'è più grande discrezionalità nella valutazione delle colpe e nell'attribuzione delle pene. Per cui, qualora si insediassero alla testa dei Consigli regionali e del Consiglio nazionale dell'Ordine dei giornalisti vicini ai detentori del potere, questi ultimi avrebbero nelle mani un poderoso strumento per imbavagliare i loro colleghi-avversari, colpevoli di opporsi, con campagne di stampa, con rivelazioni e con le altre risorse della loro professio·ne, alla politica dei gruppi dominanti. Qualsiasi pretesto sarebbe buono per giustificare una generica accusa di aver « leso il decoro e la dignità professionale ». Timori infondati i nostri? Tutt'altro, e possiamo solo augurarci che certe circostanze non abbiano a verificarsi. Ma l'ipotesi che si verifichino, di per sé stessa, è più che ammissibile. Tanto più che la Legge attribuisce al Ministero di Grazia e Giustizia il potere di sciogliere un consiglio, regionale o interregionale dell'Ordine, ponendo, quindi, nelle mani dell'ese13 Bibliotecaginobianco

Ernesto Mazzetti cutivo uno strumento capace di rivelarsi assai utile in presenza delle temibili circostanze cui accennavamo sopra. A scorrere il testo della legge istitutiva dell'Ordine si ha l'impres-- sione che in essa circoli una vera e propria « paura della libertà ». Sarebbe stato grave se respo·nsabili di tanta cautela, di tante preclusioni all'accesso e all'uso, delle colonne di giornale, fossero stati soltanto uomini di governo e parlamentari reazionariamente preoccupati delle conseguenze che una stampa troppo libera e indipendente potrebbe determinare sull'estensione del loro potere. Ma è ancora più grave che, per quanto ci è dato sapere, alla formulazione del progetto abbiano partecipato attivamente autorevoli esponenti degli organi rappresentativi dei giornalisti. E sinceramente non possiamo comprendere perché costoro abbiano contributo a preparare delle norme che contrastano con quello che dovrebbe essere il loro fondamentale interesse: fruire cioè, della più piena e assoluta libertà di espressione e della possibilità di esercitare questa libertà al riparo, almeno in situazioni politiche normali, da ogni possibile condizionamento. La libertà del giornalista, infatti, non dovrebbe trovare altro limite che negli articoli del Codice Penale che puniscono l'ingiuria, la diffamazione, l'invenzione consapevole di notizie tendenziose. Mancano forse tali norme, al punto da rendere necessario l'art. 2 della nuova Legge sull'Ordine che fa « obbligo inderogabile » al giornalista di rispettare la verità dei fatti, i doveri della lealtà e della buona fede? Certamente no: anzi, in tema di diffamazione a mezzo stampa il Codice Penale no,n è per nulla incline all'indulgenza. La diffamazione è punita con la reclusione sino a tre anni, e il querelato - salvo che non ne faccia richiesta il querelante, o che quest'ultimo sia un pubblico ufficiale - non è ammesso a provare, a sua discolpa, la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa. Inoltre, chi nella sua attività giornalistica è poco ossequiente verso i poteri costituiti, le autorità straniere, i culti ammessi nello Stato, la famiglia, l'integrità e la sanità della stirpe (sic), incorre nei rigori della legge, e sa che la magistratura (salvo rare eccezioni) è del tutto aliena dal riconoscere che nell'esercitare il diritto di cronaca, critica, censura e pubblica accusa - esponendosi non di rado a molteplici rischi, - il giornalista si rende benemerito giacché - come osservava Adolfo Battaglia nel Con·vegno degli « Amici del ' Mondo ' » dedicato alla libertà di stampa - « adempie al più importante dei suoi compiti, ch'è proprio quello di porre in remora i cittadini peggiori e, al caso, di denunciarne le malefatte perché essi vengano· colpiti e oppressi ». 14 Bibliotecaginobianco

I giornalisti e la paura della libertà In realtà se c'è qualcuno sovente colpito e oppresso, questi è il giornalista che esercita con intransigenza il suo diritto di registrare avvenin1enti e di criticarli, denunziando le cose che non vanno. A questo giornalista i molti ambienti che nel nostro paese risentono ancora dei frutti del fascismo, oppono una loro reazione sempre più illiberale. L'intolleranza verso chi osa contravvenire all'aureo precetto di « pe·nsare solo ai casi propri >> - è un'altra osservazione del Battaglia - si traduce nel tentativo di imbavagliare, scoraggiare la stampa attraverso l'abuso delle querele per diffamazione, o delle denunzie per vilipendio. Guai a c·hi critica: è il motto di quanti scendono in campo armati dì carta da bollo e richieste di danni per la « crociata » contro le cosidette « licenze della stampa ». E le leggi, frutto del sospetto in cui è stata sempre tenuta in Italia la libera espressione del pensiero e la libera polemica, offrono sen1pre a questi « crociati » più di un valido punto d'appoggio. Possibile dunque che siano proprio dei giornalisti a forni re nuovi punti di appoggio ai loro naturali avversari? E che dei giornalisti, lungi dal cercare di alleggerire la pressione delle leggi che gravano sulla stampa, si adoperino ad aumentarla, ponendo nuovi limiti alla esplicazio·ne della loro attività o ergendosi a giudici dei loro colleghi? Si tratta, purtroppo, di domande retoriche, dal momento che abbiamo ora una Legge sull'Ordine con1e quella di cui s'è detto. Ed è di ben modesto conforto il fatto che non sia stata appro.vata l'inclusione, nel testo della nuova legge, d'un « codice etico del giornalismo » elaborato personalmente dall'on. Gonella, col quale la libertà del giornalista , avrebbe ricevuto il colpo di grazia. Perfino la legge fascista del '28 era, riguardo al comportamento del giornalista, meno invadente: essa parlava infatti di « mancanze e abusi commessi nell'esercizio della professione », e non estendeva, quindi, la sua azione fino al comportamento privato del giornali~ta, come fa invece l'art. 11 della nuova legge, imponendo all'Ordine niente di meno che una vigilanza « sulla condotta morale e sul decoro degli iscritti ». Così la legge del febbraio scorso non poteva sancire una resa più completa alle tesi di quanti sostengono che siano necessarie limita- ~ioni e restrizioni per l'attività giornalistica. Questa resa è il prezzo assai caro pagato dai giornalisti italiani per ottenere un loro Ordine professionale; e ci sembra evidente che non valeva la pena di pagarlo. I vantaggi offerti dalla nuova legge ai giornalisti, sono infatti, piuttosto limitati e si concretano essenzialmente in alcuni privilegi corporativi; 15 Bibl"otecaginobianco

Ernesto Mazzetti nell'acquisizone di quel prestigio più verbale che effettivo derivante dalla possibilità di affermare la propria appartenenza a un ordine professionale, ad una associazione obbligatoria, cioè, riconosciuta e tutelata dallo Stato; e nell'impossibilità - stabilita dall'art. 45 - da parte di chi non sia iscritto all'albo professionale di assumere il titolo o di esercitare la professione di giornalista, senza incorrere nei rigori degli articoli 348 e 498 del Codice Penale, o in pene più gravi, in caso di intenti truffaldini. In pratica, ora che esiste l'Ordine, i giornalisti potranno perseguire penalmente i cosidetti « volontari », quei giovani, cioè, i quali, nella speranza di ottenere dai proprietari dei giornali il contratto di praticante, accettano di prestare la loro opera nelle redazioni in qualità di « sottosalariati ». Molti editori, anche dei più importanti e seri, hanno fatto ricorso a questa vera e propria forma di sfruttamento, tollerata peraltro dagli stessi organi sindacali dei giornalisti, da un lato timorosi di porsi in urto con gli editori, dall'altro di fare un danno ai «volontari» in servizio presso quei giornali che per i loro deficitari bilanci non sarebbero stati in grado di inquadrarli regolarmente nel1' organico e avrebbero quindi dovuto licenziarli. A nostro avviso, però, non era necessaria l'istituzione dell'Ordine per porre rimedio a tale deplorevole sfruttamento: bastava una energica azione sindacale, rivolta non contro gli «irregolari» (com'è rivolta, invece, la nuova legge, in virtù della quale essi corrono perfino il rischio di finire in galera), ma contro gli editori, allo scopo di indurli al rispetto dei contratti collettivi. Meglio ancora, i giornalisti avrebbero potuto sollecitare i11iziative veramente efficaci alla preparazione delle nuove leve: perché, a nostro avviso, il nocciolo del problema è proprio qui, e non già nella somma dei privilegi che i giornalisti possono o non possono chiedere alle autorità. A.nche su questo punto concordiamo pienamente con Ignazio Weiss, il quale afferma che il giornalismo non è soltanto un'arte, una predisposizione innata ad esercitare con successo il difficile mestiere di scrivere per i quotidiani, per la RAI-TV o per i rotocalchi; e che perciò è indispensabile « una preparazione specifica per risolvere in maniera adeguata il problema della corretta informazione del pubblico». Ci pare, infatti, che possa offrire molte maggiori garanzie di serietà e di correttezza il lavoro del giornalista _venuto su attraverso difficili corsi universitari atti a prepararlo specificamente all'attività pubblicistica, che non il lavoro del « praticone» che conosce di tutto un po', ma nulla approfonditamente, e che s'è fatto largo a gomitate coltivando le « buor1e amicizie». E così ci sembra evidente che nei confronti del primo l'esame post-pratican16 Bibliotecaginobianco

I giornalisti e la paura della libertà tato sarebbe del tutto superfluo, 1nentre 11ei confronti del secondo lo stesso esame costituirebb.e una barriera troppo facilmente superabile. E tutto ciò, comunque, senza dimenticare di lasciare aperta una strada allo sbocciare di vocazioni spontanee e al successo di coloro, che, autodidatti, hanno attitudini che potrebbero renderli anche migliori dei giornalisti laureati. Se il problema è, dunque, di garantire, nella libertà, il soddisfacimento d'un interesse della collettività a ricevere informazioni attendibili e ad essere orientata attraverso una critica onesta, non è con l'istituzione dell'Ordine che gli si può dare soluzione; ma piuttosto con la creazione di strumenti atti a preparare adeguata1nente i futuri giornalisti, e a porre al riparo da qualsiasi condizionamento coloro che già esercitano la professione (tra le possibili difese del giornalista è bene ricordare quella suggerita da Aldo Garosci contro coloro• che usano con troppa disinvoltura l'arma della querela: ovvero una 11orma che disponga la condanna automatica per lite temeraria di chi quereli un giornalista il quale venga poi assolto). Se invece il problema che il legislatore ha voluto risolvere è quello della concessione di particolari privilegi corporativi a favore dei giornalisti, biso·gna ribadire che il prezzo richiesto è stato esoso; e che, cosa certo più grave, esso non è stato richiesto solo ai beneficiari dei privilegi, ma al Paese, non considerando che, in una Repubblica democr~tica, compito della legge non è di « disciplinare » la libertà di stampa, ma solo di garantirne l'esercizio. ERNESTO MAZZETTI 17 Bibliotecaginobianco

Programmazione regionale e Comunità Europea di Franco Fiorelli Premessa. - Nell'attuale situazione di crisi che attraversa il processo di unificazione politica e di integrazione economica dell'Europa, è più che mai necessario che le forze maggiormente interessate ad un progresso sociale ed economico e ad un'evoluzione democratica ripensino ed elaborino le linee di azione futura in un disegno organico e secondo un preciso indirizzo di politica economica. In questo senso, ed in vista di soluzioni indubbiamente anticipate rispetto alla realtà attuale degli eventi, si considera nel presente studio un aspetto particolarmente interessante dei problemi che si presentano al riguardo: il problema delle economie regionali, nel quadro del mercato comune europeo. Prescindendo da una analisi delle posizioni prese in materia dagli Organi della Comunità Economica Europa, basterà osservare che il Convegno sulle economie regionali promosso dalla Comunità stessa è stato caratterizzato da una problematica di tipo sezionale, relativa a singole aree e zone sottosviluppate: tranne alcu11e aperture introduttive ed alcune posizioni avanzate, manifestatesi specialmente in seno alla delegazione italiana, sono mancati una impostazione ed un orientamento volti a ricondurre i problemi di natura particolare all'ordine delle necessità effettive e generali di sviluppo equilibrato dell'economia comunitaria, e delle stesse possibilità istituzionali offerte dal Trattato. Le più recenti misure adottate - sul piano degli studi, dell'organizzazione e dei concreti provvedimenti di politica economica - non sembrano, in verità, uscire d_ai limiti dell'impostazione accennata. Si tenterà, qui, di individuare alcuni punti che si ritengono di importanza essenziale per definire un orientamento di sviluppo del tipo indicato. Una considerazione particolare delle dimensioni spaziali del processo di sviluppo dell'economia europea, peraltro, è suggerita non • soltanto dalla gravità ed urgenza dei problemi specifici che si pongono, ma anche perché tali problemi costituiscono un « punto di rottura » per introdurre e fare progredire - nel quadro istituzionale dell'economia di mercato e nell'ambito comunitario - un'esigenza generale di sviluppo programmato. 18 Bibliotecaginobianco

Programmazione regionale e Comunità Europea ASPETTI DEGLISQUILIBRIREGIONALI 1. - Dal punto di vista territoriale, diversissime sono le situazioni economiche che si riscontrano nell'area del mercato comune europeo 1 • Qualora si considerino i sei Paesi che già fanno parte della Comunità Economica Europea unitamente alla Gran Bretagna, si può tuttavia, in prima approssimazione, constatare che le situazioni di maggiore sviluppo si verificano nel « quadrilatero » compreso tra Amburgo, Milano, Marsiglia e Manchester: ed all'interno di questa vasta area, soprattutto in una zona compresa tra la Ruhr e la Lorena, che può definirsi il centro dell'economia europea. Di contro, le situazioni di maggiore e più diffuso sottç>sviluppo si risco,ntrano generalmente in aree periferiche: in ·alcune zo·ne della Scozia, nell'Irlanda del Nord, nel Lancashire, nel Galles meridionale; nella Francia sud-occidentale e nella Corsica; nell'Italia meridionale ed insulare; nella fascia orientale della Repubblica Federale Tedesca; in alcune zone prospicienti al Mare del Nord 2 • L'area centrale avanti indicata è caratterizzata dalla presenza delle zone più altamente industrializzate: in generale, si può osservare che, in tale area, l'elevata concentrazione di risorse eco,nomiche (agricole, idriche, minerarie), le caratteristiche fisiche del territorio, la possibilità di più facili comunicazioni con la restante area europea e con i mercati esterni, hanno determinato la massima localizzazione delle attività economiche, specie industriali, ed i più intensi insediamenti urbani. Più difficile è ricondurre a valutazioni unitarie le diverse situazioni economiche delle regioni sottosviluppate. In genere, tali regioni sono caratterizzate da una economia povera e statica, prevalentemente agricola, con insediamenti industriali limitati. Tuttavia, in alcune di esse si presenta, piuttosto, una dinamica economica affievolita, ed a volte anche una tradizione industriale (nella industria estrattiva ed in alcuni 1 Tra gli studi in materia, fondamentale è: P. Romus, Expansion économique régionale et communanté européenne, Leyde 1958. 2 Procedendo dai limiti estremi dell'area della Comunità Economica Europea, situazioni di sottosviluppo si verificano anche in alcune « regioni di frontiera », decentrate rispetto alle economie nazionali, ma vicine alla suddetta area centrale: le frontiere nazionali, ed anche particolari condizioni fisiche del territorio, interrompono la progressiva gravitazione e concentrazione delle attività economiche verso l'area cèntrale. Più in generale, si può notare che questo processo discontinuo di attrazione verso il centro economico dell'Europa si manifesta anche in economie esterne all'ambito della Comunità Economica Europea: è interessante, al riguardo, osservare che le regioni più ricche della Spagna confinano con le regioni relativamente povere del sud-ovest della Francia, mentre le regioni più progredite del Portogallo confinano con alcune delle regioni meno sviluppate della ~pagna. 19 Bibli·otecaginobianco

Franco Fiorelli • settori tipici dell'industria manifatturiera) in dee.lino; queste regioni - che possono essere in particolare definite « depresse » od « arretrate » - sono in prevalenza situate nella Gran Bretagna, rria si presentano anche nella Francia centrale e nel Belgio, e nella stessa Italia centro-settentrionale. Nelle regioni sottosviluppate, comunque, si misu.ra un basso tenore medio di vita della popolazione; ed in alcuni casi - soprattutto nell'Italia meridionale - anche un elevato grado di disoccupazione; ad un accentuato squilibrio tra risorse e popolazione si accompagnano, in queste regioni, una inadeguata dotazione di infrastrutture economiche e sociali e rapporti di produzione particolarmente arretrati. L'esame comparato delle esperienze e dei programmi maggiorn1ente significativi di sviluppo economico regionali che si sono finora avuti mostra una estrema varietà di principi e di obiettivi. In alcuni casi essi hanno prevalentemente corrisposto ad esigenze complessive di espansione dei sistemi economici nazionali. Nella generalità dei casi, tuttavia, tali programmi hanno mirato prevalenteme11te a soddisfare le esigenze di sviluppo delle zone direttamente interessate, pur muovendo da diversi presupposti e conseguendo diversi risultati. In Olanda i programmi regionali sono stati mossi, fondamentalmente, dalla preoccupazione di realizzare l'integrale utilizzazione e l'industrializzazione del territorio, in vista del rapido accresci.mento della popolazione. Nella Germania, nel quadro della ristrutturazione spaziale dell'intero sistema econon1ico, derivante dalla divisione politica del paese, si sono posti in particolare nuovi problemi concernenti le zone di frontiera. Nella Gran Bretagna - che è stata tra i primi Paesi ad elaborare e a realizzare programmi di tipo regionale - le esperienze in materia hanno mirato allo sviluppo di determinare aree periferiche, economicamente depresse od arretrate, ed anche a realizzare un decen ... tramento industriale a lungo raggio. Nella Francia, infine, i programmi regionali hanno principalmente teso ad evitare il progressivo spopolamento di intere regioni periferiche del paese ed il correlativo congestionan1ento della regione di Parigi. Per ciò che riguarda l'esperienza italiana (prescindendo dal considerare l'intervento della Cassa per le opere straordinarie nel Mezzogio~no, di carattere generale), si può osservare che i principali programmi di sviluppo regionali finora elaborati, pur concernendo ugualmente regioni sottosviluppate dell'Italia meridionale, non mostrano tuttavia unitarietà di metodi e di fini. Alcuni sono consistiti, prevalentemente, in una accurata documentazione delle risorse economiche disponibili nel territorio (Piano di 20 Bibliotecaginobianco

Programmazione regionale e Comitnità Europea sviluppo economico della Calabria); altri, principalmente, in un piano organico di investimenti pubblici (Piano di rinascita della Sardegna). Il Piano di sviluppo dell'economia campana ha rappresentato certamente un'esperienza di tipo avanzato, in quanto mirava ad individuare un « meccanismo di sviluppo » regionale, nel quadro dello Schema di svilu.ppo dell'economia nazionale, generalmente conosciuto come « Piano Vanoni»; esso, tuttavia, non essendo correlato da un programma generale di tipo operativo si presentava essenzialmente uno schema di ragionamento. Sir1teticamente si può dire che, sul piano tecnico-economico, le esperienze ed i programmi di sviluppo regionale finora realizzati od elaborati nell'ambito dei Paesi dell'Europa occidentale offrono soluzioni di carattere parziale, limitatamente significative e comunque non univoche. Sul piano storico, tuttavia, essi appaiono indicativi di una tendenza di carattere generale e fondamentale, che investe l'intera area economica europea, volta a realizzare un processo di sviluppo spazialmente equilibrato; e riflettono l'esigenza delle popolazioni localmente interessate di partecipare in modo più diretto, autonomo, cosciente all'assetto economico e sociale dello Stato. Tale esigenza di partecipare appare espressione organica del generale accentuato dinamismo che l1a caratterizzato la vita econo1nica europea negli anni recenti, sia durante la fase della ricostruzione postbellica, sia durante la successiva e perdurante espansione economica; si può, infatti, dire che la stessa espansione economica, ponendo in chiara luce le dimensioni spaziali del processo di sviluppo, ha posto anche in evidenza e determinato un diverso grado ed in-appagate aspettative di partecipazione allo sviluppo. Tuttavia, è da dire che - come 11ell'ambito internazionale, nei rapporti tra Paesi progrediti e Paesi sottosviluppati, così 11ello stesso ambito europeo - ciò che è giunto a piena maturazione è la coscienza politica dei termini del sottosviluppo,, che, come dati obiettivi, da tempo preesistevano: e l'acquisizione che essi non potessero trovare soluzione in un sistema economico abbandonato ai puri automatismi di 1nercato. CONSEGUENZE DEGLI SQUILIBRI REGIONALI 2. - Mentre la necessità di garantire un processo di sviluppo economico ordinato nel tempo, sottratto cioè a profonde fluttuazioni cicliche, per la economia europea si è posta soprattutto nel periodo susseguente la grande crisi del 1929-32, l'esigenza di realizzare uno sviluppo spaziai21 Bibliotecaginobianco

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