Nord e Sud - anno IX - n. 35 - novembre 1962

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna I Giovanni Cervigni, Il Convegno di S. Pellegrino - Vittorio de Caprariis, Riforma delle istituzioni e repubblica presidenziale - Giorgio Spini e Lucio r- Gambi, Storia, Geografia e Università - Umberto Cassinis, La crisi del collocamento Francesco Compagna, La ricerca geografica. e scritti di Roberto Berardi, Aldo Canonici, Alfredo Capone, Luigi Compagnone, · Raffaello Franchini, Enzo Golino, Ernesto Mazzetti, Michele Novielli, Ester Piancastelli, Leonardo Sacco, Antonio Spinosa. ANNO IX - NUOVA SERIE NOVEMBRE ·1962 N. 35 (96) . EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - NAPOLI caginobianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO IX - NOVEMBRE 1962 - N. 35 - (96) DIREZIONE E REDAZIONE: Napo I i - Via dei Mille, 47 - Telef. 393.346- 393.347 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità: EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - Napo I i - Telef. 393.346- 393.347 Una copia L. 300 - Estero L. 360 - Abbona1iienti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 3.300, semestrale L. 1.700 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli Bibliotecaginobianco

SOMMARIO Giovanni Cervigni Vittorio de Caprariis Roberto Berardi Leonardo Sacco Raffaello Franchini Michele Novielli Editoriale [3] Il C.,onvegno di S. Pellegrino [8] Riforma delle istititzioni e repitbblica presidenziale [ 15] Note della Redazione Innesti e recuperi - Gli enti di sviluppo - Un discorso da approfondire [29] Giornale a più voci Il latino in parlamento [35 J Cronaca di un piano [39] Per Francesco Flora [47] La diffidenza contadina [50] Documenti Giorgio Spini e Storia, Geografia e Università [59] Lucio Gambi Antonio Spinosa Umberto Cassinis Alfredo Capone Enzo Golino Ernesto Mazzetti . Ester Piancastelli Aldo Canonici Argomenti In Cecoslovacchia e Ju.goslavia [73] La crisi della disciplina del collocan1ento [86] Recensioni La fede di Meinecke [96] Il Mezzogiorno di Gatto [101] I « sergenti » dell'industrializzazione [ 105] Key11es in sintesi [ 108] Le « ipocrisie dell'anima » [ 110] Saggi Francesco Compagna La ricerca geografica e i proble,ni territoriali della politica di svilU:PPO [115] Lettere al Di1:.ettore Luigi Compagnone « A;Jiracolati e scontenti » [ 127] Bibliotecaginobianco

Editoriale Del rilievo assitnto nella vita del mondo d'oggi dal Concilio attualmente in corso non si può forse addurre testimonianza migliore dell'invio di due osservatori a cui, all'ultimo momento, s'è decisa la Chiesa russo-ortodossa. Come è noto, la Chiesa moscovita aveva risposto in senso assolutamente negativo allorché i competenti. organi della Curia romana le avevano, a suo tempo, for1nulato l'invito ad inviare osservatori al Concilio in-zminente; e sulla posizione nioscovita si erano subito allineate, quasi compatte, le altre chiese ortodosse. E azzardato supporre che il primo atteggiatne1ito riegativo f asse quello spontaneo e proprio della Chiesa russa e che la successiva resipiscenza sia stata dovuta ad un energico intervento del governo sovietico? La cosa sarebbe tutt'altro che strana e risponderebbe pienamente alle tradizioni del Cristianesimo orientale, le citi chiese nella storia dei rispettivi paesi hanno quasi sempre avuto importanza non come fattore politico attivo, bensì - se così si può dire - come fattore politico passivo: come veicolo, cioè, del potere statale nel governo dei sudditi, all'interno, e nelle relazioni con comunità sensibili all'influenza religiosa cristiano-ortodossa, all'esterno. Era così sotto i Cesari bizantini e fu così, poi, sotto gli Zar russi. Per questa ragione, se nelle società cristianooccidentali il tono dei rapporti fra stato e chiesa fu dato dai ripetuti sforzi teocratici della gerarchia ecclesiastica, in quelle cristiano-orientali il tono fu dato invece dalla costante prassi cesaro-papistica dei sovrani e le cliiese nazionali non si poterono né fondere in una vasta unità internazionale, come fu, specialmente fino alla Riforma, il Cattolicesimo, né recitare quella parte per cui in Occidente storia ecclesiastica e storia civile fanno tutt'uno anche dopo la Riforma e almeno sino alla fine delle grandi guerre di religione in Germania. E, d'altro canto, è ancora recetite il ricordo di ciò che l'influenza spirituale del Patriarcato di Mosca significò nella politica balcanica e medio-orientale degli Zar fino alla prima guerra _niondiale; e di quanta parte di quell'influenza si sia riversata nel dilagare del panslavismo dalla metà del secolo scorso in poi. Tacitamente, e senza venir mai meno alla propria posizione di principio sulla questione della lotta antireligiosa e sttl rifiuto di qual3 Bibliotecaginobiarico • I

Editoriale siasi collaborazione con enti e comunità religiose, i governanti sovietici ripresero, a loro volta, dopo i primi anni della rivoluzione e di distruzione dell'antico regime russo, la tradizione patria dei rapporti tr~ · stato e chiesa. Dal momento che la fede cristiana resisteva, ingenua e profonda, nella stragrande maggioranza del popolo russo contro ogni sforzo di propaganda antireligiosa e di tirannica violenza alla libertà di culto, apparve migliore partito permettere il ritorno ad una libera pratica religiosa e la ricostituzione della Chiesa ortodossa, sottoposta ad un discreto, ma rigido controllo specialmente per quanto riguarda tutto ciò che ha risonanza fuori dei luoghi di culto (proselitismo, reclutamento del clero etc.); e rimettere le fortune della lotta antireligiosa piuttosto alle conseguenze, che non potranno non farsi sentire, dell'educazione di schietta impronta comunista impartita alle giovani generazioni. Così, la rinnovata tolleranza per la religione assicurava uno dei cardini della pace e dell'ordine civile; e la ripresa di alcune tradizionali posizioni e rapporti della Chiesa russo-ortodossa all'estero (come, ad es., la presenza sui luoghi sacri di Palestina) forniva al gioco diplomatico russo qualche carta minore, ma che si poteva non disdegnare. Sarebbe pertanto veramente sorprendente se un gesto così pieno di significato e di risonanza con1e l'adesione moscovita ad un invito romano in materia di Concilio, e tanto più destinato a suscitare clamore per il modo e per il momento in cui è stato deciso, fosse stato preso dai competenti organi della Chiesa russo-ortodossa seriza che interi erisse e ne avesse piena e previa notizia il governo sovietico. Il quale deve aver sollecitato (e, comunque, consentito) l'adesione della Chiesa nazionale in considerazione appunto, come si diceva, del rilievo che il Concilio ha subito assunto nella vita del mondo d'oggi e per il quale il Cremlino non può non nittrire i'nteresse e non desiderare fonti dirette e fidate di informazione. Ma da che cosa deriva e in che cosa si traduce il rilievo assunto dal Concilio? Varrà la pena di notare che - se all'interno delle organizzazioni cattoliche è stato, e non poteva non essere, ben altrimenti - l'opinione pubblica internazionale è stata, invece, richiamata in maniera sensibile al Concilio e alla sua importanza solo quando esso era ormai imminente. È difficile valutare l'esatta natura di un interesse così largamente e repentinamente diffusosi. Quel che sembra, tuttavia, decisamente da escludere è che il Co11cilio sia venuto a coronamento di una grande ondata di reviviscenza di spiriti religiosi. Per quanto se ne sa, l'idea del Concilio sorse anch'essa repentina nel piesiero di papa Gio4 Bibliotecaginobianco

Editoriale vanni XXIII e, sebbene pressocché nulla ne sia trapelato, essa suscitò sentimenti di sorpresa e di preoccupazione non meno che di compiacimento e di fervida adesione un po' in tutte le gerarchie ecclesiastiche, e specialmente in quelle più legate all'ambiente e alle tradizioni della Curia romana. Il Papa stesso ne limitò il tema principale ad un esame di ciò che nell'azione della Chiesa cattolica nel mondo di oggi - dal pitnto di vista tecnico, organizzativo, pastorale - deve essere promosso, affinché più cospicui siano i ristlltati morali e materiali dell'attività ecclesiastica, più stretti e saldi i vincoli della Chiesa e dei suoi uomini con le realtà vive dell'oggi e del domani, e soprattutto minori i pericoli che al Cattolicesimo, come ad ogni altra confessiotie religiosa, sembra riservare il progresso tecnico e meccanico della civiltà industriale. Dunque, 11essun rif erin1ento ad eventuali, prof 011di incrementi o revisioni del grande patrimonio mistico e dottrinale del Cattolicesimo, alla stregua dei primi Coricilii; e nemmeno spirito missionario e azione di guida o cli sommovimento di it11avita religiosa in pieno fervore, alla stregua dei Concilii medievali. Prevalenza, invece, del punto di vista ecclesiastico su quello più profondan1ente e squisitamente spirituale e religioso; impostazione prettamente tridentina, controriformistica dei problemi e di quelle che ne appaiono, nel pensiero della Curia, come le probabili soluzioni. Né, forse, poteva essere diversamente in una società e in u11e' poca in citi tiLtti gli osservatori di tutte le parti corlcordano nel rilevare lo scadimento e l'affievolimento della religiosità individuale e sociale; né, d'altronde, la Chiesa cattolica poteva da un anno all'altro tornare ad essere ciò che fu fino al Concilio di Trento, un organismo potentemente strutturato e fortemente diretto dal centro, 1na al tempo stesso ancora abbastanza elastico e dina1nico nella sua fisionomia dottrinale e nella s1,1,azione pastorale per essere, nella maniera più viva ed efficace, preserite ed attivo nella spiritualità dei credenti e dei prof essanti così con-1.edei non credenti e dei non prof essanti. Il Concilio dovrebbe, perciò, a meno che non si abbiano sorprese, offrire l'occasione di z.tn grande rilancio dell'azione ecclesiastica. Il che ci sembra, però .. lin1itarne a priori la portata ed il significato sul terreno religioso vero e proprio. Appunto perché siamo convinti che non possano esservi grandi primavere della storia senza generali e profondi rinnovamenti della coscienza etica e religiosa; proprio perché vediamo e sentiamo, come ogni altro, che nel mondo d'oggi le fedi religiose tradizionali (cattoliche e nqn cattoliche, cristiane e non cristiane) hanno perduto n~n diciamo l'intensità, ma la capacità di manifestarsi e rinnovarsi in modo originale, profondo, sicuro; proprio perché vediamo, d'altra parte, che le fedi religiose nuove (facenti capo alla politica, alle 5 Bibliotecaginobianco

• Editoriale filosofie o alla scienza) sono patrimonio di pochi e dimostrano forza e capacità più nel negare che nell'affermare, più 11el riorganizzare e migliorare la vita sociale degli uomini che nell'agitare e sollecitare la ·spiritualità, che pur vogliamo credere latente, delle grandi masse; proprio per tutto questo, non credian10 all'efficacia (per lo meno, all' efficacia risolutiva) delle tecniche, dell'organizzazione, dello stringere i ranghi. Se c'è crisi di religiosità nel mondo d'oggi, non sarà un rinvigorimento dell'azione pastorale a scongiurarla; e ad affrontare la marea montante di una civiltà della macchina, del comfort e del piacere senza luce e calore di spiritualità, non si richiedono dighe, ma lo spirito di chi sappia camminare sulle acque e comandare ai ven,ti e alle onde. Non, dunque, o non tarito sul terreno del rinnova1nento religioso ricercheremo le ragioni dell'importanza di qitesto Concilio, quanto sul terreno dei gravi problemi sociologici e politici che agitano il mondo odierno. Nel discorso di apertura tenuto da Giovanni XXIII hanno fatto. spicco la fiducia, espressa con calore, che le crisi dei 11ostri tempi siano in preparazione e maturazione di un ordine nuovo e più alto delle convivenze umane; e il richiamo, ancor più commosso, alla pace tra i popoli e tra gli stati. Sono temi, co1n' è . natitrale, che rientrano nella più schietta tradizione del provvictenzialismo cristiano e della caritas evangelica, e bisogna perciò interpretarli in funzione di ciò che essi possono significare in rapporto al mondo d'oggi. La fiditcia nel domani migliore che le tribolazioni odierne preparano sembra preludere ad una coraggiosa potat.ura di tutto ciò cl1e sull'albero di un'organizzazione bimillenaria è in troppo stridente contrasto con la vita pratica e lo spirito pubblico del secolo XX e non riguarda punti essenzialissimi della dottrina cattolica o della struttura ecclesiastica; e ad un non meno coraggioso innesto, sullo stesso albero, di ciò che di nuovo e di utile si ritiene che i tempi possano aver apportato all'efficienza e allo spirito di un'organizzazione come la Chiesa cattolica. Qitanto al richiamo alla pace, - se l'analogo· richiamo della Curia romana in occasione della prima guerra mondiale ebbe il sig11ifzcato di un velato appoggio ad uno degli ultin1i grandi troni cattolici d'Europa e di una appena velata diffidenza verso la democrazia laica e nzassonica ravvisata nelle potenze Alleate; e se il successivo analogo richiamo in occasione della seconda guerra mondiale ebbe il chiaro significato di un aperto e definitivo divorzio tra la Chiesa cattolica e il totalitarismo nazi-fascista, con il quale numerosi erano stati negli anni precedenti gli scontri, ma anche gli incontri, - è difficile evitare l'impressione che il richiamo odierno 6 Bibliotecaginobianco

Editoriale preluda ad un, ten,denziale sganciamento delle gerarchie cattoliche dalle posizioni di aperto e acceso impegno politico mantenute negli ultimi trenta o quarant'anni, e soprattutto negli ultimi venti. Si tratta, come si vede, di questioni di primaria importanza nella vita degli uoniini e dei popoli, e tali da fare parlare di svolte storiche. Tutti gli altri temi accennati come materia del Concilio (unità dei cristiani, maggiore aittonomia dell'episcopato, maggiore presenza del laicato nella vita e nell'attività ecclesiastica, e così via) debbono essere riportati a queste dite questioni di fondo; ed è in relazione ad esse che dovrà essere portato il giudizio e il discorso su quelle che saranno le risultanze immediate del Concilio e le site conseguenze negli anni . avvenire. Nonostante l'affievolimento della sensibilità religiosa, i valori della fede sono ancora sentiti come vivi ed essenziali da vaste masse sparse in tutto il mondo; e - quel clie è ancora più importante - il cosiddetto processo di « scristianizzazione » non impedisce che il comportamento di altre vaste masse sia se1npre esteriormente improntato alle tradizioni ereditate dai padri. Dal canto suo la Chiesa cattolica dispone di un'organizzazione potente, ben diretta e ben ramificata un po' in tutto il mondo; le sue attività sociali non strettamente religiose (assistenza, sc_uole, etc.) sono imponenti per consistenza ed efficacia; la sua capacità di infiuenzare i ceti dirigenti e le classi politiche di molti paesi è più che considerevole. Inoltre, la lotta che. il cattolicesimo conduce oggi nel mondo - dove per la libertà di religione (che, come ha giusta1nente notato papa Giovanni XXIII, non può ridursi ad una mera libertà di culto), dove contro le discriniinazioni razziali, dove a favore di ceti oppressi da tirannie secolari - fa sì che, se non sempre, assai spesso la sua catlsa e quella della libertà abbiano gli stessi interessi. Perciò la Chiesa cattolica è un elemento della massima considerazione tra i fattori storici agenti nel mondo odierno. Il suo Concilio chiarirà ancor più questo dato di fatto, e sarà notevole anche perché sancirà il ritorno della Curia romana ad una posizione di potenza che un secolo fa sembrava gravemente comprornessa. E da questo punto di vista esso raccoglierà l'eredità e farà l'inventario dell'opera di restaurazione della potenza cattolica che il corso delle cose ha permesso che si compisse durante gli ultimi cento anni. 7 Bibliotecaginobianco

Il Convegno di S. Pellegrino di Giovanni Cervigni Caratteristica abbastanza frequente delle maggiori assemblee democristia11e, siano esse congressi di partito, riunioni o costituenti di correnti, convegni ideologici, è oramai lo spazio dedicato allo studio approfondito della realtà sociale in cui il partito si trova ad operare, degli adattamenti teorici che tale realtà impone, dei rapporti che si determinano in tal modo tra le nuove tecniche di governo, attuate o postulate, e le fondamenta ideologiche del partito. Quest'aspetto dell'azione politica dei democristiani non è riducibile, semplicisticamente, alla necessità, comune a tutti i gruppi politici, di costruirsi una ideologia che ne giustifichi la lotta per la conquista o il mantenin1ento del potere. Certo è anche questo, r11a n.011 solo questo. Il fatto è che un partito cattolico, proprio percl1é affor1da le proprie radici ideologiche in una matrice metapolitica, finisce col subirne un co-ndizionamento per lo meno desueto agli altri partiti. E, di c_onseguenza, si determina la necessità di continui ripensam.enti, di ulteriori dimostrazioni della costante orto-dossia rispetto alle tavole della tradizione. Per u11 cattolico, d'altra parte, la lotta politica si svolge spesso al limite della eresia, e si tratta d'aver appunto quel « coraggio, dell'eresia » che in varie occasioni e in situazioni diverse seppero dimostrare uomini co111e Sturzo e De Gasperi, i dossettiani e i giovani della Base. Da questo punto di vista convegni ideologici come quelli svoltisi in questi due ultimi anni a S. Pellegrino rientrano, a pieno titolo, nella tradizione democristiana. E tuttavia possono considerarsi un progresso, in quanto tendono a canalizzare in un alveo unitario temi di discussione già sollevati in varie sedi ed occasioni. La convocazione di un convegno ideologico non può ridursi, però, ad un episodio meramente organizzativo, tanto più quando essa avviene in un periodo nel quale il partito in questione sta per co1npiere ( è il caso dell'anno scorso) o ha appena compiuto (è il caso di quest'anno) una svolta che per larga parte del suo elettorato, quello che lo considerava una sorta di indifferenziato « blocco d'ordine », rappresenta un vero e proprio capovolgimento di fronte. E questo specialmente se, a spiegazione della svolta, si adduce la motivazione di profondi mutamenti della società italiana, che, a loro volta, esigono paralleli mutamenti di formula politica, pena la perdita, 8 Bibliotecaginobianco

Il Convegno di S. Pellegrino a scadenza più o meno lu11ga, di ogni reale possibilità d'esercitare il potere. Già la scorso anno, a S. Pellegrino, Ardigò affermava che tali mutamenti avevano « falciato l'erba sotto i piedi della base sociologica maggioritaria del popolarismo e del solidarismo degasperiano », aggiungendo più innanzi che « in Lt1igi Sturzo ideologia e politica si arrestano alle soglie della industria moderna » e che l'una e l'altra, applicate « al problema delle classi sociali, al problema sindacale, ripeto110 quei limiti ». Dove la denu11zia in sede storica dei limiti del « popolarismo », acquistava un valore politico 11ell'accostamento di questo al « solidarismo », mentre l'elencazione delle categorie. sociali della vecchia maggioranza centrista ( « i coltivatori agricoli, i ceti medi rurali e dei centri urbani minori, gli artigiani, i piccoli imprenditori ») richiamava facilmente l'analoga analisi fatta sette anni prima, al congresso di Napoli del 1954, da Alcide De Gasperi. La progressiva disgregazio11e della base sociologica tradizionale del partito democristiano ripropone in termini drammatici l'esigenza del consolidamento e dell'ampliame11to del « consenso popolare », cui nel 1953 si era cercato di far fronte attraverso il meccanismo elettorale e nel 1958 mediante l'attivismo organizzativo. Di qui la necessità di risolvere il problema con una proposta politica, laddove la legge elettorale e "il potenziamento del partito si erano rivelati strumenti di scarsa efficacia. Ed in chiave politica si co11clude appunto la relazione di Ardigò del 1961: « di qui il problema dei rapporti politici coi socialisti, salvi i valori di libertà, d'autonomia con1unitaria, di prospettiva cristiana nel mondo del lavoro e dei ceti medi ». Tra il primo e il secondo convegno è trascorso un anno, nel quale « il problema dei rapporti politici coi socialisti » è diventato, da indicazione teorica, realtà concreta che si manifesta per il momento al livello parlamentare in attesa di realizzarsi, domani, a livello di governo. Il discorso va qt1indi ripreso esattamente al punto in cui è stato lasciato l'anno precedente, ripreso e portato innanzi, sia per approfondire i temi indicati nel 1961, sia per affrontarne gli ulteriori sviluppi. L'angolatura si sposta perciò dal partito alla società, perché sono proprio la società e le sue modificazioni che del partito hanno determinato la svolta. Sarà ancora Ardigò ad approfondire l'analisi del 1961, e lo farà con mano felice fin tanto che si tratta cli descrivere i fenomeni in corso nella nostra struttura sociale, fenomeni già presenti in quella di molti paesi occidentali, cui l'Italia, proprio in forza dell'attuale processo di svilup,po, si va sempre pii.1 « omogeneizzando ». Tuttavia la costruzione di Ardigò ha più di un lato 9 Bibliotecaginobianco

• Giovanni Cervignì debole: sia perché tende a configurare come posizioni ormai raggiunte, come processi conchiusi o quasi conclusi, situazioni che sono ancora semplici punti di partenza (l'avvento, per esempio, d'una leva d_i managers di tipo tecnocratico a quella che Nenni definisce « la stanza dei bottoni » della struttura economica italiana), sia perché pecca d'astrattezza nel delineare u11a sorta di futura repubblica platonica nella quale spetterà ad una nuova cultura, sintesi di tecnocrazia ed umanesimo, la guida della società. Quando invece non si tratta di sostituire un ristretto ceto dirigente con un altro ceto non molto più ampio, quale quello costituito dalle nt1ove élites tecnocratiche che alla programmazione saranno preposte, ma, come hanno rilevato i sindacalisti, si tratta, al contrario, di allargare a settori sempre più ampi della società quelle facoltà di decisione finora attribuite a circoli ristretti. « È inutile ribadire» ha affermato Pastore « che nessuna pianificazione può essere opera e responsabilità esclusiva dei tecnici, sia pure sorretti ed integrati dalla burocrazia e dai politici ». In sostanza, la costruzione di Ardigò pecca per una i11sufficiente sensibilità politica, che risalta ancora più grave nella altezzosa liquidazione che egli fa delle ideologie e, in particolare, del liberalismo e del marxismo: delle due componenti fondamentali, cioè, della società moderna. A meno che, come spesso avviene nei dibattiti ideologici fra cattolici, specie di sinistra, tutto il discorso non debba essere interpretato ~< in cl1iave » e la frettolosa liquidazione delle ideologie e della loro funzione non sia meramente strumentale rispetto ad una azione politica. Vale a dire che si vuol così sgomberare il terreno dall'ostacolo più ingombrante alla collaborazione coi socialisti; e poiché questi ultimi non vogliono accedere all'abiura cl1e si chiede loro, s'aggira l'ostacolo svalutando il peso di tutte le ideologie, quella marxista compresa. Qualunque sia però l'interpretazione che a tale presa di posizione si voglia dare, ne rimane in piedi una sostanziale pericolosità, tanto dal generale punto di vista democratico, quanto da quello degli interessi stessi del partito democristiano. Partendo da essa è infatti possibile, come ha rilevato giu_stamente « Il Punto», avanzare tesi perniciose relativamente ai limiti di u11 problema che pure si pone nelle moderne democrazie: il rafforzamento dell'esecutivo. Allo stesso modo che una accettazione di non i1npegno ideologico finisce col mettere i democristiani a rimorchio delle ideologie altrui, che, ad onta dei processi sommari e delle liquidazioni spicciative, ci sono e sono ben vitali dal punto di vista politico ciò è accaduto già in passato, e costituisce una esauriente risposta al quesito che u11convegnista minore, Secco Suardo, si poneva: come mai un « pugno di intellettuali radicali » riuscisse ad 10 Bibliotecaginobianco

Il Convegno di S. Pellegrino avere maggiore peso nella vita morale della nazione d'un partito che ne informava la vita politica da un quindicennio. La politica scacciata dalle porte finisce quindi col rientrare dalla finestra, per usare un vecchio adagio, banale, se si vuole, ma a questo proposito alquanto efficace. E vi rientra allorquando si tratta di esaminare l'articolazione democratica del piano, intorno a cui si raggruppano, secondo il parere unanin1e del Convegno, i problemi della società moderna. Il tema affidato ad Andreatta in questo parere si risolveva, pur prendendo a proprio titolo uno degli argomenti tradizionali del pensiero cattolico: « Pluralismo sociale, programmazio,ne e libertà ». In pratica, Andreatta ha delineato un complesso, sistema di « checks and balances », con una serie di proposte originali, alcune delle quali accettabili, altre discutibili, ed altre ancora da rigettare, ma tutte interessanti. Fra le prime, le riforme suggerite in materia di diritto societario, o le indicazioni formulate per garantire l'indipendenza degli organi di stampa; fra le ultime, le norme proposte per definire la posizione dei sindacati nei confronti della politica di piano. Secondo lo schema di Andreatta, difatti, il sindacato si trova ad essere escluso dalla partecipazione alle decisioni programmatrici, poiché ad esso « ripugna d'essere una cinghia di trasn1issione della politica di piano », ma, nello stesso tempo, la sua autonomia deve essere contenuta « entro limiti compatibili con la politica di programmazione ». Si tratta, cioè, di accettare dei limiti senza partecipare alla genesi delle decisioni che tali limiti impongono. È un discorso che i sindacalisti di qualunque colore difficilmente possono accettare, e che, difatti, è stato rigettato dai sindacalisti democristiani presenti a S. Pellegrino, da Donat-Cattin e da Pastore, che, per suo conto, ha altresì contestato l'accusa mossa da Andreatta ai sindacati, di essere, sia pure parzialmente, responsabili dell'affossamento dello, scl1e1na Vanoni. Non si può affermare questo, quando, secondo ciò che ha affermato il Presidente del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno (che al tempo dello schema Vanoni guidava la CISL), nessun invito è stato rivolto ai sindacati perché assumessero responsabilità in ordine alla realizzazione dello « Schema ». Tuttavia, al di là dei conse11si e dei dissensi, il fatto più importante della relazione di Andreatta, è che in essa si sente maggiormente l'influsso del pensiero americano e delle proposte avanzate da quel « pugno di intellettuali » di cui sopra, piuttosto che delle teorizzazioni cattoliche in materia di società pluralistica, di cui si ebbe una prima eco nell'esordio dei dossettiani alla Costituente. Oltre tutto, l'esigenza di pre-• disporre adeguate garanzie contro un eccessivo centralismo pianificatore è stata ben presente nelle discussioni che hanno preceduto ed acco·m11 - Bibliotecaginobianco

Giovanni Cervigni pagnato il convegno delle sei riviste laiche sulla politica di piano, tenuto al teatro Eliseo nell'autunno dello scorso anno. D'altra parte, anche l'intervento dell'economista più maturo di cui_ oggi disponga il n1ondo cattolico, e no11 solo il mondo cattolico, Pa-- squale Saraceno, è difficilmente incasellabile negli schemi del tradizionale pensiero economico cattolico, e della scuola neovolontaristica che di tale pensiero è la maggiore espressione. Il Prof. Sarace110, già nel convegno del 1961, aveva fornito la copertura economica alla scelta politica cl1e altri veniva proponendo in termini sociologici. Con questo non si vuol dire che Sarace110 abbia strumentalizzato la propria posizione teorica rispetto alle esigenze di una battaglia politica; è vero se mai il contrario, e cioè che è stata la DC che, nel corso della sua maturazione con1e partito di democrazia moderna, ha potuto accettare e far proprie quelle proposizioni di politica economica che Saraceno va elaborando dagli anni dell'immediato dopoguerra, lasciandosi alle spalle quelli che si ritenevano i testi classici della dottrina democristiana, da Toniolo a Sturzo. Si tratta peraltro di posizioni che non sono esclusive dello stesso Saraceno, e intorno alle quali si è, i11 questi ultimi tempi, determinato un consenso che si allarga a gran parte dello schieramento politico di centro-sinistra. Non a caso, peraltro, a Saraceno sono stati affidati compiti di grande responsabilità dal governo che di quello schieramento porta il non1e. Ciò spiega anche perché molto di quanto Saraceno ha detto quest'anno a S. Pellegrino fosse già noto, per lo meno nelle sue linee principali. Sin dallo scorso anno il relatore aveva indicato la politica di piano come la componente essenziale di una politica economica moder11a e identificato l'obbiettivo di tale politica nell'unificazione economica del paese. Questa volta si è trattato di « precisare meglio i conte11L1tidi una tale politica », prendendo le mosse dalla constatazione che l'Italia s'avvia a raggiu11gere una situazione di piena occupazione, che tale evento si verificl1erà verso la metà del prossimo decennio e cl1e entro questo periodo bisognerà superare il divario economico tra le due Italie, poiché u~teriori rinvii significherebbero « rendere impossibile l'eliminazione di tale divario ». Da tali impostazioni, acco1npagnate da una precisa, per quanto sintetica -analisi dei mutan1e11ti verificatisi o in corso nella struttura economica italiana, vengono fatti discendere gli obbiettivi della politica di piano, e cioè il mantenime11to dell'espansione del nostro sistema economico, la localizzazione nel St1d degli investimenti necessari al superamento dell'attuale squilibrio, il risanamento dell'agricoltura. La concreta possibilità di raggiu11gere tali _obbiettivi li qualifica, di per sé, 12 - Bibliotecaginobianco

Il Convegno di S. Pellegrino co,me temporanei; mentre, accanto ad essi, se ne pongono altri, ancora più complessi, connessi agli squilibri che le società ad alto reddito manifestano nel settore del consumo: squilibri il cui superamento richiede una incidenza dell'azione economica p11bblica molto maggiore che nel passato e tale da modificare radicalmente l'attuale realtà economica del paese. Siamo così al nocciolo delle polemiche che contro la programmazione si sollevano in questi giorni, ed è qui che l'argomentazione di Saraceno si fa più serrata ed interessante: quando, cioè, egli contesta la legittimità di ritenere portato dal libero gioco delle forze economiche un equilibrio come l'attuale, frutto di spinte e controspinte di elementi dotati di disuguale potenza, cl1e, volta a volta, si compongono in sintesi precarie e, al limite, irrazionali: « se tutto ciò dà luogo ad un meccanismo che si ritiene di poter definire di mercato, non si vede perché la stessa qualificazione non possa n1antenersi a partire dal momento in cui il complesso di istituzioni e di iniziative in essere viene ordinato, mediante una politica di piano, alla soluzione di problemi che, nel momento dato, sono giudicati vitali e che il meccanismo· in atto non riesce a risolvere ». Tanto più cl1e la politica di piano, con il ristabilire un certo equilibrio tra le varie forze in gioco, « riavvicina e non allontana il sistema verso un tipo più legittimamente definibile di mercato ». La questione vera è di stabilire a chi tocchi il compito di giudicare sulla essenzialità, o « vitalità », di determinati problemi; di· stabilire la scala politica dei valori di cui l'azione programmatrice è la proiezione pratica e la realizzazione co11creta. È una questione di difficile soluzione in quanto essa dà luogo a un grande problema politico, il maggiore forse della nostra generazione. E in tal modo l'intende Saraceno quando afferma: « la politica di piano ed il programma che da essa si esprime rientrano dunque nell'azione politica e non soltanto in quella parte di tale azione che costituisce la politica economica; attraverso la politica di piano il sistema di valori prevalente in una società viene convertito in obbiettivi politici; a questi obbiettivi dovrà ade-- guarsi il programma eco-non1ico negli obbiettivi e nelle modalità nonché l'azione effettiva che sul progra1nn1a viene fondata ». Risultano superate così dalla lucidità e dalla razionalità di Saraceno le ingenue posi .. zioni di fiduciosa attesa dell'opera dei tecnocrati, che si sono viste presenti in altri settori del Convegno. La ricerca di una nu9va scala di valori pone grossi problemi ai cattolici, è stato affermato a S. Pellegrino. Ma non ad essi soltanto: si tratta ora di vedere se le posizioni da cui i cattolici e i. laici muovono per tale ricerca siano molto o poco distanti. Dopo la « quattro giorni 13 Bibliotecaginobianco

• Giovanni Cervigni ideologica » di S. Pellegrino, si ha l'in1pressione che le distanze si siano sensibilmente raccorciate e che molte posizioni non siano più cattoliche che laiche, o viceversa. Esse si qualificano più esattamente come posizioni del pensiero moder110, arricchite da quelle esperienze del mondo anglosassone contro le quali a volte polemizzavano i cattolici anche di sinistra negli anni cinquanta; e queste posizioni oramai sembrano discriminarsi in modo veramente marcato solo da quelle proprie dell'ortodossia marxista di stretta osservanza e da quelle che si ispirano a non meno venerande concezioni liberiste. Con varie sfumature e con varie interpretazioni tali posizioni rac• colgono ora un consenso molto ampio in seno al partito democristiano, per lo meno alla parte più vitale di esso, dato che a S. Pellegrino erano assenti tanto coloro che risultano « superati », per così dire, dal nuovo corso ideologico democristiano (sulliani e gonnelliani) quanto gli ambienti per i quali la politica sembra essere un mero problema di potere (dorotei), gli uni e gli altri perché, evidentemente, privi di argomenti per una discussione a questo livello. A tale consenso non sembra si possa dare un significato diverso dalla constatazione di una significativa maturazione intervenuta fra i de1nocristiani in un quindicennio d'esercizio del potere, la cui scuola è loro servita a liberarsi di gran parte degli schematismi ideologici coltivati in una secolare polemica contro lo stato moderno. Per chi è portato a cor1siderazioni avveniristiche il discorso potrebbe poi spostarsi ancora più avanti: cessate le ragioni della polemica, per riconoscimento solenne della stessa Chiesa, si vanno dissolvendo, sia pure lentamente, le ragioni stesse dell'esistenza polemica di autonomi partiti di cattolici e la lotta politica tende ad incanalarsi su schemi che ad essa sono più propri. GIOVANNI CERVIGNI 14 Bibliotecaginobianco

Riforma delle • • • •• 1st1tuz1on1 e repubblica presidenziale di Vittorio de Caprariis Chiunque abbia seguito co11 un po' d'attenzione la polemica politica in Fra11cia anche negli anni precedenti il ritorno al potere del generale De Gaulle non può non essere stato colpito dalla frequenza con cui i temi istituzionali era110 evocati e dalla facilità con cui si trascorreva dalla polemica politica propriamente detta ai tentativi di ricostruzione costituzionale. La critica alle istituzioni della Quarta Repubblica ed alle degenerazioni del regime parlarnentare 110n era svolta soltanto dalla destra anti-repubblicana, dagli ultimi epigoni del1' « Action Française », o dal 111ovimento gollista, ma anche da ambienti della sinistra democratica (si pensi al gruppo dell'« Express »), i quali erano, anzi, tra i più accesi, e perfino dagli stessi governi: ognuno dei governi succedutisi tra il 1954 ed il 1958 aveva studiata la sua brava riforma della costituzione, e si riprometteva di applicarla, se il Parlamento gliene avesse fornita l'occasione. Personaln1ente, sono persuaso che questo contributo dei gruppi democratici di centro e di sinistra alla polemica istituzionale abbia contribuito non poco a preparare un'atmosfera favorevole al gollismo: noi italiani abbiamo imparato a nostre spese dove può portare la critica del parlamentarismo, sia pure fatta con le migliori intenzioni del mondo e suggerita dalla più rigorosa fedeltà agli ideali liberali. Il fatto che tutti dicessero in Francia che bisognava riformare le istituzioni ha finito col dare credito a colui che lo diceva da più tempo degli altri e che, anzi, non aveva voluto mai aver nulla da spartire col parlamentarismo; ed ha, insieme, alimentato e fatto crescere a dismisura la sfiducia nei confronti del Parlamento, al punto che questo poté essere licenziato, alquanto sbrigativamente, senza che nessuno pensasse di difenderlo. Perché avrebbero dovuto i francesi insorgere contro il colpo di forza di Algeri, quando i tre-quarti della classe politica avevano ripetuto per anni che bisognava farla finita con la degenerazione parlamentaristica? · Con questo non voglio dire affatto che tutto andasse bene nel regime della Quarta Repubblica o che i suoi critici, oltre ad essere alquanto avventati, avessero anche torto sui problemi concreti. Al 15 Biblioteca.ginobianco

• Vittorio de Caprariis contrario, v'erano parecchie critiche che erano assai pertinenti e ben ragionate e persuasive, e innanzi tutto quella che i gruppi di sinistra democratica muovevano insierne ai gollisti: la critica, cioè, all'instabilità dell'esecutivo. Le crisi di governo non sono affatto· quella terribile e sciagurata malattia che molti conservatori paventano più di ogni altra cosa; e sono, anzi, una manifestazione fisiologica del regime parlamentare. Ma quando esse dive11tano troppo frequenti (e in Francia si giunse a dire che un gover110 durava il tempo necessario per risolvere un solo problema), e quando ad esse si aggiunge un'indebita interferenza del legislativo al punto cl1e l'esecutivo è, in pratica, privato di ogni potere e soprattutto del potere fondamentale per ridurre alla ragione una Camera dei deputati capricciosa, il potere di dissoluzione (e in Francia l'esecutivo ne era stato privato in concreto dalla disposizione che prevedeva lo scioglimento della Camera solo nel caso che due voti di sfiducia a maggioranza costituzionale si fossero susseguiti nel giro di quattordici mesi: la sola volta che si ebbe lo scioglimento, ciò accadde perché i deputati che votarono contro il governo Faure, e soprattutto i radicali seguaci di Mendès-France, sbagliarono i loro conti!); quando si verifica tutto ciò, le crisi diventano un fatto patologico ed il regime parlamentare degenera pericolosamente. La critica dell'instabilità dell'esecutivo sotto la Quarta Repubblica si rafforzava, poi, di un argomento che era, ed è, valido non solo per la Francia, ma per tutti i paesi democratici: il fattò che le responsabilità ed i doveri dello Stato nel secolo ventesimo non sono più quelli del secolo scorso, ma sono assai più importanti e più vasti, che non solo la sfera delle decisioni di un governo si è ampliata, ma sono mutate le decisioni stesse ed i tempi di esse, talché non è più concepibile un esecutivo debole, com'era quello previsto e prediletto dall'ideologia paleo-liberale, ma è necessario un esecutivo forte. Questa, lo ripeto, è un'esige11za che è valida per tutti i paesi democratici: come ho già avuto occasione di osservare altra volta, discu-- tendo di siffatti problemi su questa rivista, uno dei più inquietanti paradossi politici del nostro tempo co11siste nel fatto che l'allargamento delle basi democratiche dello Stato ha stimolato la volontà o la velleità dei parlamenti ad ~~ercitare non l'imperio, ma la tirannide; mentre l'evoluzione sociale, politica e tecnologica ha concentrato nelle mani dell'esecutivo una somma di poteri che sft1ggono o tendono a sfuggire al controllo dei parlan1enti o che danno a coloro che dovrebbero essere controllati la possibilità di controllare, a loro volta, i controllori. È una situazione gravissin1a e molto pericolosa, perché i due poteri tradizionali (esecutivo e legi~lativo) tendono ad inseguirsi su 16 .. Bibliotecaginobianco

Riforma delle istituzioi-ii e repubblica presidenziale due parallele, e non potranno mai incontrarsi tranne che nel caso di un regolamento di conti definitivo, nel corso del quale ognuno dei due tenterà di schiacciare l'altro, con quali risultati e con quanto beneficio delle ragioni della libertà è fin troppo facile immaginare. Mi pare . che la sola Inghilterra sia riuscita a sfuggire, finora ed almeno in parte, a questa rischiosa contraddizione. E ciò è dovuto non solo al fatto che quando eleggono la Ca1nera dei Comuni gli Inglesi eleggono, in pratica, anche il governo e scelgono il programma che tale governo dovrà attuare, ma anche ad altri fatti, ai quali, di solito, non si presta molta attenzione: la forte disciplina di partito, più o meno spontanea, che esiste tra i deputati conservatori e quelli laburisti, la quale non consente agguati all'esecutivo; e la spregiudicatezza con cui la tradizione politica britannica ha considerato, almeno da 11n secolo a questa parte, la dissoluzione della Camera. Questa è considerata schiettamente non solo come un'arma nelle mani dell'esecutivo, che se ne può servire liberamente in caso di contrasti coi deputati, ma addirittura come uno strumento di potere politico nella lotta tra i partiti: è noto, infatti, che i governi inglesi sciolgono la Camera nel momento che ritengono più opportuno per le sorti elettorali del loro partito. I nostri critici della partitocrazia, che ricorrono così volentieri all'esempio dell'Inghilterra, dovrebbero riflettere, una volta per tutte, su q11esta prassi britannica! Ora, se si considerano questi due fatti che si sono appena ricordati (disciplina di partito assai stretta tra gli eletti del popolo; uso della dissoluzione come strumento di potere politico), si dovrà convenire che gli inglesi hanno risolto il problema che si è detto, e che ha travagliato e travaglia paesi come l'Italia o la Francia, nel senso di un rafforzamento dell'esecutivo. So bene quello che si può obiettare o aggiungere a queste osservazio11i: che, cioè, gli inglesi hanno potuto scegliere tale soluzione perché nel loro paese v'è quella che si potrebbe chiamare la « certezza del regi1ne », la sicurezza morale che nessuno dei due partiti, una volta al governo, si servirà dei poteri di cui dispone per spezzare il quadro istituzionale della lotta politica. E questa è certamente una considerazione di grandissima importanza. Ma, intanto, sarà bene non dimenticare quale direzione hanno scelta gli inglesi e di quali strumenti di potere hanno armato l'esect1tivo. In regimi del tipo di quello fra11cese o italiar10, come ho accennato, il problema resta di un'inquieta11te attualità; e i francesi più attenti ed acuti hanno compreso perfettamente che, malgrado tutto l'apparato dottrinario con cui il gollismo è tornato al potere, quella di De Gaulle è una soluzione legata al destino personale di un uomo, e dunque è una falsa soluzione. L'esige11za di un esecutivo forte, alla misura dei 17 Bibliotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis problemi politici, economici e sociali del nostro. tempo, si riproporrà, anzi, più drammaticamente all'indomani della fine del regime persor1ale di De Gaulle; così come se ne con1inciano ad intravvedere l'urgenza e~ . i problemi anche da noi. E credo che sia stata proprio questa giustissima valutazione a suggerire agli studiosi ed agli alti funzionari che si riuniscono in Francia nel « Club J ean Moulin » il tema della loro ultima ricerca collettiva ed insieme una radicale soluzione del problema: « un vero regime presidenziale ». E bisogna dire subito che per dei francesi questa soluzione è veramente radicale e spezza bruscamente una tradizione ormai secolare: malgrado il grande esempio degli Stati Uniti d'America, infatti, la repubblica presidenziale è sempre stata assai poco popolare in Francia per via del precedente di Luigi Napoleone (e credo che per le stesse ragioni lo sia stato e lo sia anche in Italia). Il regime presidenziale evoca subito il riflesso anti-bonapartista: la costituzione della Terza Repubblica nacque sotto quell'incubo, che la rapida vampata del boulangis1110 rafforzò non poco; e la costituzione, definitivamente adottata, della Quarta Repubblica finì col ripercorrere le vecchie strade della diffidenza contro l'esecutivo e contro la soluzione presidenziale, tanto più che anche tra il 1944 ed il 1945 gravava sulle istituzioni repubblicane un'ipoteca che pareva di tipo bonapartista, quella che era fatta valere dal generale De Gaulle. Il fantasma del principe-presidente, che aveva liquidata la Seconda Repubblica nel 1851, ha offuscato per un secolo in Francia la soluzione presidenziale; e sono state necessarie la lenta decadenza delle istituzioni della Quarta Repubblica, la crisi del maggio 1958 e le singolari esperienze del gollismo, perché si esorcizzasse, fi11almente, quel fantasma, e si tornasse a discutere di un regime di tipo americano come di qualcosa su cui non gravava nessuna maledizione. Pure, malgrado la naturale simpatia che può ispirare il coraggio intellettuale con cui i membri del « Club J ean Moulin » hanno interrotto una così vett1sta tradizione politica ed ideologica, bisogna dire con tutta franchezza che la loro soluzione, « il vero regime presiden-- ziale », e gli argomenti addotti in suo favore non sono affatto persua .. sivi. Malgrado tutta l'industria dimostrativa spiegata, non sembra che, nella situazione politica (ed intendiamo l'espressione nel senso più comprensivo possibile) in cui sono oggi paesi come la Francia o l'Italia, il regime presidenziale sia quello cl1e fornisce la soluzione migliore non solo del problema della stabilità dell'esecutivo, ma anche degli altri problemi posti dalla necessità di un aggiornamento costituzionale. Non si può, infatti, considerare la questione dell'esecutivo isolatamente da tutto il contesto istituzionale, pe~ché a queste modo si rischia di 18 Bibliotecaginobianco

Riforma delle istituzioni e repubblica presidenziale giudicare delle differenti soluzioni costituzionali in astratto, e non nel concreto funzionamento di tutta la macchina politica: e proprio l'esempio americano, che è invocato dal « Club Jean Moulin », serve, mi pare, a dimostrare in modo eccellente la validità di questo rilievo. È lecito chiedersi se gli estensori del nuovo progetto costituzionale abbiano tenuto nel giusto conto il fatto che gli Stati Uniti d'America sono una repubblica federale; e che, in conseguenza, il fatto stesso di essere una federazione di stati che hanno conservato ognuno una parte sia pure piccola di sovranità (si badi bene: di sovranità) costituisce un limite poderoso dell'esecutivo federale. Insomma, negli Stati Uniti v'è una duplice separazione di poteri: quella classica montesquieviana, che anzi si presenta qui nella sua forma più pura, dei poteri esecutivo, legislativo e giudiziario al livello federale; e l'altra di una distribuzione dei poteri tra lo stato federale ed i singoli stati (nell'ambito, dei quali si riproduce la separazione classica montesquieviana). È ben vero) che l'evoluzione degli ultimi trent'anni ha portato negli Stati Uniti ad un rafforzamento crescente del potere federale e ad un indebolimento di quello dei singoli stati: ma resta il fatto che tutta una serie di attività e di interventi, tutta una sfera della legislazione, sono sottratte alla competenza federale e riservate a quella statale; e resta l'altro, fatto che_ gli stati esistono e costituiscono .. per il fatto solo di esistere, dei centri di potere, e dunque dei centri potenziali di resiste11za agli eventuali tentativi di prevaricazione da parte dell'esecutivo federale. Di tutto ciò in Francia (e, almeno per ora, in Italia) non v'è neppure l'ombra. Quale sarebbe, allora, la forza di un esecutivo di tipo presidenziale (fornito, per di più, della larga autonomia di cui gode in taluni settori l'esecutivo federale degli Stati Uniti) in stati fortemente centralizzati come il francese o l'italiano, e nei quali non v'è solo un'amministrazio 1 ne centralizzata, ma anche una fortissima tradizione di accentramento? Non mi pare che la risposta a· questa domanda consenta molti dubbi: la forza sarebbe enorme, e tale da minacciare in modo veramente pericoloso le libertà individuali dei cittadini. Per i membri del « Club J ean Moulin », tuttavia, la soluzion~ presidenziale non è la migliore delle soluzioni; anzi, essa è sicuramente « inferiore, dal punto di vista ideale, al regime parlamentare, che, nella sua versione moderna, realizza, grazie al sistema dei partiti politici, una stupefacente economia di mezzi, dal momento che, attraverso le elezioni generali, gli inglesi scelgono insieme il capo dell'esecutivo, i deputati e, con una specie di referendum implicito, il programma della legislatura». Abbiamo già visto che ciò che garentisce la stabilità dell'esecutivo in Gran Bretagna non è l'unità e l'indissolubilità di queste 19 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis tre scelte; ma ciò che c'interessa di mettere in evidenza adesso è la conclusione che il nuovo progetto costituzionale francese trae da questo principio: « un autentico regime parlamentare supporrebbe in Franc~a un rivoluzionamento in profo11dità che non è nelle nostre attuali possibilità: cioè un elettorato cl1e fosse pronto a dare i suoi voti a due partiti, ed a due soltanto; deputati che accettassero la grigia esistenza di fantaccini al servizio del governo o di oppositori in attesa delle elezioni successive; partiti capaci di darsi una disciplina senza fratture. Il regime presidenziale non esige tanto: esso può funzionare con i francesi, i deputati e i partiti quali essi sono attualmente ... ». Lasciamo da parte ancora una volta la considerazione che toccando il tema della disciplina dei partiti e degli eletti il rapporto del « Club J ean Moulin » tocca finalmente il cuore della questione, e fermiamoci sull'ultima proposizione, che, cioè, con un regime presidenziale deputati e partiti possano restare quali sono adesso in Francia. Anche qui viene il dubbio che gli estensori del rapporto non abbiano ben meditato s11l concreto funzionamento delle istituzioni politiche statunitensi. È un fatto che l'attuale tipo di rapporti tra esecutivò e legislativo, al livello federale, negli Stati Uniti turba e preoccupa molto le classi dirigenti e gli studiosi di scienza politica. Anche nella grande repubblica nord-americana si è yerificato quel duplice e con- . traddittorio processo, cui si è accennato, del rafforzamento dell'esecutivo e del contemporaneo crescere delle pretese di intervento e di controllo da parte delle legislature. Negli ultimi quarant'anni vi sono state a tale proposito alterne vicende; ma in generale si può dire che tutte le volte che v'era un presidente debole o comunque persuaso che l'esecutivo dovesse agire il meno possibile (si pensi ad Harding, a Coolidge ed in parte allo stesso Eisenhower), il legislativo ha sempre tentato ed è spesso riuscito ad usurparne sostanzialmente le prerogative; che anche nel caso di presidenti forniti di una fortissima personalità e convinti della necessità di un ruolo fondamentale della presidenza, il legislativo ha tentato sempre di attribuirsi poteri che non gli spettavano, almeno in alcuni settori (si pensi, ad esempio, ai tentativi, talvolta riusciti, del Congresso di limitare la libertà d'azione in materia di politica estera di F. D. Roosevelt tra il 1934 ed il 1937); che ad ogni sessione del Congresso - e la tendenza si è vieppiù accentuata negli ultimi dieci anni - si presentano emendamenti alla costituzione volti a limitare le prerogative costituzionali del Presidente. Del resto, questo fenomeno è anteriore all'evoluzione degli ultimi quarant'anni, e il pericolo che le relazioni tra esecutivo e legislativo si sviluppassero in modo anomalo era stato avvertito dagli studiosi di scienza politica 20 Bibliotecaginobianco

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