Nord e Sud - anno IX - n. 29 - maggio 1962

----- I Rivista mensile diretta da Francesco Compagna Vittorio de Caprariis, Kennedy, un anno dopo - Gian Giacomo Dell'Angelo, Gli ertti di sviluppo agricolo - Antonio Ghirelli, Il giornalismo sportivo - Gilberto Antonio Marselli, Ricerche sociali, riforma agraria e sviluppo comunitario - Nello Ajello, La Toscana di Laurenzi. e scritti di Mario Caciagli, Raffaello Franchini, Mirella Galdenzi, Cesare Lanza, Ernesto Mazzetti, Calogero Muscarà, Ernesto Narciso, Eva Omodeo Zona, Renato Perrone Capano, Antonio Vitiello. ANNO IX - NUOVA SERIE - MAGGIO 1962 EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIA NE - NAPOLI Bibliotecaginobianco

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NORD E SUD Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO IX - MAGGIO 1962 - N. 29 (90) DIREZIONE E REDAZIONE: N a p o I i - Via dei Mille, 47 Amministrazione, Distribuzione e Pubblicità . EDIZIONI SCIENTIFICHE ITALIANE - S.p.A. Via dei Mille, 47 - N a p o 1i Una copia L. 300 - Estero L. 360 - Abbonanienti: Sostenitore L. 20.000 - Italia annuale L. 3.300, semestrale L. 1.700 - Estero annuale L. 4.000, semestrale L. 2.200 - Effettuare i versamenti sul C.C.P. 6.19585 Edizioni Scientifiche Italiane - Via dei Mille 47, Napoli BibJiote~aginobianco

SOMMARIO Vittorio De Caprariis Gian G. Dell'Angelo Ernesto rvtazzetti Ernesto Narciso Eva Omodeo Zona Antonio Vitiello Editoriale [3 J Kennedy, un anno dopo [5] Gli enti di sviluppo agricolo [21] Note della Redazione Malagodi a cavallo della tigre - I nuovi problen1i della « Cassa » - Il « vuoto » napoletano [29] Giornale a più voci Napoli, la legge speciale e le « amministrative» [36] Aspetti giuridici dei Consorzi per le aree di sviluppo industriale [ 43] Ancora sill destino della Sicilia [ 48] Il Dio depresso [52] Inchieste Antonio Ghirelli Il giornalisn10 sportivo [55] Argomenti Cesare Lanza Aperture a destra e a sinistra in Calabria [66] Mario Caciagli Raffaello Franchini R. Perrone Capano Calogero Muscarà Nello Ajello Mirella Galdenzi Recensioni Le delusioni della libertà (P. Vita-Finzi) [73] La Germania tra libertà e riunificazione (K. Jaspers) [77] La Resistenza di Firenze (C. Francovich) [79] La geografia urbana (Pierre George) [82] La Toscana di Laurenzi (C. Laurenzi) [84] Un inoralista moderrio (F. Onofri) [87] Lettere al Direttore Luigi Gallo Napoletani a Milano [93] Saggi Gilberto A. Mar selli Ricerche sociali, riforma agraria e sviluppo comunitario [97] BibliotecaGino Bianco

Editoriale Avevano paitra del neutralismo dei socialisti: erano i~ molti a fomentare la preoccupazione che l'apertura a sinistra avrebbe indebolito la presenza atlantica dell'Italia e avrebbe annullato, o per lo meno attenuato, l'impegno europeistico del nostro governo. E fra coloro che fomentavano in mala fede o nutrivano in bitona fede questa preoccupazione v'erano anche ambienti giornalistici, e in qualche caso perfino diplon1atici, che rappresentano in Italia i paesi amici, gli alleati della NATO e i soci del MEC. A questi anibienti si rivolgevano, e tuttora si rivolgono, le destre italiane, animate da zelo atlantico ed europeista: e spesso, troppo spesso, harino trovato ascolto. La verità è che la fedeltà atlantica e l'impegno europeistico sono per le destre italian.e affatto strun1entali. I fascisti che sono i portavoce delle destre italiane non possono capire la politica atlantica ed europeista, ne recepiscono la forma anticomunista, ma non ne accettano i contenuti democratici. E quanto ai Malagodi e ai Bettiol, anche se la loro interpretazione della politica atlantica ed europeista non e di marca nazionalistica, come quella degli ex-arnbasciatori fascisti di Michelini o come quella degli ex-ambasciatori fascisti di Covelli, non per questo è una interpretazione meno strumentale e nzeno ambigua di quella per cui sono diventati atlantici ed europeisti, in questa congiuntura politica, coloro che investivano Sforza e De Gasperi con le stesse contumelie che, ai loro tempi, D'Annunzio e Federzoni riservavano a Nitti e a Giolitti. Non è il neutralismo dei socialisti che può indebolire la presenza atlantica e attenuare l'impegno europeistico dell'Italia, se presenza atlantica ed impegno europeistico non vengono svuotati dei loro originari contenuti democratici, se riescono a sfuggire all'abbraccio mortale degli Anfuso e dei Cantalupa, come a noi sembra che ora sia possibile grazie proprio all'apertura a sinistra. È stato comunque un grosso rischio per l'atlantismo e l'europeisn10 quello di identificarsi con le formule degli avversari dell'apertura a sinistra, quello di fornire munizioni a coloro che altro non si proponevano se non di scongiurare le conseguerize sul piano interno dell'apertura a sinistra. E si deve rico3 ibliotecaGino Bianco

.. Editoriale nascere che repubblicani e socialdemocratici hanno avuto una grossa parte - come l'ha avuta "Il Mondo " - nello scongiurare questo peri-_ colo: proprio come avevamo scritto nell'editoriale del mese di settembre. Del resto, dovrebbe essere chiaro a tutti che la crisi della politica atlantica e della politica europeista ha un solo grosso responsabile: De Gaulle. E Nenni non è certo dalla parte di De Gaulle, con1e lo sono Malagodi e Bettiol, e anche i fascisti ed i monarchici, salvo le loro maggiori simpatie per l'OAS. Risulta provato, cioè, dall'esperienza francese ciò che abbiamo sempre sostenuto: che i 1naggiori ostacoli per la politica atlantica ed europeista sono a destra, che i punti di appoggio per un rilancio dei temi antiatlantici ed antieuropeisti delle sinistre comuniste e filocomuniste sono quelli forniti da interpretazioni di destra della politica atlantica ed europeista, vuoi che si tratti di velleitarie impennate nazionalisticl1e come in Francia, vuoi che si tratti di strumentalizzazione della NATO e del MEC a fini di politica interna come in Italia, vuoi che si tratti di svuotare dei loro contenuti democratici il Patto atlantico e la Co1nunità europea con la ricorrente proposta di inserire la Spagna di Franco. Non sta a noi dar consigli a giornalisti o diplomatici stranieri: il piLnto che noi vorremmo che f asse sempre al centro delle loro meditazioni e di cui non sempre essi sembrano · essersi resi conto è proprio quello che ci siamo sforzati di illustrare qui. La garanzia di stabilità delle alleanze, e innanzi ad ogni altra cosa dell'Alleanza atlantica e della politica europeistica è fornita proprio dall'allargamento a sinistra dei confini della democrazia. L'Alleanza atlantica e l'europeismo hanno senso solo nella misura da cui si co'tiservano immuni dalle ipoteche delle destre: quando ne fossero contaminate, cesserebbero di essere dati strutturali della democrazia per diventare uno dei tanti giri di valzer ispirati dalle velleità nazionalistiche. 4 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un anno dopO di Vittorio de Caprariis Tra il 10 ed il 20 aprile v'è stata a Washington la battaglia dell'acciaio: la U. S. Steel Co. ed altre industrie siderurgiche, che avevano manifestato l'intenzione di aumentare il prezzo del loro prodotto, sono state attaccate con estrema violenza dal Presidente Kennedy, il quale è riuscito, con rara abilità, a mobilitare fulmineamente l'opinione pubblica americana contro i cosiddetti baroni dell'acciaio. Strette tra l'insurrezione dell'opinione e le minacce cl1e l'Amministrazione non ha esitato a brandire (discriminazione nell'assegnazione delle commesse federali, processi da parte del Dipartimento di Giustizia e della Federai Trade Commission per violazioni delle leggi contro i cartelli, inchieste da parte di commissioni della Camera e del Senato), indebolite dalla rottura che il governo era riuscito ad operare nel fronte dei produttori d'acciaio, la Unites States Steel e le industrie che le si erano associate sono state costrette a capitolare nel giro di tre giorni. È stato osservato che, impostando la s11a battaglia contro la U.S. Steel sul tema dei pericoli di inflazione, l'Amministrazione democratica ha potuto agevolmente sollecitare una reazione quasi instintiva nell'opinione pubblica ed ha potuto, in co·nseguenza, vincere una facile battaglia, ma ha scoperto il fianco alle critiche future degli avversari: la politica di spesa federale che Kennedy stesso ha previsto e prevede reca in sè il rischio di aprire una spirale inflazionistica, e perciò l'attacco di ieri contro i produttori di acciaio potrebbe essere ritorto domani contro il governo. E l'osservazione non é priva di qualche colore di verità, pur se sembra assurda l'idea che essa sottintende: che, cioè l'Amministrazione rinunciasse a combattere un pericolo di inflazione reale ed immediato per coprirsi dalle critiche per un pericolo analogo, da lei stessa scatenato, ipotetico e futuro. Ma, comunque ciò sia, l'episodio é un esempio di esercizio del potere politico che va meditato, perché dimostra che lo Stato dei nostri tempi ·può imporre alle singole sezioni del paese quei comportamenti che ritiene necessari al benessere dell'intera comunità, senza ricorrere ·ad una legislazione straordinari~ ed usando gli strumenti di potere di cui dispone, solo che la classe politica abbia la reale volontà 5 Bibliotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis di servirsi del potere che detiene. E d'altra parte la battaglia dell'acciaio, se é un'altra dimostrazione del senso acuto dell'opinione pubblica e . q.ell'abilità di tattico consumato che sono parse sempre caratteristiche costitutive della personalità di Kennedy, contraddice, tuttavia, l'immagine che ci si era potuta fare di lui in questo anno di esercizio del potere, che era poi quella suggerita anche dal suo passato di membro della Camera dei Rappresentanti e del Senato, contraddice, cioè, l'immagine del politician rotto a tutte le astuzie della lotta politica malgrado la giovane età, del te1nporeggiatore che preferiva non affrontare mai di fronte le difficoltà e che le evitava aggirandole. Certo, taluni discorsi al Senato prima, e durante la campagna elettorale del 1960 poi e il messaggio inaugurale parevano fatti apposta per correggere quell'immagine: ma ciò che era accaduto poi o, per dir meglio, ciò che non era accaduto aveva dato l'impressio11e che i discorsi fossero soltanto diversio·ni dalla realtà. La fulminea e clamorosa vittoria di Kennedy sull'United States Steel sembra riproporre i11 termini nuovi il problema del giudizio da dare sul Presidente degli Stati Uniti e sulle sue possibilità di azione futura, a un anno di distanza, o poco più, dall'ascesa al potere. È certo che chi guarda al primo anno di governo di Kennedy con la me11te rivolta alle prime esperienze di governo di Wilson o di Franklin Delano Roosevelt é colpito dal vuoto che sembra caratterizzare l'anno 1961 in confronto al 1913 o al 1933. Nel 1913 furono· approvati il XVI e il XVII Emendamento alla Costituzione federale (imposta progressiva ed elezione diretta dei senatori), fu creato il Ministero del lavoro, fu varata la riforma del sistema bancario e fu aperta ]'inchiesta del Comitato Pujo sull'alta finanza. E gli inizi dell'amministrazio11:e di F. D. Roosevelt sono passati alla storia come « i cento giorni di Roosevelt », poiché tra il 9 marzo ed il 16 giugno 1933 il Congresso, sotto la pressione formidabile delle condizioni del paese e poderosamente stimolato dal governo federale, approvò l'Agricultural Adjustment Act e il National Industria! Recovery Act, istituì la Tennessee Valley Authority e la Public Works Admini~tration e completò in maniera quasi definitiva la riforma del sistema bancario, iniziata vent'anni prima. Ma sarebbe commettere un grave errore di prospettiva giudicare il 1961 col metro del 1913 e soprattutto del 1933. Nel 1913 i democratici giunsero al potere sull'onda di un vastissimo movimento nazionale (basti pensare che i repubblicani ebbero allora solo un quarto dei voti, contro i tre quarti che andarono al partito democratico ed a quello progressista) ed in un momento in cui sembrava che bastasse agire per fare delle riforme. E nel 1933 gli Stati Uniti erano travagliati dall_a più grave crisi della loro storia (dopo quella della guerra civile) e le dimensioni del disastro nazionale e 6 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un, anno dopo dei problemi da risolvere erano tali, che la. volontà di azione si traduceva quasi naturalmene in azione positiva. E sarebbe ingiusto dimenticare che molta parte della legislazione rooseveltiana dei « cento giorni » fu effimera e dovette essere sostituita nel giro di pochi anni, non soltanto perché la Corte Suprema, conservatrice fino al 1936, tagliò a pezzi quella legislazione, ma anche perché alcune misure adottate (il National Industria! Recovery Act, ad esempio) erano ·frutto di improvvisazione piuttosto che di una matura co11siderazione dei problemi, e risultarono, perciò, obiettivamente impraticabili. Nel 1961 la situazione del paese non era certo paragonabile a quella del 1913 e meno ancora a quella del '33: certe riforme del « new freedom » wilsoniano e soprattutto del « new deal » erano diventate strutture permanenti del sistema politico, economico e sociale degli Stati Uniti, addirittura dati del costume nazionale statunitense. E, per l'influenza di quelle riforme stesse, molte caratteristiche costitutive del sistema americano (si pensi, ad esempio, al tipo di ·capitalismo dei decenni del boom industriale nella seconda metà dell'Ottocento o dei cosiddetti « anni ruggenti» tra il 1920 ed il 1930) si erano venute modificando profondamente. La povertà come fatto generalizzato aveva cessato di essere un problema di fondo degli Stati Uniti, anche se continuavano ad esistere, qua e là, delle isole di miseria, talché, mentre i riformatori degli anni a cavaliere tra i due secoli o dell'epoca del « new deal » avevano dovuto affrontare questioni i1nportantissime soprattutto per le loro dimensioni quantitative, i riformatori dei nostri anni dovevano affrontare questioni tutte diverse, quelle degli aspetti qualitativi della vita americana. Il che vuol dire, in termini più semplici, che lo spazio delle riforme grandiose e spettacolari si è ormai grandemen te ristretto, che i problemi che restano da risolvere sono assai più complessi e difficili di quelli di un tempo, e che l'azione riformistica deve svolgersi su cose che sono in apparenza marginali (e dunque più difficili da far intendere all'opinione), ma éhe tali non risultano, in realtà, in una matura visione del futuro del paese e di ~n suo ulteriore e più armonico sviluppo. Né va dimenticato che la situazione internazionale nella quale si è trovata ad agire l'Amministrazione democratica nel 1961 era enorme1nente più difficile di quella di cinquanta o di trent'anni fa: gli Stati Uniti non avevano allora la responsabilità di paese-leader del mondo occidentale in una lotta politica e diplomatica senza confronti. · Tutto ciò sembra assai importante, e sarebbe ingiusto ignorare questi dati elementari per dedurre dal paragone tra il 1933 ed il 1961 delle conseguenze che fossero tutte a svantaggio degli attuali prota7 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis gonisti della vita politica americana. E tuttavia, quando si leggono certe critiche alla relativa passività dell'Amministrazione Kennedy, si ha_ l'impression~ che in esse vi sia più di un elemento di verità: « paragonato ad Eisenhower o a Nixon - ha affermato Joseph Rauh, uno dei dirigenti della lega degli « Americans for Democratic Action » - Kennedy va benissimo. Ma paragonato alla grandi speranze che noi avevamo, egli rappresenta un'amara disillusione ». La formula di Rauh potrebbe essere elevata a monito ai suoi simili a non farsi mai soverchie illusioni; e insieme, se non fosse per la prima frase, potrebbe meritare l'obiezione che, a furia di descrivere troppo brutto il purgatorio per guardare al paradiso, si rischia di finire all'inferno! Voglio dire che le parole di Rauh mi sembrano caratteristiche di quel tipo di mentalità progressista che scambia per possibilità reali le proprie speranze o illusioni, e crede che siano intervenuti dei mutamenti negli uomini e nelle cose in quanto, muovendo da una visione tutta immaginaria degli uni e delle altre, finisce col convincersi che uomini e cose siano mutati solo perché ha impiegato troppo tempo a comprendere la loro realtà effettuale. Questo tipo di mentalita è la peggiore che vi possa essere i11 politica, perché prepara delusioni e frustrazioni terribili, spinge ad inquietudini irriflessive ed irrazionali, porta a giudicare della politica in modo affatto sbagliato e finisce col fare il male con le migliori intenzioni del mondo. Il progressismo americano ( e non solo quello americano, in verità!) è stato sempre un pò affetto da questa malattia; e, francamente, sarebbe tempo che ne guarisse. Ma il problema non è qui di « grandi speranze » o di « alte illusioni », Chi scrive, forse per deformazione professionale di studioso di storia, non ha mai potuto accettare la contrapposizione in bianco e nero tra l'Amministrazione repubblicana, che aveva governato gli Stati Uniti per otto anni, e le promesse che facevano intravvedere i democratici, t1na contrapposizior1e che ebbe molta voga negli Stati Uniti nei mesi dell'ardente campagna elettorale del 1960 (e questo si può comprendere, date le passioni suscitate della lotta politica) e che ebbe anche qualche voga in Europa ed in Italia (e questo si comprende molto meno, perché almeno gli osservatori stranieri avrebbero dovuto conservare un maggiore controllo critico). Le critiche e le riserve, anche di grande rilievo, che si potevano e si dovevano fare, e che abbiamo fatte, alla politica interna ed estera di Eisenhower non ci inducevano, certo, a pensare che gli Stati Uniti fossero stati travolti in una spirale reazionaria, come amavano pensare in parecchi anche in Italia; e meno ancora ci inducevano a sottovalutare le difficoltà obiettive (soprattt1tto i11politica estera) che i repubblicani si erano trovati ad affrontare, e che i democratici si 8 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un anno dopo sarebbero trovate innanzi più o meno intatte, se avessero vinto le elezioni. E, d'altro canto, certi libri che sono stati pubblicati, sulla più recente storia degli Stati Uniti, e le riflessioni che questi libri avevano stimolate, suscitavano qualche naturale riserva sull'albero genealogico che i sostenitori di Kennedy venivano costruendo, nell'entusiasmo elettorale, per le dottrine della « nuova frontiera » e sulla consistenza stessa di queste_ dottrine (e su ciò avremo occasione di tornare più avanti). Nè si poteva negare che nell'impostazione della campagna elettorale di Kennedy, nel modo in cui il giovane senatore del Massachusetts aveva imposto se stesso nella lunga corsa delle « pri1narie » e alla Convenzione democratica, nella sua premura a circondarsi del classico « trust di cervelli », nel perfetto funzionamento della macchina da lui costruita, insomma, v'era qualcosa che impressionava per la sua perfezione tecnica e per la sua spregiudicata modernità, ma che, insieme, non persuadeva interamente. Anche alcune delle formule più prestigiose di Roosevelt erano state create dai suoi consiglieri o da quelli che gli preparavano i discorsi: quella famosa ed acutissima, che i grandi industriali e finanzieri, proprio in ragione della loro bigness, esercitavano un mandato pubblico per cui dovevano rendere conto, al paese, era, com'è noto, di Adolf Berle junior; il celebre « rendez-vous with destiny » era stato inventato da uno dei suoi collaboratori letterarii, mutando leggermente il titolo di un articolo di Walter Lippman ( « Appointment with destiny » ). Ma in Roosevelt v'era un calore di auto-convincimento e di persuasione e soprattutto la disinvoltura naturale di un grande leader; e queste cose si cercavano invano in Kennedy. La biografia di quest'uomo pareva tutta costruita in vista della utilizzazione elettorale: la terribile avventura in guerra, il libro che aveva vinto il premio Pulitzer, la precocissima passione politica, il viaggio d'istruzione intorno al mondo ... La propaganda è, certamente, una delle dimensioni fondamentali della lotta politica nelle società democratiche di massa: e Kennedy ed i suoi amici davano l'impressione di padroneggiare .perfettamente questo formidabile strumento. Ma appunto la loro consumata abilità tecnica lasciava pensosi e portava a chiedersi, con preoccupata perplessità, cosa vi fosse effettivamente dietro quell'abilità. Questi erano i problemi (l'altro, quello della fede religiosa di Kennedy, era una questione assolutamente irrilevante) che pensosi osservatori della realtà politica degli S. U. si ponevano, anche pubblicamente, durante la campagna elettorale del '60 e dopo la vit- . toria dei democratici, ben sapendo che a queste domande le risposte giuste avrebbero potuto darle i fatti soltanto. Durique, il problema non é di « grandi speranze » e di « alte illusioni », non é delle più o meno amare disillusioni di cl1i scrive o di altri. 9 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis E tuttavia non vi é dt1bbio che nella lunga preparazione della sua campagna presidenziale e poi ancora durante tutta la campagna, e finalmente· nel messaggio inaugurale, Ken11edy non aveva fatto altro che spronare i suoi concittadini, chiamarli al senso delle grandiose responsabilità e dei formidabili problemi della congiuntura storica, esortarli a levarsi tutti in piedi, per incamminarsi verso la nt1ova frontiera. Per un secolo gli americani avevano marciato verso la « frontiere », ed avevano, a questo modo, colonizzato un immenso continente; poi erano stati chia1nati a vincere altre formidabili battaglie, a superare altre formidabili barriere, e avevano risposto all'appello. Adesso, dopo che per otto anni erano parsi corrivi ad adagiarsi in una felice sonnolenza, veniva un altro leader ad indicare loro, con la veemenza appassionata dei suoi quarant'anni, la nuova frontiera da superare. Non so se questo sia suscitare « grandi speranze » ed « alte illusioni »; ma é certo un modo di mobilitare un paese sano, e quindi pronto a reagire, é un modo di attirare a sè un patrimonio formidabile di energie morali, ed é insieme un impegno ad utilizzarlo per le grandi battaglie che si hanno in vista. Ebbene, cosa è accaduto dopo? Non diremo che dopo v'è stata la lamentevole « affaire » di Cuba: abbiamo troppo rispetto per l'analisi critica degli avvenimenti politici per compiacerci di queste contrapposizioni facili e fuorvianti e per unirci alla stolid~a speculazione che si è voluta improvvisare su qull'avve11imento. Ma sembra che si possa dire che ciò che è avvenuto dopo l'ascesa al potere di l(en11edy e dell' équipe democratica non è stato certo all'altezza delle energie morali che lo stesso Kennedy ed i suoi amici avevano voluto n1obilitare. E qui vien fatto spontaneo di osservare che non si gioca invano al rialzo delle passioni morali e politiche dei popoli, poiché operazioni di questo genere possono ancl1e servire a vincere un'elezione, ma rischiano di provocare frustrazioni profonde dell'anima popolare e stanchezze mortali e crolli improvvisi: quei socialisti massimalisti italiani che, tra il 1918 ed il 1920, agitarono i miti che tutti sanno e mostrarono alla classe operaia la vittoria finale come or_mai imminente e matura, questione di settimane o di 1nesi, l'hanno imparato a loro ed a nostre spese. Si consideri, ad esempio, la politica interna. Non si può certo dire che l'amministrazione democratica non abbia fatto assolutamente nulla (si pensi, ad esempio, agli aiuti alle scuole primarie, alle misure d'emergenza, pienamente riuscite, per contenere la recessione, ai progetti elaborati lungo il '61 ed adesso in discussione al Congresso sulle riforme fiscali). Né si può dire che sia pienamente accettabile, per le sue punte critiche francamente eccessive, il giudizio di Ul)O dei maggiori leaders sindacali americani, Walter Reuther: «per impressionanti che possano essere in 10 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un anno dopo confronto al passato le realizzazioni del governo, esse non sono ancora abbastanza vicine all'obiettivo vero, di portare la nostra economia su quella base di sano pieno impiego e di piena produttività, che é necessaria per affrontare il problema della disoccupazione continuamente risorgente in pericoli di rapida crescita delle nostre forze di lavoro e di aumento altrettanto rapido del progresso tecnico ». Walter Reuther esige troppo, in troppo breve tempo! Il pieno impiego e la piena produttività dell'immenso apparato industriale americano non sono cose che si possano avere in un giorno solo, o con una sola legge, ma sono la conseguenza di un accerchiamento e di un'aggressione dei problemi da tutte le direzioni possibili. Sarebbe erroneo ed ingiusto dimenticare che quando l'Amministrazione propone una certa politica del commercio con l'estero e dei rapporti di scambio con l'area del Mercato Comune pone anche le premesse per una soluzione di quel problema. Tuttavia, v'era qualcosa di molto importante che Kennedy ed i riformatori che lo circondano avrebbero potuto fare, o almeno cominciare a fare: ed é un esempio classico di riforma sui margini, ma su margini decisivi per il futuro. L'analisi di Galbraith aveva fornito una chiave preziosa per l'intelligenza di certi aspetti della civiltà economica americana contemporanea, ed aveva suggerito, \ insieme, le grandi linee di un ridimensionamento : un regime di relativa aùsterità, un ripensamento approfondito delle direzioni degli investimenti, un'intelligente programmazione di questi in modo da ristabilire l'equilibrio tra la produzione di beni di consumo e le esigenze dell'interesse collettivo. L'economista aveva mostrato che lo squilibrio tra la produzione per i consumi privati e quella per il pubblico interesse (uno squilibrio a tutto svantaggio di quest'ultima) impoveriva la nazione ed insieme costituiva un ostacolo al pieno sfruttamento dell'apparato produttivo ed allo sviluppo ulteriore dell'economia del paese; ed il politico, che in Galbraith s'univa all'economista, aveva suggerito anche alcune delle misure concrete per riparare a quello squilibrio. Sembra a noi che appunto da questa analisi della realtà economica americana e da questa responsabile idea di una programmazione efficiente e razionale avrebbe dovuto muovere, in primo luogo, la politica dell'Amministrazione democratica. Questa scelta di priorità avrebbe chiaramente suggerito all'opinio11e pubblica che lo sforzo che le era stato chiesto era indirizzato veramente a costruire l'avvenire migliore per tutti. E diciamo pure che una politica del genere avrebbe avuto all'estero un successo superiore ad ogni aspettativa, superiore ad ·ogni vittoria diplomatica su questo o quel problema.I più intelligenti democratici in Europa sanno benissimo che il sistema americano funziona molto meglio, sul piano materiale, di quello sovietico, e garantisce, insieme, il dispiegamento di quelle libertà 11 Bibliotecaginobianco

•• Vittorio de Caprariis che nel continente comunista non esistono. Ma essi sanno anche (e lo sanno perché cominciano a farne esperienza in proprio) che il sistemc;i .americano l1a dei difetti: il calabrone non potrebbe volare eppure vola, diceva il Galbraith di The American Capitalism; il calabrone continua a volare, ma le sue ali sono ammalate e bisogna curarle al più presto, ha scritto il Galbraith di The Affluent Society. Abbiamo imparato, cioè, che non si possono affro·ntare il presente e l'avvenire con la « regola del nonno », non si possono affrontare i problemi di una società opulenta, o che tende ad essere tale, come se ci si trovasse in una società misera. Ma i difetti del sistema sono agevolmente riparabili senza una trasformazione radicale del sistema stesso: e il compito storico della democrazia americana, ossia della società che ha raggiunto il più alto grado di opulenza, é appunto di provare ciò, di provare che un'economia ricca, la quale rischia di diventare un'economia di spreco, può essere corretta poiché nelle società democratiche vi sono le forze politiche capaci di farlo; di dimostrare, insomma, che il nostro sistema non é soltanto più umano dell'altro, ma é anche capace di diventare ancora più umano, e di tagliare alle radici quella crisi di fiducia in se stesso che costituisce, oggi, la vera debolezza del mondo occidentale. Se l'Amninistrazione democratica avesse imboccato la strada che s'è detta non solo avrebbe operato per un compito che era all'altezza delle energie morali che aveva suscitato negli Stati Uniti, ma avrebbe anche mostrato che gli Stati Uniti medesimi, come già ai tempi di Roosevelt, erano il più grande laboratorio di esperimenti democratici per sè e per tutti gli uomini. Ma Galbraitl1 è stato nominato ambasciatore in India ... Quest'ultima considerazione ci porta a parlare della politica estera di Kennedy. Anche qui le realizzazioni dell'Amministrazione paiono inferiori alle aspettative, e probabilmente sono inferiori a ciò che l' équipe stessa di Ke11nedy pensava di poter realizzare. Dopo l'incontro a Vienna con Krusciov e con De Gaulle a Parigi, e dunque nel giugno dell'anno scorso, Max Ascoli poteva scrivere nel Reporter: « John Fitzgerald Kennedy sta ancora facendo la sua campagna, sta ancora cercando di guadagnarsi la fiducia dei nostri alleati ed il rispetto dell'avversario comunista. Dopo aver incontrato i governanti dei più grandi paesi del mondo e dopo essersi fatto conoscere da loro, egli tornerà a Washington e darà la misura di se stesso ». L'osservazione era acutissima e, se non prendo un grande abbaglio, ricca di sottintesi; e gli avyenimenti successivi fino ad ieri paiono averla confermata. In realtà, molte delle illusioni che Kennedy ed ,i suoi amici- nutrivano sulle possibilità di azione in politica estera sono cadute: i democratici, una 12 Bibliotecaginobianco

Kenriedy, un anno dopo volta conquistato il potere, hanno dovuto accorgersi che una parte almeno di quello che essi consideravano colpevole immobilismo della classe dirigente repubblicana era, invece, un limite obiettivo della situazione; hanno imparato in proprio che il negoziato con l'Unione Sovietica non é soltanto questione di coraggio e di fantasia, ma anche di cose negoziabili, e che i margini di trattativa erano assai più ristretti di quanto non avessero supposto nel calore della battaglia elettorale; ed hanno appreso, finalmente, che la politica verso i paesi sottosviluppati, quando deve passare dalle formulazioni grandiose e generose alle realizzazioni concrete, urta in difficoltà enormi. Come s'è detto, anche per la politica estera, per la definizione del nuovo atteggiamento americano innanzi alla sfida sovietica, Kennedy, dopo aver indicato la necessità di un grande sforzo nazionale, non é parso offrire soluzioni che fossero al livello della tensione psicologica e morale da lui stesso creata. Certo, v'è più di un'argomentazione che si può far valere a favore dell'Amministrazio11e democratica. E la prima é questa: l'esiguo margine della sua vittoria nel novembre 1960. È vero, si potrebbe osservare, che Kennedy ha chiesto al paese di levarsi i11piedi per uno sforzo grandioso; ma é anche vero che quasi la metà del paese é restata seduta ed ha co11tinuato a votare pei repubblicani. Pure, non bisogna dimenticare che il Nixon del 1960 era un pò diverso da quello degli otto anni di vice-presidenza, era, cioè, u11Nixon che, per quanto glielo consentiva la sua partecipazione dell'Amministrazione Eisenhower, si sfor:z;ava di non lasciarsi troppo distanziare dal suo avversario nel profetizzare la necessità di una politica meno immobilistica. I repubblicani avevano perfettamente avvertito che l'umore dell'opinione stava mutando e tentavano di non farsi togliere tutto il vento, dalle vele. D'altro canto, il fatto di essersi lasciato impressionare dal ristretto margine di voti della vittoria non depone a favore della concezione kennediana della Presidenza degli Stati Uniti. Truman nel 1948 ebbe solo due milioni di voti in più del suo diretto avversario, Dewey; e, mettendo nel conto . i due milioni e trecentomila elettori delle due dissidenze, sudista e wallaciana, era addirittura in minoranza! Ma ciò non gli impedì di affrontare problemi internazionali di gravità eccezionale e problemi interni difficilissimi con un senso altissimo del potere e delle funzioni del presidente. Psicologic~mente e politicamente fu uno sbaglio quello di lasciarsi intimidire dal margine limitato di maggioranza e di non agire subito come se quel margine fosse stato assai più elevato. La prova di ciò mi pare fornita proprio dalla facilità con cui Kennedy ha potuto vincere la battaglia dell'acciaio: quando egli- ha parlato con ener13 BiQliotecaginobianco

.. Vittorio de Caprariis gia da presidente, la stragrande maggioranza dell'opinione non ha esitato a schierarsi dietro colui che parlava da presidente senza pensare al .11umero dei voti coi quali era stato eletto. E mi sembra che questa sia u1ì'osservazione che attenua, almeno in parte, la portata dell'altra argomentazione che si fa valere di solito a favore di Kennedy: che, cioè, egli debba fare i conti con un Congresso nel quale il blocco dei conservatori di entrambi i partiti può esercitare un'azione paralizzante su qualsiasi inziativa. Ciò é indubbiamente vero: Roosevelt e Truman si trovarono a dover fro11teggiare difficoltà affatto simili; e perfino Eisenhower dovette, talvolta, fare i conti con il blocco dei conservatori dei due partiti (e Roosevelt ed Eisenhower vincevano le elezioni presidenziali con milioni e milioni di voti di margine e costituiscono un esempio classico di presidenti che hanno fatto eleggere i legislatori trascinandoseli, come usa dire in America, attaccati alle falde della giacca). Ma é anche vero che, quale che ne sia la ragione, Kennedy non ha mai dato l'impressione di voler sfidare il Congresso innanzi all'opinione, di voler usare il prestigio e la forza immensi della Presidenza; e questo é un fatto che non gli ha conciliato la stima nè gli ha procurato il timore dei conservatori delle due Camere. Certo, egli è riuscito ad ottenere più di una volta eccelle11ti risultati aggirando le difficoltà, usando il tatto e la diplomazia i11vece della prova di forza e servendosi di pressioni indirette. Ma v'è un limite alla cautela tattica ed all'astuzia mansueta, che i veri politici conoscono benissimo: nessuno fu più volpinamente dolce e più astutamente arre11devole del Cardinal Mazzarino: ma fu Mazzarino a fare arrestare il prestigioso vincitore di Rocroi, il prinèipe di Condé! Nei suoi rapporti con il Congresso il Presidente Kennedy ha sempre evitate le prove di forza; ma questo non potrà durare a lungo, ed egli dovrà pur battersi un giorno, e clamorosamente, contro il blocco dei conservatori dei due partiti. Il prestigio della funzione presidenziale lo consente; la prudenza politica lo consiglia; il programma l'esige. « Se Kennedy é un intellettuale, é un tipo veramente singolare di intellettuale. La sua mente é più analitica che creatrice, più curiosa e penetrante che ampia e speculativa, più scettica che fiduciosa, più catalizzatrice che originale o immaginativa »: in questo giudizio di J ames Mac Gregor Burns, che si legge in un libro scritto con evidente simpatia per il futuro Presidente, qualcuno potrebbe essere tentato di trovare la chiave dei successi e degli insuccessi del primo anno di Amministrazione democratica. E per chi sia persuaso che l'esercizio del potere, e di un potere come quello del Presidente degli Stati Uniti, esige fan14 BibliotecaginobianGO

; Kennedy, un anno dopo tasia politica, quel giudizio può riuscire alquanto scoraggiante. Ed altre considerazioni si potrebbero fare: ad esempio, che il lungo tiroci11io politico alla Camera dei rappresentanti prima ed al Senato poi non ha certo giovato a Kennedy. La vecchia saggezza politica americana ha sempre suggerito di scegliere i presidenti tra coloro che avevano imparato l'arte politica esercitando funzioni proprie dell'esecutivo invece che nell'attività legislativa: qui c'è forse quel tanto di diffidenza popolare verso i legislatori, considerati a torto dei politicanti piuttosto che dei politici. che é proprio della politica americana; ma v'è anche la coscienza che il lavoro del legislatore alle due Camere federali é un tirocinio che avvezza a diffidare ed a combattere il potere esecutivo, piuttosto che ad intenderne veramente i problemi. È probabile che la permanenza nelle due Camere e soprattutto al Senato abbia accentuato quei caratteri già tipici della personalità di Kennedy a cui appunto accennava Burns: il gusto dell'analisi critica, la tendenza a mediare piuttosto che ad imporre risolutamente il suo proprio punto di vista, la dubbiosità innanzi alle scelte decisive e drammatiche. Si deve aggiungere, tuttavia, che Kennedy ha mostrato, specialmente negli ultimi 1nesi, sicurezza di sè e fermezza di carattere; e che ha sempre dimostrato di saper essere un combattente duro e risoluto, un avversario difficile, che conduce le sue lotte senza esclusioni di colpi e perfino con cattiveria (certi tratti della campagna contro Nixon, che sono riaffiorati nell'attacco alla United States Steel, mi paiono provarlo abbondantemente). Non mi sembra, pertanto, che la lentezza, la relativa passività, l'incertezza, la ritrosia innanzi alle decisioni politiche risolutive, che sono sembrate caratteristiche di questo primo anno di Amministrazione democratica, possano essere spiegate tirando in ballo soltanto o anche soprattutto la personalità del Presidente. Qui la psicologia non solo non conduce lontano, ma può essere addirittura fuorviante. Una spiegazione (ovviamente parziale) può forse essere cercata nel modo con cui Kennedy e la sua équipe si sono accostati ai problemi (legli Stati Uniti di oggi. Si é già accennato rapidamente alle illusioni che i nuovi dirigenti democratici nutrivano, al momento in cui sono andati al potere, sulle possibilità d'azione internazionale degli Stati Uniti. Essi hanno creduto, ad esempio, che il problema degli aiuti ai paesi sottosviluppati fosse solo questione di coraggio e di denaro; che fosse sufficiente adattare, poniamo, all'America Latina l'esperienza del Piano Marshall per allontanare dai paesi sud-americani la minaccia della nevrosi rivoluzionaria o del comunismo. Ed hanno, perciò, dovuto imparare, per esperienza diretta, che una politica del tipo del Piano Marshall suppone l'esistenza di società che abbiano già percorso un notevo15 Bibliotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis le cammino verso l'assetto moderno, di infrastrutture economiche già abbastanza avanzate, di classi politiche evolute e di quadri tecnici edu- .cati: suppone, insomma, tutto ciò che v'era in Europa nel 1948 e che non c'è, o c'è solo in minime proporzioni, in Asia, in Africa o nell'America Latina. Del pari, nei confronti della sfida sovietica, i dirigenti democratici, se hanno perfettamente inteso che il problema non era soltanto di equilibrio degli armamenti, ma politico e psicologico, si sono illusi, tuttavia, che vi fossero possibilità di negoziato assai più ampie di quante non ne esistessero in realtà, e sono giunti al potere annunciando cose mirabolanti, perché credevano effettivamente di poterne fare qualcuna. Ed anche qui il tempo necessario per prendere coscienza delle realtà effettuale ha ritardato la definizione di una politica americana coerente ed omogenea. Finalmente, non sembra che I'équipe democratica, nel processo di ridimensio11amento delle generose idee della vigilia, abbia inteso tempestivamente che, dati i rapporti di forza e le condizioni attuali di divisione del mondo in zone strategiche contrapposte, la politica estera degli Stati Uniti dipendeva in larga misura dalla politica interna. Il prestigio internazionale degli Stati Uniti, nella gara in corso tra i due sistemi, aumenta non solo per il consolidamento della loro forza n1ilitare o della loro capacità di iniziativa diplo~atica, ma anche in ragione dell'attitudine del sistema americano ad andare oltre i traguardi attuali. Quando gli Stati Uniti dimo~trano, come possono e dev01.10fare, di essere capaci di costruire una società più giusta ed umana di quella attuale, di sapersi muovere oltre le mete formidabili che sono state già raggiunte, l'esemplarità della loro esperienza si traduce in prestigio politico sul piano dei rapporti internazionali ed in rafforzamento del sistema democratico per ogni dove. Non aver compreso tempestivamente questo fatto, pare conseguenza di un difetto di ripensamento della più recente storia del paese e di una certa confusione dottrinaria, che si può notare negli ideologi della « nuova fro11tiera ». L'idea che vi sia una tradizione progressista americana che dura dall'ultimo decennio del secolo scorso, a .cui gli americani degli anni '60 si devono connettere, è un grave errore di prospettiva storica, che porta con sé un grave errore di valutazione politica: in realtà, nella più recente storia americana v'è stata una grande rottura con la tradizione, ed è stata quella del « new deal ». Da allora si sono consumati molti dei temi del progressismo vecchio stile, e nuovi problemi sono venuti in primo piano: « la tradizione politica americana é eminentemente nazionalistica e in massima parte isolazionistica; fieramente individualistica e capitalistica; in una società .integrata e consolidata, che esige responsabilità di portata internazionale, nonché unità, centralizzazione 16 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un anno dopo e pianificazione, le basi tradizionali mutano sotto i nostri piedi ». Queste parole, che il più acuto dei giovani storici americani, Richard Hofstadter, scriveva nel 1948, sono ancora più vere oggi: dalla presa di coscienza delle dimensioni nuove dei problemi della società democratica contemporanea dipende, in estrema analisi, la vittoria del sistema democratico su quello comunista. Pure, a nostro giudizio, commetterebbe un gròsso errore di prospettiva chi credesse di dover dedurre dalla incertezza dell'Amministrazione democratica nel suo primo anno di vita un'incapacità di fondo del1' équipe di Kennedy ad intendere e ad affrontare questi problemi. Come si é già accennato, la ragione principale della relativa passività dei dirigenti democratici é da ricercare nella necessità in cui essi si sono trovati di consumare le illusioni che s'erano da se stessi creati nella lunga vigilia, di familiarizzarsi con la realtà concreta, di misurare la distan.za che separava tale realtà dalle loro speranze, e, finalmente, di adattare i loro piani alle possibilità di azione effettiva. Questo é vero innanzi tutto sul pia110 della politica internazionale: qui la nuova direttiva di un accordo generale con l'area del Mercato comune (le quali sono intervenute subito dopo le pressioni americane sull'Inghilterra perché questa entrasse a far parte del MEC) e gli accenni, contenuti nel Messaggio sullo Stato dell'Unione, ad un rilancio della Comunità Atlantica come comunità economica, se non addirittura come comunità politica, nello spirito dei lavori del Comitato Acheson, danno il senso che l'Amministrazione democratica, dopo aver esitato e meditato, ha scelto finalmente la strada giusta. Il mondo sottosviluppato, il terzo mondo, è diventato, nella strategia di Washington, l'obiettivo di una politica a lunga scadenza, che gli Stati Uniti non vogliono fare da soli e che comunque non é, e non può essere, alternativa alla politica di solidarietà con l'Europa. La speranza che clamorosi rovesciamenti di fronte nel settore dei « non-impegnati » potessero verificarsi rapidamente e soprattutto che fosse possibile stabilire una politica coerente e ferma con paesi che per le loro condizioni interne non possono averla e pei quali l'immaturità politica dei ceti dirigenti si esprime sovente in prese di posizione irrazionali ed emotive, questa speranza si è rivelata illusoria; e al suo posto va maturando la consapevolezza che la strategia politica verso il terzo mondo é quella di un'azione lunga e difficile, complessa e ricca di articolazioni, e che passa per il rafforzamento e lo sviluppo in senso democratico del sistema atlantico. Analoghe considerazioni si possono fare anche per la politica interna. I più acuti osservatori politici americani si accordano nel ritenere che l'Amministrazione non ha affatto rinunciato ai suoi programmi « so17 Bibliotecaginobianco

Vittorio de Caprariis ciali », ai piani di costruzioni di case, di assistenza medica gratuita e di potenziamento del sistema scolastico, ma li ha soltanto accantonati per doppiare il 1962, che, com'è noto, é un anno di elezioni di « midterm ». D'altro canto, l'impegno che il governo ha spiegato e sta spiegando presso il Congresso per far passare le leggi che prevedono la liberalizzazione dei rapporti comrnerciali con l'area del MEC e quelle sulle riforme fiscali e sulla detassazione a favore dei redditi destinati a nuovi investimenti discriminati, non solo n1ostrano che l' équipe democratica si sta avvicinando ai grandi problemi dell'economia americana (utilizzazione piena dell'apparato produttivo e disoccupazione) e pone alcune premesse per una programmazione degli investimenti elastica ed insieme razionale, e fondata su alcune scelte di priorità; ma mostra110 anche che essa sta superando il complesso d'inferiorità nei confronti del Congresso e si accinge a gettare nella bila11cia il peso della Presidenza. E da quest'ultimo punto di vista, proprio l'episodio da cui abbiamo preso le mosse per la nostra analisi, l'episodio, cioè, della battaglia dell'acciaio, é strettamente significativo; e può essere (ed é augurabile che sia) il preannuncio di un nuovo stile nell'esercizio dei poteri presidenziali da parte di Kennedy. Del resto, anche l'attacco che il Presidente in persona ed alcuni dei suoi collaboratori hanno la11ciato 11el novembre scorso contro i raggruppamenti di estrema destra é indizio di questo stile nuovo cui si é appena accennato. Col denunciare la tracotante irresponsabilità e l'insipienza politica di gruppi come la John Birch Society, col ricordare all'opinione come essi sostanzialmente tradiscano i veri interessi del paese, Kennedy é parso assumere quella posizione di leader politico cl1e é propria del Presidente degli Stati Uniti. E qui vorremmo ricordare a quanti in Italia prendono scandalo e menano scalpore per l'esistenza in America della John Birch Society e di raggruppamenti affini, che il prezzo che bisogna pagare per la libertà di tutti è anche l'esistenza di siffatte organizzazioni; e vorren1mo ricordare, altresì, che allo stato dei fatti esse non rappresentano quasi nulla e non rappresenteranno nulla fino a quando saranno criticate e combattute, come sono attualmente criticate e combattute, da entrambi i grandi partiti. Non si dimentichi che il fenomeno del maccartismo poté assumere le dimensioni che assunse perché il partito repubblicano, con alquanta irresponsabilità, fece propri alcuni dei temi del senatore del Wisconsin nella campagna elettorale del '52, e tollerò, poi, fino al '54 , gli isterismi di quel senatore e degli amici di lui; ma che il fenomeno cessò di essere politicamente rilevante allorché il partito repubblicano stesso, che pure l'aveva in parte avallato, prese a combatterlo. A un anno di distanza, o poco più, dalla sua ascesa al potere, dun18 Bibliotecaginobianco

Kennedy, un anno dopo que, la classe dirigente democratica americana sembra aver superato il trauma psicologico e politico dell'assunzione delle responsabilità di governo, e sta avviando una politica nuova, di cui si possono già intravvedere le principali linee direttrici. Ma c'è qualcosa d'altro che è necessario segnalare e valutare, perché può essere di primaria importanza per la crescita del partito democratico. Si tratta di uno di quei fatti che i nostri corrispondenti non usano rilevare, e che, tuttavia, è più rilevante di molti dei fatti di cui essi ci danno di solito notizia: una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti. Con una maggioranza di sei a due i giudici della Corte hanno, per la prin1a volta nella storia americana, adottato il principio che le corti federali sono competenti a decidere sulla distribuzione dei seggi delle assemblèe legislative degli Stati, quando tale distribuzione implichi una violazione dei principi della Costituzione federale. Questa decisione appare subito di estrema importanza a chi ricordi che nelle legislature statali la distribuzione dei seggi è stabilita in base a leggi o regolamenti che non sono state rivisti da decenni ed in qualche caso addirittura da un secolo. Il che vuol dire che la composizione di quelle assemblee legislative è anteriore, per così dire, al fenomeno dell'urbanizzazione, che ha rivoluzionato la distribu_zione della popolazione statunitense; e che quindi le campagne sono sovrarappresentate, mentre le città sono sottorappresentate. L'esempio- . limite è la California: qui l'eletto della Contea di Los Angeles al Senato statale rappresenta sei milioni di cittadini, mentre un suo collega ne rappresenta solo quattordicimila! Questo è certamente il caso più clamoroso; ma le analisi statistiche dell'Università di Virginia· hanno mostrato che 11ella maggior parte degli Stati la popolazione rurale è notevolmente sovrarappresentata a danno di quella urbana. E se si tiene presente che le contee rurali sono per lo più repubblicane, mentre le città sono in prevalenza democratiche (sulle quarantuno maggiori città americane ventisette sono a maggioranza democratica contro quattordici a maggioranza repubblicana) si coglie subito l'influenza che la decisione della Corte Suprema può avere sulla vita politica del paese: la fisionomia delle legislature statali può essere profondamente mutata a vantaggio dei democratici. Ma l'analisi delle possibili conseguenze di questa sentenza sarebbe manchevole se non si ricordassero altri due fatti notevolmente importanti: innanzi tutto che l'ossatura fondamentale dei partiti americani è a base statale e non federale: il che vuol dire che un rafforzamento della rappresentanza del partito democratico nelle legislature dei singoli Stati implica un notevole rafforzamento del partito stesso e delle sue « macchine » statali, e ciò non potrà non avere influenza anche per le 19 Bibliotecaginobianco

• Vittorio de Caprariis elezioni presidenziali. In secondo luogo, i gruppi democratici urbani sono in generale più progressisti di quelli rurali; e quindi il loro raffor- ·zamento nelle legislature statali può portare ad un rafforzamento dell'ala progressista nel partito. lnsomn1a, le conseguenze ultime della sentenza del marzo scorso potranno essere: un consolidamento delle macchine del partito democratico nei singoli stati e quindi della superiorità numerica del partito nel paese; ed uno spostamento nel rapporto di forze tra conservatori e progressisti nell'ambito del partito stesso a vantaggio dei secondi: fatti, entrambi, che non potrebbero non riflet- ·tersi anche sulle elezioni presidenziali e sulla composizione del Congresso. Si tratta, ovviamente, di sviluppi che non si vedranno nel giro di un mese o di un anno, ma che chiederanno un pò di tempo per realizzarsi; ma si tratta di sviluppi importanti, pur se sono come nascosti nelle pieghe di un difficile formulario giuridico. - Anche da questa importantissima decisione della Corte Suprema mi pare che si possa trarre un'indicazione dell'umore democratico americano attuale e dell'atmosfera psicologica e politica nella quale l'équipe di Kennedy sembra accingersi a muovere veramente verso la nuova frontiera. VITTORIO DE CAPRARIIS 20 Bibliotecaginobianco

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