Nord e Sud - anno VI - n. 61 - dicembre 1959

Rivista mensile diretta da Francesco Compagna ANNO VI * NUMERO· 61 * DICEMBRE 1959 Biblioteca Gino Biancò

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Rìvista mensile diretta da Francesco Compagna Biblioteca Gino Bianco

SOMMARIO La Redazione Paolo Ungari N.d.R. Angiolo Bandinelli Riccardo Barletta Giuseppe Ciranna Editoriale [ 3] I democristiani e lo Stato [7] Il diritto dei partiti [15] GIORNALEA PIÙ VOCI L'unità· del P.R.I. [37] Il moralista e la « massa >> [38] Paradossi di Napoli artistica [ 41] Paradossi di Napoli politica [ 44] DOCUMENTI Felice Ippolito Il programma nucleare italiano nel quadro della collaborazione Stati Uniti-EURATOM [ 48] INCHIESTE Domenico Tarantini L'analfabetismo in Italia [55] Giovanni Terranova Mino Vianello IN CORSIVO [90] PROPOSTE E COMMENTI Le alternative eco11omiche del disarmo [98] Industria di massa e opportunità di promozione [104] RECENSIONI Vittorio de Caprariìs La rivoluzione di Roosevelt [111] Una copia L. 300 • Estero L. 360 Abbonamenti 1 Italia annuale L. 3.300 eemestrale L. 1. 700 Estero annuale L. .f..000 semestrale L. 2.200 Effettuare i .-ersamenti &o I C.C.P. n. 3/34552 intestato a Arnoldo Moudadori Editore • MiBano Biblioteca Gino B.ianco CRONACA LIBRARIA [118] DIREZIONE E REDAZIONE: Napoli - Via Carducci, 19 - Telefono 392.918 DISTRIBUZIONE E ABBONAMENTI: Amministrazione Rivista • Nord e Sud • Milano - Via Bianca di Savoia, 20 Telefono 851.140

• . ' I Editoriale Allo stupore per il discorso dell'on. Togliatti al Teatro Adriano di Roma, per il suo elogio dei timonieri dalla grinta dura e dalla maniera forte è succeduta, 11eiconimentatori di cose politiche, una singolare e per noi incomprensibile euforia. I comunisti, si argomenta, temono la distensione poichè questa li mette in difficoltà nel Paese, impedisce loro la polemica contro i cosiddetti fautori di guerra, toglie dalle loro vele il vento della causa pacifista. E i leaders comunisti, si aggiunge, temono qualcosa · ancora peggiore: che, cioè, in una situazione diventata flui da 11,elPaese, ammainati i pennoni della guerra di religione contro il capitalista guerra- ! ondaio, una grossa parte dell'elettorato del PCI rifluisca su posizioni riformiste. Non si è l'on. Togliatti opposto, nell'ultimo Comitato Centrale, agli eccessi innovatori di certi suoi compagni? E non ha silurato il progetto di Novella? E non ha sollecitato ad una platea amica l'applauso per S,talin? E non batte e ribatte sul chiodo socialista facendo quasi presentire a Pietro Nenni la qualifica di socia/traditore? A noi sembra che questo ottimismo è, a dir poco, frettoloso ed eccessivo. Poichè, se è vero che l'atmosfera di distensione internazionale· può dare qualche difficoltà al PCI, è vero anche che i leaders di questo possono guardare ad altri aspetti della situazione, di quella interna soprattutto, e trarne motivo di soddisfa.zione. Tra il 1953 ed il 1958 il comunismo italiano ha digerito il XX Congresso del PCVS, il rapporto segreto Krusciov, la destalinizzazione; ha digerito la rivolta degli operai di Berlino Est, gli scioperi tedeschi del 1955, la sanguinosa repressione della rivolta ungherese. Tra il 1953 ed il 1958 v'era stato un mon1ento in cui pareva chç lo smarrimento dei vertici e il disagio della base dovessero tramutarsi in crisi aperta, un momento in cui pa~eva che le fortune del P.C.I. si avviassero veramente al tramonto: e tuttavia alla scadenza elettorale del 1958 esso ha visto ulteriormente aumentare i suoi suffragi. Perchè, come, [3] Bi liotecaGino Bianco

il Partito Comunista ha potuto risanare le profonde ferite ed uscire, in qualche modo, rinvigorito? A questa domanda deve esistere, ed esiste, in verità, una risposta razionale: perchè tra il 1956 e il 1958 non si è fatto nulla sul piano della politica interna italiana per allargare ulteriormente le lesioni che s'erano verificate nella compattezza del P.. C.l., per tramutarle in brecce, di crepe che erano; non si è fatto nulla per cogliere tempestivamente le occasioni, che si presentavano per dar battaglia ai comunisti nel momento in cui erano in manifeste condizio1ii d'inferiorità. Diremo di più: si è fatto tutto ciò che si poteva fare per aiutarli a risalire la china, al punto che molti, sgo1nenti dell'insipienza di coloro che lasciavano trascorrere le occasioni, giunsero a teorizzare che alla D.C. tornasse più utile un partito comunista forte che un partito comunista debole. È stato l'immobilismo prima, l'involuzione poi, della situazione politica italiana tra il '56 ed il '58 che ha consentito al P.C.I. di superare la crisi. Le respon- - . sabilità sono ancora una volta ben suddivise, e non v'è nessuno, dai liberali ai socialisti, che ne sia esente: ma il discorso sulle responsabilità non porta molto lontano e, quel che è peggio, non cambia i fatti. La situazione attuale di politica interna rassomiglia molto, quanto alla sostanza, alla situazione che s'era creata tra il '56 e il '58 ( governo Zoli per eserr,ipio), ed anzi, dal punto di vista dei comunisti, è ancora più vantaggiosa. Per impensieriti che potessero essere dalle prospettive della distensione, i leaders comunisti han tratto un gran respiro di sollievo vedendo l'esito del Congresso Democristiano di Firenze. La vittoria a Firenze della coalizione di centro-destra, infatti, assicurando la sopravvivenza dell'attuale formula di governo, e della più o meno scoperta apertura a · destra che la sorregg·e, crea spazio prezioso per le ma1iovre comuniste. L'on. Togliatti può minacciare quanto vuole un salto della quaglia sulla testa dei socialisti, può proporsi quanto vuole u1z tallonamento assiduo di .questi, ma sa bene che u1za politica di questo genere presenta difficoltà obiettive, che potrebbero riuscire addirittura insormontabili: mentre i socialisti potrebbero, ad esempio, dare il loro appoggio ad una politica europeistica, i comunisti non potrebbero farlo mai. Cosa vuol dire ciò se non che un mutamento della formula di governo, e dunque un'aggressiva politica di centro-sinistra, ridurrebbe le possibilità di manovra dei comurtisti, agevolerebbe il loro isolamento? Allora veramente i coraunìsti rischierebbero di pagare anche il passivo della distensione, poichè lo sbloccamento . [4] Biblioteca Ginò Bianco I

della situazione all'interno, l'inizio di un'audace politica riformista, f unzionerebbero da acceleratoridi una loro crisi. Oggi, invece, l'esistenza di un governo che si regge coi voti della destra monarchica e neofascista dà al P.C.I. la possibilità di denuncia di un'involuzione grave del regime democratico; con questo governo il P.C.l. evita il pericolo dell'isolamento, poichè non solo i socialisti sono costretti all'opposizione più intransigerite, ma la forza di attrazione del comunismo stesso risulta accresciuta e potenziata anche nei confronti di forze che rton hanno mai soggiaciuto alle lunsinghe frontiste. Per il P.C.I., il passivo della distensione può perfino diventare un attivo; poichè attenuato il contrasto ideologico-politico di fondo in una situazione internazionale in movimento, alcuni settori dello schieramento democratico di sinistra, radicalizzati dall'involuzione governativa, potreb-- bero perfino essere attratti dal mir~ggio frontista. Il ragionamento politico dei leaders del P.C.I. ci sembra addirittura di una logica elementare ( e ci stupisce che si sia fatto tanto rumore di pronostici e di interpretazioni): tentare di superare, grazie all'involuzione della situazione interna, le difficoltà di adattamento clze la distensione potrebbe comportare. Ecco cosa significano gli accenni dell'on. Togliatti alla durezza delle future lotte sociali che si avranno nel paese; ecco cosasignifica la sua allusione ai timonieri dalla mano ferma. Alle prossime elezioni amministrative, se resta ferma l'attuale situazione, il P.S.I. probabilmente segnerà qualche regresso, perchè una parte dell'elettorato giudicherà fallita la sua prospettiva, mentre il P.C.l., avvalendosi degli argomenti che si sono detti, progredirà ulteriormente1 : allora le preoccupazioni di crisi saranno superate e vedremo probabilmente l'on. Togliatti in persona offrire a tutti democratici italiani... quel piano Novella che ha osteggiato in sede di Comitato Centrale. Ed è appena necessario aggiungere che sar~ nel Mezzogiorno che i -Comunisti faranno il loro massimo sforzo; sarà nel Mezzogiorno che essi registreranno i maggiori aumenti di voti. Qui l'apertura a destra è un fatto, nei comu-ni, da assai più tempo che nel paese; qui viene pagato il prezzo dei voti dati in Parlamento dai monarchici; qui le gravi ipoteche c_onservatricci he gravano sulla politica del governo ~ dal rallentamento di una politica di sviluppo del Sud al tripudio masochistico della Confindustri~ ---1 si mostrano in tutta la loro·ampiezza. I « Comitati di Rinascita >> forse, sono uno strumento fuori uso, ma la formula regge ancora in sede I ' [5] - iblioteca Gino Bianco

di demagogia elettorale e il successo dell'operazione Milazzo può galvanizzare le 1nasse comuniste del Mezzogiorno. D'altra parte la Democrazia Cristiana si presenta alleata a tutte quelle forze reazionarie quali solo un paese sottosviluppato riesce ad esprimere, e i partiti di democrazia moderna son ridotti a piccoli nuclei praticamente inoperanti ed incapaci di offrire un'alternativa. Chi crede che la distensione d'issuaderà il sottoproletariato meridionale dal votare il P.C.I. per esprimere la sua protesta contro un governo co1iservatore che abbandona il Sud nelle mani dei monarchici e dei neofascisti, chi crede ciò appartiene a quegli uomini che Dio vuol perdere ed a cui, perciò, toglie il senno. Come nel '53, come nel '58, il partito comunista compenserà coi guadagni meridionali le lie11issime flessioni che registrerà al Nord e potra presentarsi ancora una volta al paese come la sola forza di sinistra che può guidare l'opposizione al prepotere de1J10cristiano. I coniunisti restan,o og·gi la più pesa11te minaccia allo .sviluppo democratico del paese·: è doveroso aggiungere, però, che in Italia, da parte soprattutto della D.C., della cosidetta destra econo1nica ( se ne vedano i vari giornali), si sta facendo il possibile perchè questa minaccia divenga ancor più grave. Noi non crediamo che dietro ciò vi sia addirittura il calcolo machiavellico di chi vuol giu1igere al punto di rottura, per essere poi giustificato a instaurare un regime autoritario, un fascismo morbido, una soluzione di tipo spagnolo; crediamo che v'è solo la più macroscopica insipienza politica. Ed è 1ioto che questa è, di solito, pit't rovinosa di tutti i machiavellismi. Che poi molti dei protagoriisti si cullino nell'illusione che la politica di distensione possa provocare seri i danni alle prossime f ortune politiche del P.C.I. è un,aprova di più di tale insipien.za: aegri sommia. E i sogni dei malati, si sa, non fantzo politica. Il prossimo numero di « Nord e Sud» sarà edito a Napoli, nella nostra città, a cura delle Edizioni Scìentifiche Italiane: così potremo ayvalerci di tutti i vantaggi che derivano dalJa vicir1anza fra il luogo dove la rivista si scrive e il luogo dove essa si stampa; e potremo essere più tempestivi nel com.mento, più aggiornati nell'informazione. Cogliamo l'occasione per esprimere i nostri vivi sentimenti di gratitudine ad Arnoldo Mondadori e ai suoi collaboratori: ad essi infatti si devono la nascita di « Nord e Sud » e i suoi primi cinque anni di vita. Ringraziamo aitresì i nostri lettori, e in particolare i nostri abbonati, al giudizio dei auali ci ripresenteremo nel mese di febbraio con il primo numero della nuova serie~ [6] Biblioteca Gino Bianco

.. I democristiani e lo Stato de La . Redazione • Non sembra che molta attenzione sia stata tributata dai commentatori di cose politiche al breve discorso inaugurale del Congresso nazionale fiorentino della Democrazia Cristiana pronunciato dal senatore Zoli, presidente del Consiglio Nazionale uscente, e soprattutto all'affermazione centrale di tutto tale discorso : che i democristiani, cioè, poteva110essere divisi su tutti i problemi, ma su una cosa sola s'accordavano volentieri, sul fatto che lo Stato liberale non era più il loro Stato. E' stata, questa, un'affermazione che le cronache han110 detta sottolineata da applausi del Congresso medesimo. A parte l'inchino d'obbligo dell'on. Moro, nella sua relazione, ai liberali come creatori principali dello Stato italiano (ed evidentemente il Segretario della D. C. si preoccupava, con esso, assai più di lasciare aperta una possibilità di accordo politico coi presunti eredi della tradizione risorgimentale che di qualsiasi altra cosa, e certamente non pensava affatto a sottolineare un suo dissenso dall'on. Zoli), non v'è stata nessuna voce dissonante _da quella del presidente del Consiglio Nazionale. Che an~i nella più parte dei discorsi e degli interventi, fossero di uomini di destra, di centro o di sinistra, il medesimo concetto era più o meno esplicitamente confermato: quasi tutti i congressisti hanno lasciato intendere che lo Stato liberale non era l'abito tagliato su misura del cattolicesimo politico italiano, che quest'ultimo ne era assai poco soddisfatto ed intendeva cangiar lo appena possibile. Naturalmente si potevano notare divergenze tra coloro che volevano confezionare subito questo nuovo abito ed altri, i quali mostravano di voler adoperare ancora per qualche tempo quello vecchio (e sarebbe erroneo porre, senza troppe distinzioni, tutti i primi nelle fila della sinistra e considerare tutti gli altri dei moderati); ma tali [.7] BibtiotecaGino Bianco

divergenze toccava110i tempi dell'operazione e non la sua sostanza e dipendevano da contrasti su opportunità tattiche piuttosto che da diversità ideologiche. Quanto al fondo della questione, quanto, cioè, alla demolizione dello Stato liberale come obiettivo finale del cattolicesimo politico italiano, l' on. Andreotti, ad esempio, l;;isciava intravvedere abbastanza chiaramente di essere d'accordo con l'on. Tambroni o con l'on. Sullo. Le vecchie aspirazioni della sinistra di tanti anni fa, della sinistra di ispirazione dossettiana, paiono essere divenute patrimonio comune di tutti i democristiani : Dossetti sembra il vincitore proprio nel momento in cui il suo abbandono della lotta politica è stato come sancito dall'attuarsi della sua vocazione religiosa I · Ora, questa della polemica contro lo Stato liberale è un'idea fissa degli uomini che militano nelle fila dei partiti cattolici i11 Italia (da cui forse il solo De Gasperi - non sappiamo se per la sua provenienza da un paese dove le riform~ giuseppine avevano avuto un'i.µfluenza profonda o per aver bene appresa la lezione del fascismo - era, per così dire, vaccinato): . non sappiamo dimenticare che Luigi Sturzo, nel 1924, quando la dittatura era già praticamente instaurata e si era alla vigilia delle leggi speciali, proclamò che i democristiani di allora, i popolari, non si riconoscevano nello Stato liberale, che erano ad esso estranei e che non piangevano certo la sua perdita. Che poi lo stesso Sturzo nei suoi ultimi anni si sia palesato un difensore strenuo del liberismo economico non può in alcun modo indurre a pensare che l'antico Segretario del P .P. .I. avesse rinunciato alle vecchie riserve: non si può scambiare, infatti, la polemica politica contingente con una revisione dottrinale di primaria importanza. E neppure possiamo dimenticare la tentazione corporativistica che ha sedotto tanti uomini dell'attuale ceto dirigente democristiano, da Taviani a Fanfani, in anni che si vorrebbero considerare lontani, una tentazione che ancora si avverte, a volte, nei loro discorsi, sia pure ad uno stato solta11tovelleitario. Sbaglia chi crede che l'accordo del cattolicesimo col fascismo fosse un fatto puramente tattico o meramente politico, dettato dalla preoccupazione di salvaguardare quell'atmosfera che aveva portato al Concordato o addirittura da spirito di conservazione: nella fumosa velleità fascista di superamento della civilta e dello Stato liberale (qualcosa di cui i fascisti si vantarono assai prima di « inventare >> le dottrine corporative) i cattolici, sia pure a prezzo di qualche volontario equivoco, potevano riconoscere [8] Biblioteca Gino Bianco

la loro medesima velleità di superamento di una struttura jstituzionale che essi avevano avversato nei momenti della sua formazione, non solo e non tanto in nome di un'estrema difesa del potere temporale, ma anche ed anzi soprattutto per un'intima e profonda incompatibilità ideologica. Non è certo questo il, luogo e il momento di rifare una storia (del resto già egregiamente fatta per molti punti) dei tentativi di integrazione del corporativismo cattolico e di qt1ello fascista, e meno ancora di dilung·arsi sull'incapacità congenita, che ha mostrato il pensiero politico cattolico, da un secolo a questa parte, a pensare lo Stato moderno come Stato di diritto e di libertà. Quel che conta rilevare è che gli uni e l'altra vi sono stati ed hanno assai spesso ostacolato l'opera politica dei parti ti cattolici, e paiono permanere ancora oggi, se si deve giudicare dalla polemica st1 questo argomento che ha aduggiato i dibattiti fiorentini dello scorso ottobre. Fino a che punto, ci chiedevamo un po' più di un anno fa, all'indomani delle elezioni del giugno e della costituzione del governo Fanfani, il sogno integralistico di una società compiutamente cattolicizzata e cattolicizzante, dove il dissenso finirebbe fatalmente col diventare eresia e l'eresia reato comune, è pei democristiani soltanto un ricordo del passato? E fino a che punto hanno, i democristiani, compiuta quella conversione dalla << società » allo « Stato >), dal « sociale >) al « politico >), solamente capace di distruggere lo schermo che nel passato è parso frapporsi tra essi e lo Stato italiano? Queste stesse domande vien spontaneo di porsi ancora oggi: e in troppi discorsi pronunciati a Firenze si è data per scontata la fine imminente dello Stato liberale e si è vagheggiata ed annunciata una società interamente « nuova », perchè si possa essere perfettamente tranquilli. Ed anche ammesso che simili annunci e vagheg·giamenti e la congiunta fuga per la tangente della « socialità >) fossero per molti un modo elegante di scivolare sui problemi e di evitare di pronunciarsi sulle questioni politiche più brucianti, fossero, cioè, un modo dì sottolineare i motivi di unità piuttosto che le cause di .contrasto, il fatto resta preoccupante, se non diventa ancora più grave. Poichè se l'unità dei democristiani si dovesse fare veramente nel nome della comune obbedienza religiosa, della visione cattolica della vita e delle conseguenze ideologiche e pratiche che ne derivano, con l'accantonamento, sul piano politico, della civiltà e dello Stato liberali, allora i più gravi timori risulterebbero legittimi. Ma allora, si può essere facili profeti, l'unità dei cattolici sarebbe pagata al [9] Biblioteca Gino Bianco

• prezzo di una rivolta terribile, di tutti coloro che non potrebbero mai ammettere l'antistorica restaurazione di una società, nella quale la fede religiosa sarebbe il cemento agglutinatore e, insieme, la pietra di parag one delle passioni civili, e dalla quale sarebbero di necessità banditi quei valori, dalla libertà di pensiero alla tolleranza, nei quali tutti gli uomini liberi vedono oggi la ragione prima della loro opposizione intransige nte ad ogni regime totalitario, di qualsiasi ispirazione esso sia. Certo, è facile intendere che negli interventi> soprattutto dei delegati del centrosinistra e della sinistra a Firenze (ed anche in quelli di nume rosi dorotei), l'obiettivo polemico principale era il Partito Liberale Italia no: era quest'ultimo che si voleva denunciare innanzi tutto come il campi one strenuo di un dottrinarismo e di una politica sostanzialmente incompatibili con le aspirazioni di giustizia sociale, <li cui il cattolicesimo pol itico italiano vuole essere assertore. E bjsogna riconoscere che tale polemica può essere giusta e perfino necessaria: la degradazione· del P .L.I. a strume nto di interessi di categoria, l'insi tenza con cui molti leaclers di questo partito e prima di tutti il Segretario, on. Malagodi, difendono le tesi di un ]iberismo estremo ed assurdo, soprattutto l'economicismo dell'attuale impostazione politica liberale, son cose cl1e non si possono mettere in dubb io e che difficilme11te si possono difendere. Il P.L.I. è diventato un partito ostinata1nente ed ottusamente conservatore, cl1e difende, con inconsapevo le e deteriore marxismo, una concezione classista della società, ha subito una involuzione che ricl1iama alJa memoria quell~ dei doctrinaires nella Francia degli anni precedenti la rivoluzione del '48 e che è un tradimento dello spirito perennemente rinnovatore del liberis1no. Il governo che vag heg- . giano oggi molti di coloro che dirigono il Partito Liberale si può de finire con le parole stesse con cui Tocqueville definiva quello degli ultimi te mpi della Monarcl1ia di Luglio: un governo che rassomigli sempre più ad una società industriale, e nel quale tutte le decisioni si prendano in vista degli utili che possono derivarne agli azionisti. Nè val la pena di ricord are ancora una volta ciò che già tante volte si è potuto leggere in questa rivista, sulla gravità di tale fenomeno involutivo per l'equilibrio delle forze politiche e soprattutto per l'avvenire del paese, e di aggiungere ch e lo . spirito autentico del liberalismo non è più in quel partito che si fregia ancora dei no1ni di Cavour e di Giolitti e di Croce, e cl1e meglio fare bbe, [10] BibliotecaGino Bianco

. . 'invece, secondo un detto dell'Omodeo, a porre nel suo blasone la sbarra araldica della discendenza bastarda. E' legittimo, dunque, ed è giusto che la Democrazia Cristiana opponga all'opaco dottrinarismo del P.L.I. la propria ideologia e differenzi la propria posizione politica da quella dei liberali. Ma non è 11ègiusto nè legittimo che essa identifichi i valori e i principi dello Stato liberale col programma del P.L.I.; che essa creda, o mostri credere, che il liberalismo .si esaurisce completamente e senza residui nel Partito Liberale dell'on. Malagodi. In questa troppo sommaria identificazione v'è, nella migliore delle ipotesi, ur1 errore grave e pericoloso, che non si può passare sotto silenzio: poichè indulgere ad essa equivale a disconoscere il carattere autentico del liberalismo e a precludersi, pertanto, la comprensione della vera strada da percorrere per lo sviluppo democratico del paese. Resterà merito e titolo di gloria del Croce l'aver approfondito le intuizioni e gli spunti già presenti nell'ultimo Stuart Mill, in Green, in Tocqueville, e l'aver separato il liberalismo dal liberismo economico della scuola di Manchester e dal1 'utilitarismo di cui questa l'aveva colorito; ]'aver inteso e mostrato che solo rimuovendo la singolare e paradossale tendenza marxistica, la quale portava (e porta ancora oggi alcuni poco avveduti o interessati) ad incarnare un'idea politica in un sistema economico transeunte, si poneva in salvo l'impeto missionario del liberalismo, la sua invincibile vocazione all'espansione, il suo carattere quasi religioso di fede operante, si poneva in salvo, finalmente, l'inesauribile forza morale della libertà. Al di là delle istituzioni storiche transeunti il liberalismo è, esattamente, la coscienza liberale, e cioè progressiva, dell'epoca, il metodo perenne per risolvere concretamente i problemi del secolo, un principio ideale ed attivo che può dar vita ad innumerevoli forze storiche, ma che non si esaurisce in nessuna di esse. E' stato, appunto, grazie a questa genuina ispirazione etico-politica che gli eredi di coloro i quali avevano spezzato i ceppi dei privilegi imposti dalle corporazioni, dai castelli, dal sistema mercantilista, dalle chiese ufficiali o dagli stati assolutistici, hanno potuto scoprire come, nella società contemporanea, nuovi privilegi si fossero potuti creare, non meno ingiusti e dannosi di quelli abbattuti dai padri, meno evidenti forse, ma ancor pi~ oppressivi; come la confusione del potere politico e di qu~llo economico nelle mani di un medesirr10 gruppo avesse dato luogo a nuove feudalità, che, alla stregua delle antiche, erano sollecite soltanto a difendere i loro BibliotecaGino Bianco

privilegi a spese dell'intera comunita. Il pensiero liberale non ha avuto bisogno della sociologia cattolica o del solidarismo cristiano per avvedersi che al castello era succeduto il monopolio e che questo, appunto, era il nuovo nemico da combattere e vincere: e la polemica contro le concentrazioni di ricchezze, contro il prepotere dei ricchi, in nome di una nuova giustizia sociale, che in paesi assai più avanzati del nostro era viva e feconda di risultati già nei decenni a .cavaliere tra i due. secoli, _traeva la sua ispirazione proprio dalla massima liberale, la quale vuole si garentiscano uguali diritti a tutti e che insieme non vi siano, per alcuno, speciali privilegi. Dimenticare tutto ciò per identificare frettolosamente i valori della. civiltà liberale col programma del P.L.I. e liberarsi pertanto dei primi con una facile polemica contro il secondo è, come s'è già detto, un grave errore. Poichè l'esigenza delle riforme, l'ansia del rinnovamento, il senso del sociale, son tutte cose bellissime e necessarie, ma appunto come lievito di una « rivoluzione liberale )): esse sole non bastano a costituire un'alternativa a questa, ed anzi rischiano di disperdere lo sforzo degli uomini in un grottesco velleitarismo o di vanificarlo nella ricerca di una giustizia astratta. Senza la libertà esse non sono che nulla; ed in una società illiberale non bastano a creare la liberta. A noi sembra che l'uguaglianza, l'abolizione dei privilegi, una giusta redistribuzione della ricchezza, sono appena sufficienti a creare i presupposti lontani di un mutamento in una società illiberale (ed è da questa convinzione che deriva la prudenza con cui abbiamo sempre accolto i periodici annunci di svolte e di conversioni alla democrazia del! 'Unione Sovietica!): e, piaccia o no, una società in cui non avessero diritto di cittadinanza i valori fondamentali della società moderna, in cui vi fosse confusione di Chiesa e Stato - a qualunque di questi toccasse il primato -, una società, insomma, che assomigliasse a quella famosa fondata dai gesuiti nel Paraguay, sarebbe profondamente illiberale. Ed a noi sembra, altresì, che in una siffatta serra si spegnerebbe assai presto la dignità dell'uomo, il senso della responsabilità scomparirebbe, le determinazioni virili sarebbero compresse e snervate, e il popolo sarebbe degradato ad un gregge di animali pavidi ed industriosi, supinamente obbedienti al pastore: ed in conseguenza, a lungo andare, scomparirebbe anche il benessere, poichè questo è figljo della risoluzione libera e del rischio, della volontà tesa consapevolmente ed in piena indipendenza al miglioramento, del senso comunitario che scaturisca, senza costrizioni, [12] Biblioteca Gino Bia_nco

·dalla coscienza individuale. Una società che esaurisce nel catechismo e nel solidarismo cristiano la sua carta dei diritti sarebbe perciò una società ·non solo schiava, ma anche misera. Quando i militanti del partito cattolico polemizzano più o meno implicitamente contro i valori della civiltà liberale e si abbandonano, magari inconsapevolmente, alla tentazione integralistica, commettono l'errore di dimenticare le verità elementari che si sono .accennate e, credendo di costruire il trionfo futuro della loro visione della vita, preparano in realtà la sua perdita. Parimenti erronea e pericolosa sarebbe la polemica dei democristiani -qualora il loro rifi11to dello Stato liberale volesse significare il rifiuto dello Stato laico. Anche qui conviene sgombrare il campo àa un falso bersaglio e respingere pregiudizialmente l'identificazione di laicismo ed anticlericalismo. Con l'avvertenza, tuttavia, che in ciò non v'è e non vuole essere un'acquiescenza passiva al mutamento profondo intervenuto nello schieramento delle forze politiche nel paese, ma solo il desiderio di liberare l'ideologia laica da quanto di provvisorio o magari di puramente negativo restava pure di una certa esperienza storica (quella della costruzione dello Stato italiano e dei primi decenni della vita unitaria, che videro i cattolici in un'opposizione strenua e senza quartiere), per restituirla nella sua genuina fisionomia, per insistere innanzi tutto sulla sua efficacia positiva e costruttiva, fuori di ogni equivoco interessato. Non si tratta di una rinuncia alla polemica, dell'accettazione pura e semplice d'una situazione politica che si ritiene data una volta per tutte, ma di trasferire la polemica stessa su un piano oiù elevato, guardando all'essenziale e senza lasciarsi trascinare dalle passioni dell'ora, le quali possono, bene spesso, far perdere di vista la sostanza delle cose. Ora, ridotto alla sua sostanza il laicismo non è solo una certa soluzione del problema del rapporto tra Stato e Chiesa, ma è una dottrina dello Stato e della politica, è, anzi, la dottrina moderna della libertà. Il senso dei limiti di ciascun potere nello Stato e l'esigenza della sua sottomissione ad un controllo giurisdizionale di costituzionalità; la consapevolezza dell'importanza fondamentale e decisiva del controllo politico dell'esecutivo; l' acut_acoscienza della necessità di evitare ogni confusione di potere politico e potere economico e ancor più ogni sottomissione del primo al secondo, e, quindi, della necessità di un controllo di que]le forze economiche privilegiate che tendono al prepotere politico; la coscienza che la vita libera [13] Biblioteca Gino Bianco ,

e democratica si svolge anche, se non sopràttutto, mercè un'armonica circolazione dei ceti, mercè la distruzione dei privilegi, e la progressiva diffusione di una più elevata giustizia distributiva, e la consapevolezza che i poteri pubblici non sono e non possono essere estranei a ciò, non sono e non possono restare da parte ad assistere disinteressatamente alle lotte economiche e sociali e che è, anzi, loro preciso dovere l'intervenire a spezzare i nuovi feudalismi; la coscienza, finalmente, che la Chiesa è solo una parte della società e deve, pertanto, essere contenuta nella sua pretesa di esserne la totalità, e il congiunto principio cl1e se essa non è e non deve essere assimilabile ad uno dei « corpi )) dello Stato, lo Stato a sua volta non è assimilabile ad un « braccio secolare )) ed l1a perciò il diritto e il dovere di tutelare l'assoluta aconfessionalità dei suoi organi; tutto ciò, in cui si riassume l'ideologia laica, non è meno che una dottrina dello Stato liberale~ dello Stato moderno e democratico, in cui circola, audace e feconda, la forza autonoma- della libertà liberatrice. Questo Stato liberale è il nostro Stato: costruito dalle generazioni risorgimentali come una nazione non solo indipendente ma libera e da quelle dell'Italia prefascista, risorto da un quindicennio a nuova e più vigorosa vita democratica, esso resta ancora oggi, nel momento in cui le frontiere nazionali accennano a cadere, il quadro necessario ed indispensabile dello sviluppo politico, economico e sociale del paese, 1 istituzionalizzazione del nostro bisogno di civiltà e di libertà. E fuori di esso v'è soltanto fumoso velleitarismo ovvero opaca servitù. I democristiani che oggi polemizzano contro di esso interrogl1ino pure il loro recente passato e vi cerchino i titoli su cui fondare la loro aspirazione alla direzione della cosa pubblica: vedranno che ciò che resta della loro opera, ciò che giustifica la loro esistenza come partito politico, non è la tentazio11e integralistica o la vocazione solidaristica, ma proprio e soltanto quel che hanno fatto, in compagnia di altre forze politiche, per restaurare quello Stato di libertà che i fascisti avevano diroccato, per rafforzarlo, per farne veramente la casa di tutti. E non poteva non essere così : poichè solo il liberalismo moderno offre il metodo per affrontare le rivoluzioni immani del nostro tempo e la carta che può guidare nelle nuove, perigliose navigazioni che si devono affrontare. [14J Biblioteca Gin.o Bianco '

Il diritto dei partiti di Paolo Ungari I. Malgrado certe apparenze, l'invito rivolto su queste pagine, da Vittorio de Caprariis (1), per una nuova riflessione e ricerca intorno ad alcuni problemi istituzionali delle democrazie - sulla strada cl1e conduce a colmare un vuoto aperto della nostra critica politica - non cade fuor di stagione. Si sperdono lenti gli echi del dibattito sugli « apparati ))' la più appariscente almeno delle sue occasioni prossime: ma senza che si veda raccolto quel frutto di ragionate conclusioni di merito, che era pur giusto sperare da un tema che concentra per così dire in un fuoco molte e inquiete domande sulla vitalità concreta del nuovo Stato italiano. Era asceso, quel tema, sull'orizzonte dell'attualità tra il '56 e il '57, quando 1 'ombra della ~clerosi bttrocratica sembrò stendersi quasi contemporaneamente sui maggiori partiti, e avvolgerli in un silenzio inerte di morte: il PCI in faccia alla rivolta ungherese, il PSI dopo l'ambiguo congresso di Venezia, la DC sotto la « lunga segreteria >> fanfaniana, nella crisi del centrismo e dell'Europa ponevano tutti ai propri militanti dure e perentorie alternative di coscienza. Ma tra questi partjti e i gruppi che sotto la pressione degli avvenimenti cercavano di aprire processi di revisione, di elaborare risposte politiche nuove, di additare iniziative risolutrici venivano in cruda luce alte barriere organizzative: nè era via aperta a tutti la (1) Cfr. Problemi istituzionali della de"!ocrazia moderna, « Nord e Sud ))' giugno 1959, pp. 15-31, nonchè Il problema degli appqrati, ivi, agosto 1957, pp. 23-24, e Ancora sul problema degli apparati, ivi, agosto 1958, pp. 77-82. [15] . Bibliote.,aGino Bianco

fortunosa impresa nenniana di « forare l'apparato >> per ristabilire il colloquio con larghi strati della base. Ne venne un senso di inanità disperata, di non avere altre scelte che l'adattamento conformista o la diaspora eretica. Di qui la spinta a risalire ai profili istituzionali della crisi politica, ponendo un appassionante tema di revisione della democrazia. Il contrasto immanente tra lo Stato libero rappresentativo e istituzioni che ne appaiono spesso, nella struttura e nel costume, la negazione in atto - sovrapponendo una propria e ben altrimenti imperiosa legalità a quella parvente delle « Carte >> - non era motivo nuovo alla pubblicistica italiana. Ma nuovo era che si abbandonasse il terreno generico (e qualunquistico) delle denunzie contro la « partitocrazia )), per affrontare, in base ad amare e vissute esperienze, precisi problemi di strutture e di garanzie democratiche. Si intende che quello delle burocrazie di partito, e del loro controllo, doveva valere solo come un punto prospettico, un'apertura iniziale su un orizzonte infinitamente più ampio. Ma con i primi mesi del 1959 la sconfitta dei « morandiani )) al congresso socialista di Napoli, e poi la dilacerazione del blocco maggioritario fanfaniano nella DC sono venuti, per molti, come a disperdere un'artificiosa atmosfera di inct1bo. L'utilità stessa di ogni ulteriore discussione è parsa cadere : almeno per chi sia disposto (ma a noi par duro) a tenere preventivamente fuor del conto il Partito Comunista Italiano. Gli apparati, si è cominciato a ragionare, riescono in definitiva impotenti a reggere gli urti della libera lotta politica: nessuna << macchina >) può illudersi a lungo di tener sequestrata nel proprio ambito l'intera vita politica di un partito, o imporre la propria dinamica contro quella obiettiva dei grandi problemi interni e internazionali. Le trincee burocratiche offrono solo un certo margine di resistenza, utile del resto a garantire la stabilità dell 'indirizzo politico di un partito contro svolte che abbiano per sè solo il rumore del giorno : ma non la sicurezza. Consolatorie (o piuttosto alibi accomodanti) di questo genere si appellano al sentimento della realtà, e sono astrattissime. Se anche non transitoria, la sconfitta degli apparati ben poco prova intorno alla crisi più profonda delle strutture dei partiti, della quale intanto si è presa coscienza. . Più che gli strumenti di una maggiore efficienza, gli apparati stessi appaiono un indice, e un aspetto, della universale decadenza della « democrazia interna )> : il mezzo materiale con cui si opera giorno per giorno la salda- [16] Biblioteca Gino Bianco ' .

tura puramente pragmatica di squilibri istituzionali più vasti e complessi, le cui radici vanno ricercate ad altri livelli. Intuizione che è poi anche nel linguaggio politico corrente, quando dilata l'uso del termine « apparato >> ben al di là di funzionari di prof essione o della « macchina >> nel senso • tecnico. Negli apparati si è finito col simboleggiare, in certa letteraturà, ogni debolezza organica della democrazia: l'altra faccia del disinteresse degli italiani per la politica, che prende corpo in esangui generalità sociologiche, volto muto di un potere sentito formarsi fuori dell'intervento e della partecipazione dei molti. Si materializza la propria estraneità ideale in un feticcio, nei confronti del quale ci si atteggerà poi, volta a volta, a rivolta impotente, a mistica adesione, a inerte rassegnazione. Visioni allucinate, che proiettano all'infinito, in una dimensione mitica, un senso di sconfitta: .alibi per trarsi fuori del terreno reale della lotta politica, o scintillanti paraventi dell'incapacità a organizzare e guidare alla lotta forze collettive. -- Chi invece sa distogliere lo sguardo da quei volti di Medusa, si volge ,a una concreta ricognizione di tutte le caratteristiche delle burocrazie di partito. Ma i tratti veramente comuni sono pochi: partiti dove non esiste come potenza a sè l'apparato, anche se non per questo più democratici; partiti dove i funzionari sono esclusi dalle responsabilità dir~ttive politiche; partiti, come il comunista, dove anche statutariamente attorno alla figura del << rivoluzionario di professione >> ruota tutta l'attività interna. Generale, invece, è la profonda alterazione nel rapporto tra le centrali politiche nazional1 e le organizzazioni locali, rispetto all'immagine che viene dalla tradizione e che custodiscono gli statuti. C'è una tendenza, n~lla pratica, a fare dei segretari provinciali piuttosto gli agenti delle direzioni nelle province, che i responsabili di un'attività autonoma. Le centrali nazionali sentono che il successo della propria azione politica dipende da una pronta e uniforme esecuzione di direttive a tutti i livelli e in tutto il paese, che ci si sforza di sottarre alla sorte mutevole delle elezioni di base: necessità oggettiva, cui finisce col piegare la « democrazia interna >>. Nascono una disciplina e una coesione nazionali, e il partito stesso come realtà na~ionale piuttosto che federazione di località: e parte di qui lo sviluppo, -anche indipedentemente dalla presenza di burocrazie professionali, di una « funzione » esecutiva, assicurata da una struttura che, quale che ne sia la veste formale, è gerarchica. Dove non vengono incanalate in serie di- [17] iblioteca Gino Bianco

stinte di organi, le due correnti di forza ( « dall'alto )) e « dal basso )) si intrecceranno confusamente: ma la prima guadagna ovunque terreno, portato di sviluppi obiettivi della lotta politica, e di una vasta centralizzazione di poteri economici, burocratici, sindacali, che, riflettendosi nei partiti, non tollera più le antiche autonomie di località e di settori. Affannarsi a innalzare ostacoli ed argini provvisori su questo cammino, che è necessario, è sforzo inconcludente. Freni, regole, controlli di nuovo tipo a garanzia della libertà, si dovrebbero invece studiare in rapporto alle _ dimensioni nuove del problema: affinando, ad esempio, le procedure di formazione delle direttive politiche nazionali, e le tecniche del controllo sulla loro esecuzione: e non ostacolandola, quella formazione, o circoscrivendone (solo nei desideri, del resto) la portata. Non è questione, insomma, di escogitare espedienti empirici contro il prepotere degli apparati: ma di sviluppare il tema politico e giuridico del « partito moderno )) in una articolazione istituzionale e in una « dottrina )) dell'organizzazione democratica, che siano frutto di concreta intelligenza dei processi in atto. Estranei a quest'ordine di problemi si tengono invece, per primi, coloro che vivono quotidianamente l'esperienza dei partiti. Ancora recentemente Umberto Segre (2) mostrava come ·le nuove teorie dell'on. Fanfani intorno alla « base ))' vista come istanza mistica risolutiva del contrasto tra i vecchi « notabili )) e i giovani « federali )) nella Democrazia Cristiana, si aggirino inconsapevolmente intorno alla problematica leninista, del « centralismo democratico )) come sintesi fra la spontaneità della base e l'azione programmata delle avanguardie. Una breve storia delle polemiche statutarie fra le correnti della D. C. sarebbe anche la più incisiva critica all'astrattismo dei rimedi chiesti all'empiria, ponendo in luce l'ironia tutta propria al diritto, del coordinamento sistematico delle norme che rivela e punisce l'incoerenza degli orientamenti pratici. Se la « democrazia interna )> non vuol restare soltanto una aspirazione, le enunciazioni ideologiche e moralistiche devono tradursi in garanzie di ordine obiettivo, in richieste di istituti giuridici positivi. Ma la strabiliante procedura delle fasi finali del congresso di Napoli del P.S.I. (dove Nenni aveva ripreso assai felicemente, in polemica .con i « morandiani », la denunzia di Carlo (2) Il pomo della discordia, ne « Il Mondo » del 4 agosto 1959. [18] Biblioteca Gino Bian.co

Bo contro le organizzazioni cattoliche italiane, « ove tutto funziona e nulla vive ») o le vicende del precongresso giovanile di quel partito stanno a mostrare che in fatto di diagnosi e rimedi del male siamo ancora al livello della pratica stregonica e delle lamentazioni propiziatorie. II. L'intera questione va dunque ripresa ad un punto più alto: tornando a considerare, ad esempio, alcune proposte « azioniste )) del periodo clan-- destino - e poi degli scrittori di « Stato moderno )) al tempo della Costituente - tendenti a riconoscere ai partiti esplicite responsabilità costituzionali e a dettarne nello stesso tempo un'ampia e organica disciplina (3). In ogni caso, il punto di partenza andrà cercato nella sfera della Costituzione: non nel senso di trarre formali corollari legislativi da questo o quel!' articolo della « Carta )) del 1948, ma nell'altro, di ricondurre ogni soluzione (3) Cfr. l'ampia analisi di Mario Paggi, col titolo Assemblee costituzionali e· partiti politici, in « Stato moderno », 20 maggio 1946: « Ma fra quei partiti (i partiti "di comitati") e quelli odierni c'è la stessa differenza che passa tra la fragilità dell'infanzia e la durezza della virilità ... nè si pensava ad una organizzazione "totalitaria",. come quella che si profila adesso; né dietro ai partiti c'erano pile di libri, analisi sottili ed esegesi minute, sicchè il passaggio da un partito all'altro era cosa che impegnava, a dir molto la coscienza, e quasi mai il cervello, la cultura, la fatica di una vita .... Questo fenomeno è uscito ingigantito dall'esperienza del partito unico, tanto che men-· tre cosiffatti organismi si incontrav_ano prima soltanto presso i partiti proletari, oggi essi si sono estesi a tutte le organizzazioni politiche, anche dei ceti più schiettamente conservatori. .. Tutto questo naturalmente è scritto non in odio ai partiti, la cui esistenza e il cui funzionamento sono strettamente necessari in una democrazia, ma perchè la responsabilità sia tutta dei responsabili, e il potere degli organi dello Stato. A questo punto dell'indagine il problema potrebbe naturalmente allargarsi. Non è forse giunta l'ora di disciplinare giuridicamente i partiti? E nel caso positivo, non si possono trasferire giuridicamente ad essi poteri costituzionali, a impedire che se ne impossessino di fatto? E tutto ciò non potrebbe avere riflessi decisivi sul tipo costituzionale da costruire? Se si vuole uno Stato nuovo, bisogna guardare alla realtà nuova ». Per altri suggestivi spunti di « Stato moderno ))' vedi Mario Paggi: Il governo e i partiti, 5 luglio 1945; La crisi dello Stato, 20 dicembre 1945; Sondaggi, 5 luglio 1946; Un attentato e parecchi problemi, 20 agosto 1948. (19] ibliotec-a Gino Bianco

' dei singoli problemi di struttura dei partiti politici nell'ambito di una precisa visione costituzionale. Una Costituzione, se è così viva, non si intende se non come attivo processo di realizzazione dell' « idea >> che la regge fin nelle istituzioni <<-private >). In difetto di quest'intima aderenza dei partiti alla Costituzione (che segua per spontaneo conformarsi al suo spirito o per disciplina di -legge) non esiste Stato rappresentativo: si spezza l'organicità del processo 1nediante il quale l'infinita molteplicità della libera azione · pubblica dei singoli si converte nel volere unitario dello Stato. L'altro presupposto di una corretta impostaziÒne del problema è nella precisa cono•scenzadella storia statutaria dei partiti politici italiani. Jl « progettismo >> astratto che ha eccitato le fantasie nel corso del dibattito sugli .apparati nasce da inconsapevolezza storica di quelle battaglie per la « demo- "crazia interna >> che sono state impegnate, e più di una volta anche vinte, nel secondo dopog11erra: si pensi a quello che fu lo statuto di palazzo Barberini della socialde1nocrazia, dopo la dura esperienza del P .S.I. U .P.; o a taluni aspetti del nuovo statuto liberale; o anche alle lotte in corso per la proporzionale nel precongresso democristiano; o infine a quelle dei socialisti per ristabilire i probiviri e per sottrarre le misure disciplinari agli organi politici (4). È necessario portarsi su questo terreno di esperienza : dove non s'incontrano solo modelli e soluzioni tecniche di cui tener conto, ma decisive lezioni storico-politiche .da assimilare. . Nel '45, Nenni parlava dei partiti come « la democrazia che si organizza >>, colmando il vuoto dell'astratto costituzionalismo liberale: eppure r proprio nei grandi partiti si rivela più acuta l'incapacità delle classi dirigenti democratiche nel dopoguerra a fondare e vivere una salda legalità -di partito. Le obbiezioni sc~ttiche al riguardo sembra110 poco concludenti: anche a te11ersi al solo punto di vista dell'efficienza, e non ancora ,della libertà, la potenza di un partito è ben legata al suo patrimonio di -costume giuridico, al radicarsi, cioè, nella pratica collettiva, della metodologia della sua azione politica. Sono state di moda, negli anni andati, ·stucchevoli variazioni sul tema gramsciano del partito, protagonista storico del « moderno Principe >>: ma non si dà autentica volontà di politica senza incisività giuridica; e alla fondazione ideale dello Stato moderno _sono pur necessari e Machiavelli e Bodin ... (4) « Raccolta degli statuti dei partiti politici in Italia », Milano, Giuffrè 1958, con un saggio introduttivo di 11ario Di' Antonio: La, regolazione del partito politico.· L20] Biblioteca Gino. Bianco

A leggere come una fonte di storia contemporanea la raccolta di statuti curata recentemente da Negri e D'Antonio per una casa di edizioni giuridiche (5) ci si può fare un quadro, parziale, ma assai più illuminante di quanto non si immagini, della vita interna dei nostri partiti; e se ne possono dedurre anche elementi che ne precisano la fis~onomia ideologica concreta (si pensi al « Fuhrer-Prinzip )) che signoreggia nello statuto del Movimento Sociale Italiano ed è anzi, tra molta retorica inutile, il solo che vi assuma concreto rilievo giuridico). Ma tornano alla mente le allibite espressioni dei giuristi della Rinascenza di fronte alla « feudistica farrago )), al caos della giurisprudenza feudale, quando ci si rende conto che gli statuti in questione sono redatti, si direbbe, ora da candidi giuristi inesperti di politica (nelle sue moderne « dimensioni )): sociologia, tec11ichedi organizzazione, pensiero e pratica costituzionali), ora da politici e organizzatori sprezzanti del diritto e della precisione tecnica del suo linguaggio: che è poi, in radice, chiara coscienza della situazione storica. Su un esile schema privatistico, ricalcato sul Codice Civile, si vengono stratificando residui dell'eredità prefascista, essa stessa in parte già arcaica rispetto alle prime esperienze proporzionalistiche (non va dimenticato che i partiti sono, sotto un certo profilo, una creazione delle leggi elettorali). Su questo sfondo, risaltano poi, come incastonati, elementi moderni, e caratteristici, che riflettono le esperienze di questi anni. Ma si tratta nella maggior parte dei casi (è pur inevitabile una certa generalizzazione) di modificazioni frammentarie, dettate da necessità incalzanti più che sorrette da un pensiero organico: sottintendono nuove concezioni giuridiche, o piuttosto vi alludono, anzichè svolgerle in un disegno compiuto. Allo stesso Candido il paese dei partiti si offrirà « più ricco di giusti che di giuristi )). III. Considerando l'attuale crisi del diritto dei partiti, giova ricordare le parole di Leopoldo Piccardi sulle responsabilità dei giuristi italiani (6). Una delle ragioni delle insufficienze degli stati è anche, in effetti, nel venir meno (5) Idem. ( 6) Vedi Lo stato attuale della scienza del diritto amministrativo e le responsa- [21] iblioteca Gino Bianco

·del lavoro di riflessione da parte di coloro che saprebbero e potrebbero riconoscere le linee dominanti dei mutamenti in corso, sceverare quel che nella prassi merita di venir trasmesso e generalizzato, fissare i « casi >> maggiormente significativi .in un ordinato sistema di precedenti, estrarne i principi generali comuni. Con tanti prologhi in cielo sulle filosofie dell'esperienza giuridica, e sulla cosiddetta « pluralità degli ordinamenti giuridici >> (cioè, sulla vigenza sociale di un diritto non posto direttamente dallo Stato), la nostra cultura non possiede nessuna ricostruzione generale del diritto dei · partiti dovuta all'opera dei giuristi e fo11data sugli strumenti concettuali . della scienza giuridica: come pure si è fatto, ad esempio, dal CesariniSforza per il « diritto sportivo >> e da Calama11drei per le regole cavalleresche in quanto diritto della « comunità dei gentiluomini >> (7). Proprio i giuristi che vivono la vita delle grandi organizzazioni politiche sembrano colpiti da una singolare scissione della personalità: pensiero giuridico e pensiero politico; anche moderni entrambi, non giungono a fondersi. Un caso esemplare è quello del Principe senza scettro di Lelio Basso, tema di estrema suggestione, svolto no11già reinterpretando direttamente la propria incomparabile esperienza di vita costituzionale e parlamentare, ma sull'autorità di giuristi cattedratici (8). Una zona ricchissima di esperienze giuridiche vive così abbandonata bilità dei giuristi, in « Studi per V. E. Orlando », 1951, vol. II, 221-241: « ... Perchè l'atteggiamento dello studioso che identifica nei confini della sua particolare disciplina i limiti della sua cultura e della sua personalità lascia nella società un vuoto incolmabile. Chi se non il giurista nutrito di cultura storica, attento a ogni esperienza, animato da una fervida passione civica, saprebbe indicare ai politici gli strumenti e le _forme in cui possono tradursi le istanze della loro azione, additare le incongruenze degli ordinamenti positivi, segnalare la necessità di sopprimere istituti superati dal tempo, proporre alla discussione temi e alternative? ... Conclusione amara e sterile, la cui responsabilità spetta in maggior parte ai governi, ma in una certa misura ai giuristi, rimasti assenti da una discussione nella quale ad essi spettava una parola dec1s1va ». (7) Vedi, tuttavia, di Leopoldo Elia: I partiti politici visti attraverso i loro statuti, in « Cronache sociali », 1948, 15 febbraio; vedi anche alcune linee di una possibile· ricostruzione in Virga P.: Il partito nell'ordinamento giuridico, Giuffrè, Milano 1948, 199 ss. (8) Lelio Basso: Il principe senza scettro: democrazia e sovranità popolare nella Costituzione italiana, Feltrinelli, Milano, 1958; e si veda la polemica seguita in « Nord -e Sud », luglio e nqvembre 1958. . [22] Biblioteca Gino. Bianco

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